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Muoversi a ritmo

ARTICOLO SCRITTO DA: FRANCESCA DA RE FORMATRICE SCUOLA OLTREMUOVERSI A RITMO“Forza bimbi, a ritmo con la musica!” “E un, due, tre…e un, due, tre” “Guarda, ha il ritmo nel sangue!” “Mettiamo la musica e cerchiamo di andare a ritmo”… Ritmo… Ritmo… Ritmo… una parola semplice a dirsi quanto difficile da realizzare e trasmettere al prossimo. Solitamente le persone si dividono in due gruppi: chi il ritmo lo sente a pelle, chi il ritmo non lo sente per niente; ma è davvero così marcata e invalicabile la linea tra questi due gruppi di persone? Assolutamente, no!Secondo la definizione della Treccani[1], la parola “ritmo” significa «il succedersi ordinato nel tempo di forme di movimento, e la frequenza con cui le varie fasi del movimento si succedono». Il termine ha una bellissima origine che ci riporta al greco ῥυϑμός, affine al verbo ῥέω che significa “scorrere”: il ritmo è qualcosa che scorre, che fluisce con costanza, come lo scorrere naturale dell’acqua di un ruscello. Con riferimento ai movimenti, viene definito con «passi, mosse studiati in modo che ne risulti un movimento armonico, come di danza». Ed ecco un’altra parola del mondo della musica, armonia, che insieme al ritmo sono due dei tre elementi costitutivi della musica, insieme alla melodia.Tradurre il ritmo in azioni e movimenti non è scontato e semplice, ma è un processo che va insegnato e accompagnato nella sua evoluzione. Il ritmo in fondo ce lo abbiamo dentro di noi fin dalla nascita, anzi ancor prima, dalla vita intrauterina in cui un ritmo incessante e forte si fa sentire dentro il nostro corpo: il battito cardiaco! Tu Tum…Tu Tum…Tu Tum… Fa parte di noi, anche se non sempre lo ascoltiamo, spesso nemmeno lo sentiamo, eppure questo ritmo innato ci accompagna da sempre ed è il punto di partenza per tutti noi per sviluppare il senso del ritmo.Il primo passo è quindi quello di iniziare ad ascoltarsi e poi ad ascoltare ciò che c’è attorno a noi, i suoni della natura, le melodie, le musiche e farle nostre, trovando quella regolarità di suoni che lo rende meraviglioso, così ipnotico, e che lo fa distinguere dal resto di rumori e suoni senza definizione. Solo allora potremo fare il passaggio successivo, ovvero replicare il ritmo con movimenti del nostro corpo. Sentire, ascoltare, interiorizzare ed esprimere.Sono passaggi obbligatori per lo sviluppo di questa capacità, sia per noi adulti, ancor di più nei bambini, ma che con costanza, lungimiranza nel tempo e attività specifiche possono far germogliare quel piccolo semino che è il ritmo che è già dentro di noi e di loro.Il ritmo e la sua espressione con il movimento rientrano nelle sette Capacità Coordinative identificate dal Blume nel 1981[2]: tali capacità sono «i presupposti della prestazione motoria di un soggetto, in parte sviluppabili e in parte predeterminate geneticamente, determinate prevalentemente dai processi di controllo del movimento, che rendono un soggetto più o meno capace di esercitare con successo determinate attività motorie». Da questa definizione si capisce la loro importanza per i bambini di oggi (e adulti di domani) in quanto sono alla base del controllo del movimento: per essere acquisite sviluppano analizzatori sensoriali, cinestetici e percettivi, dislocati in tutto il corpo, e sono collegate allo sviluppo del Sistema Nervoso Centrale.Nello specifico, il Blume definisce la capacità di ritmizzazione come «la capacità di intuire un ritmo imposto dall’esterno e di riprodurlo nei propri movimenti o la capacità di riprodurre un ritmo frutto della propria immaginazione o memoria». Anche in questo caso, l’acquisizione e lo sviluppo di questa capacità andrà per gradi, iniziando prima dal tradurre in movimento un ritmo esterno e solo successivamente riproducendo in maniera autonoma un proprio ritmo inventato o ricordato.Seppur tale capacità ha come fase sensibile i 7 e 11 anni circa (per fase sensibile intendiamo l’età in cui il bambino è maggiormente predisposto a sviluppare e apprendere tali capacità), il seme del ritmo va stimolato già in tenera età, in modo da preparare il terreno fertile per la futura evoluzione.Piccoli accorgimenti durante le lezioni di motricità e attività specifiche proposte con costanza nel tempo durante l’anno scolastico e, in maniera continuativa, da un anno all’altro, bastano per stimolare l’ascolto e l’interiorizzazione del ritmo esterno: muoversi o camminare seguendo il battito di mani, muoversi a turno battendo mani e piedi seguendo le indicazioni date dall’esterno, percuotere il proprio corpo come uno strumento a percussione insieme ai compagni e/o seguendo strutture ritmiche semplici, muoversi in maniera differente a seconda della melodia della musica di sottofondo.Queste sono solo alcune delle proposte a corpo libero che possono essere portate alla Scuola dell’Infanzia e del Primo Ciclo di Scuola Primaria: altrettante possono essere fatte con l’utilizzo di piccoli strumenti e materiali che ci possono essere di supporto per il ritmo, ma anche per il gioco. Se al ritmo e alla musica abbiniamo anche testi di storie e poesie, il lavoro sulla ritmizzazione diventa molto più ampio e trasversale, e soprattutto magico per i bambini! Il suono e il ritmo che pervade tutto, noi e la stanza, il movimento del corpo che ci fa sentire parte di queste note, le parole che accompagnano questa espressione in un viaggio attraverso storie e mondi paralleli.Se vuoi approfondire quanto letto in questo articolo, il corso “Parole, Movimento e Musica: un incontro stupefacente!” è quello che fa per te!

Il Nobel per la Medicina 2022 a Svante Pääbo

Il Nobel 2022 per la Medicina va allo svedese Svante Pääbo “per le sue scoperte sul genoma di ominini estinti e sull’evoluzione umana”. Svante Pääbo, classe 1955, ha fondato una disciplina completamente nuova, la paleogenomica. Rivelando le differenze genetiche che separano tutti gli uomini viventi dagli ominini estinti, le sue scoperte hanno fornito le basi per esplorare le caratteristiche che ci rendono unicamente umani.

Quello di Pääbo non è il primo Nobel in famiglia: Svante è figlio del biochimico svedese Sune Karl Bergström, co-vincitore del Nobel per la medicina nel 1982 per gli studi sulle prostaglandine (mediatori chimici nei processi derivanti dalle infiammazioni). Ma ha assunto il cognome della madre, Karin Pääbo.

Eredità nascosta. Che cosa rende l’Homo sapiens unico rispetto agli altri ominini? Attraverso le sue pionieristiche ricerche di genetica evolutiva, Svante Pääbo ha fornito gli elementi fondamentali per provare a rispondere. Il biologo svedese è riuscito nell’impresa apparentemente impossibile di sequenziare il genoma del nostro “cugino” estinto, l’Uomo di Neanderthal; ha inoltre firmato una scoperta sensazionale, quella di un ominine a lungo sconosciuto – l’Uomo di Denisova.

Pääbo ha capito per primo che il trasferimento di geni da queste specie alla nostra è avvenuto dopo l’uscita dell’Homo sapiens dall’Africa, circa 70.000 anni fa. Questo antico passaggio di geni all’uomo moderno ha conseguenze fisiologiche rilevanti per la nostra salute: da qui la decisione di assegnare allo scienziato il Nobel per la Fisiologia o la Medicina. I geni ereditati da questi ominini estinti hanno per esempio effetti su come il sistema immunitario umano reagisce alle infezioni.

In cerca di risposte. Sappiamo che l’Homo sapiens apparve per la prima volta in Africa circa 300.000 anni fa e che i Neanderthal, i nostri più vicini parenti estinti, si diffusero in Europa e Asia occidentale a partire da 400.000 anni fa e fino alla loro definitiva estinzione, 30.000 anni fa. Circa 70.000 anni fa, alcuni gruppi di sapiens migrarono fuori dall’Africa verso il Medio Oriente prima di spargersi nel resto del mondo. Sapiens e Neanderthal sono quindi coesistiti in Eurasia per decine di migliaia di anni. Ma in che modo interagirono? La risposta oggi viene prevalentemente dalla paleogenomica, la scienza fondata da Svante Pääbo.

Il pezzo mancante del puzzle. Alla fine degli anni ’90 il genoma umano era stato quasi interamente sequenziato, ma per capire le relazioni tra umani moderni e Neanderthal estinti c’era bisogno di sequenziare il DNA di questi ominini arcaici. All’inizio della sua carriera, Svante Pääbo intuì l’affascinante possibilità di studiare il DNA Neanderthal con metodi genetici moderni, ma ne capì anche l’estrema difficoltà: con il tempo il DNA si modifica e degrada, si riduce in piccoli frammenti e contamina con batteri e geni dell’uomo moderno. Sotto la guida di Allan Wilson, pioniere degli studi di biologia evolutiva, l’allora post-doc Svante Pääbo iniziò a studiare metodi specifici per sequenziare il DNA dei Neanderthal, sfidando il tempo.

Una sfida impossibile (o quasi). Nel 1990 Pääbo, appena divenuto Professore all’Università di Monaco, decise di analizzare il DNA dei mitocondri dei Neanderthal. Il DNA mitocondriale contiene soltanto una frazione delle informazioni genetiche della cellula, ma è presente in migliaia di copie e questo aumenta le probabilità di successo “di lettura”. Grazie ai metodi appena sviluppati, Pääbo riuscì a sequenziare una regione del DNA mitocondriale a partire da un frammento di osso di Neanderthal vecchio 40.000 anni. Fu la prima sequenza genetica di un nostro parente estinto. Confrontandolo con il DNA di sapiens e di scimpanzé si vide chiaramente che i Neanderthal erano geneticamente diversi da noi (cioè che non sono nostri “avi”).

La differenza tra DNA nucleare e mitocondriale. Il secondo contiene informazioni limitate, ma in molte più copie.
© Nobel Prize

Un pezzo di Neanderthal in noi. Ma come dicevamo, le informazioni fornite dal DNA mitocondriale sono limitate. Bisognava riuscire a sequenziare il DNA nucleare, quello che si trova, cioè, non negli organelli cellulari chiamati mitocondri bensì nel nucleo delle cellule. Pääbo, nel frattempo approdato al Max Planck Institute di Lipsia (Germania) e circondato da esperti collaboratori, continuò a migliorare i metodi per isolarlo dai resti di ossa rinvenuti da archeologi e paleontologi. Fino al 2010, quando riuscì a pubblicare la prima sequenza genetica di Neanderthal: confrontandola con la nostra si vide che il più recente antenato comune tra sapiens e Neanderthal era vissuto circa 800.000 anni fa.

C’erano ormai gli strumenti per capire quale relazione avesse legato la nostra specie con quella di questi ominini estinti. Pääbo scoprì che il DNA Neanderthal che aveva sequenziato è più simile a quello dei sapiens moderni di origine europea e asiatica che a quello dei sapiens moderni di origine africana. Significa che Homo sapiens e Neanderthal si incrociarono durante la loro convinvenza fuori dall’Africa. E anche che l’uomo moderno ospita, nel suo DNA, una porzione pari all’1-4% di genoma Neanderthal.

L’uomo di Denisova. Nel 2008 nella grotta di Denisova, nel sud della Siberia, fu ritrovato il frammento di un osso di un dito contente DNA in un eccellente stato di conservazione. Pääbo non perse tempo e si mise a sequenziarlo, arrivando a una scoperta epocale: quel DNA non simigliava né a quello dell’uomo moderno né a quello Neanderthal. Si trattava del codice genetico di una nuova specie di ominine, che venne chiamata Uomo di Denisova. Anch’esso ci ha lasciato in eredità una parte di geni. Le popolazioni della Melanesia e di altre parti del sudest Asiatico ospitano fino al 6% di DNA denisoviano.

Homo sapiens, Neanderthal e Denisoviani. Migrazioni e incroci
© Nobel Prize

Migrazioni e fisiologia. La nostra comprensione della storia evolutiva e delle migrazioni dei sapiens si basa sulle scoperte di Pääbo. Uscito dall’Africa l’Homo sapiens si incrociò con almeno due popolazioni di ominini estinte, i Neanderthal in Eurasia e i Denosiviani in Asia orientale. Omini arcaici potrebbero essersi incrociati con i sapiens anche in Africa, ma non ne abbiamo le prove a causa della degradazione del DNA arcaico nei climi tropicali.

Ma le scoperte di Pääbo sono rilevanti anche per la comprensione della fisiologia dell’uomo moderno. Un esempio? La versione denisoviana del gene EPAS1, comune nelle odierne popolazioni tibetane, conferisce un vantaggio di sopravvivenza alle altitudini elevate.

Sapevate che…? Dal 1901 sono stati assegnati 112 Nobel per la Medicina o la Fisiologia a un totale di 224 scienziati. Il più giovane a riceverlo è stato Frederick G. Banting, che aveva 32 anni quando, nel 1923, fu premiato insieme a John James Rickard Macleod per la scoperta dell’insulina come cura contro il diabete. Il più anziano laureato invece è stato Peyton Rous, premiato nel 1966, a 87 anni, per la scoperta dei virus che inducono tumori. Soltanto 12 tra gli scienziati a cui è stato riconosciuto questo premio sono donne. Tra queste c’è l’italiana Rita Levi-Montalcini, insignita del Nobel nel 1986 per le sue scoperte sui fattori di crescita.

A condividere il Nobel per la Medicina sono state in un paio di casi due coppie: Carl Cori e Gerty Cori (1947), premiati per aver scoperto come il glicogeno (la riserva glucidica del corpo umano) viene risintetizzato dall’organismo; e più di recente May-Britt Moser e Edward Moser, per aver contribuito a chiarire come il cervello si orienta nello spazio.

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Una famiglia da Nobel

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