In Nord Africa e Medioriente sempre più estati a 56° nei prossimi 50 anni

Una ricerca di Cyprus Institute, Max Planck Institute for Chemistry e Fondazione CMCC per la prima volta fornisce dati su un hot spot climatico. “Impatto devastante se non si agisce subito, le conseguenze ci saranno anche in Italia”

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Il Nobel per la Chimica 2022

Il Nobel per la Chimica 2022 va a Carolyn R. Bertozzi, Morten Meldal e K. Barry Sharpless “per lo sviluppo della click chemistry e della chimica bioortogonale”. Nonostante i termini un po’ complessi, il Nobel di quest’anno premia metodologie che rendono processi difficili più facili. Barry Sharpless (Scripps Research, La Jolla, California) e Morten Meldal (Università di Copenhagen, Danimarca) hanno gettato le basi di una forma di chimica funzionale – la click chemistry o “chimica a scatto”, in cui i mattoni di base delle molecole vengono incastrati velocemente e in modo efficiente. Carolyn Bertozzi (Stanford University, California) ha portato la click chemistry a una nuova dimensione, iniziando a utilizzarla negli organismi viventi.

Un nuovo ideale di chimica. I chimici sono stati a lungo spinti dal desiderio di costruire molecole sempre più complesse, per esempio ricreando artificialmente molecole naturali con proprietà medicinali. Processi ammirevoli che hanno portato a costruzioni molecolari raffinate, ma allo stesso tempo assai lunghi, tortuosi e dispendiosi perché composti da molti passaggi, ciascuno dei quali può creare sottoprodotti inutili e indesiderati, che devono essere rimossi prima che il lavoro possa continuare. Il Nobel per la Chimica 2022 ha a che fare con lo sforzo opposto – lavorare in modo semplice e veloce andando dritto al punto e senza generare reazioni e sottoprodotti non necessari. Lasciare che prevalgano semplicità e funzionalità.

Il contributo di ciascuno. Barry Sharpless è stato il primo a intuire la possibilità di costruire molecole complesse unendo in modo rapido blocchi più piccoli, e a coniare il termine click chemistry nel 2001. Per Sharpless si tratta del secondo Nobel per la Chimica: il primo è proprio del 2001, «per il suo lavoro sulle reazioni di ossidazione attivate da catalisi chirale». Poco tempo dopo, Morten Meldal e Barry Sharpless sono giunti in modo indipendente a presentare il fiore all’occhiello di questo tipo di chimica, la cicloaddizione azide-alchino catalizzata da rame, una reaizone chimica efficiente ed elegante che ha molte applicazioni ed è utilizzata nello sviluppo di medicinali, nella mappatura del DNA e per creare materiali con proprietà particolari.

Carolyn Bertozzi ha portato la chimica a scatto a un altro livello. Nel tentativo di mappare importanti e sfuggenti biomolecole che si trovano sulla superficie delle cellule, i glicani, ha sviluppato reazioni di click chemistry che funzionano negli organismi viventi. Si chiamano reazioni bioortogonali, che avvengono senza disturbare la normale chimica delle cellule.

Oggi queste reazioni si usano in tutto il mondo per esplorare le cellule e monitorare i processi biologici; sono state sfruttate per migliorare le terapie oncologiche e mettere a punto farmaci più mirati che sono ora in fase di test.

Non complichiamoci la vita. Tutto ha avuto inizio da un’intuizione di Sharpless, che nel 2001, in una rivista scientifica ha auspicato a un nuovo approccio alla chimica, più minimalistico. Lo scienziato era convito fosse arrivato il momento di smettere provare a creare copie esatte di molecole che in natura si formano facilmente, ma che è troppo difficile ottenere su larga scala in laboratorio. Anche se non è sempre possibile creare molecole che imitino in tutto e per tutto quelle trovate in natura, si può però provare a produrne altre che abbiano le stesse funzioni e che allo stesso tempo siano facilmente lavorabili su scala industriale.

La reazione ideale per la click chemistry, ossia la cicloaddizione azide-alchino catalizzata da rame.
© Nobel Prize

Requisiti di base. Sharpless elenca alcuni criteri che le reazioni chimiche devono rispettare per essere definite click chemistry: devono per esempio essere modulari e versatili, dare rese molto elevate, portare a prodotti fisiologicamente stabili, avvenire in presenza di ossigeno e acqua, che è un solvente onnipresente in natura, economico e amico dell’ambiente. Ce ne sono diverse che rispondono a questi criteri, ma nessuna è efficiente come la cicloaddizione azide-alchino catalizzata da rame (qui a fianco), che oggi viene usata per collegare molecole in maniera semplice.

infinite potenzialità. Questa reazione – concludono Sharpless e Meldal separatamente ma nello stesso anno, il 2002 – ha un potenziale enorme perché permette di unire facilmente molecole diverse. Azide e alcani sono composti organici, cioè composti a base di atomi di carbonio collegati ad altri elementi. Da questo momento in poi per connettere due molecole basterà introdurre un azide in una di esse e un alcano in un’altra e poi incastrarle con l’aiuto di alcuni ioni di rame.

La semplicità di questa reazione la rende anche estremamente popolare, e non solo tra i ricercatori. Può per esempio facilitare la produzione industriale perché permette di cambiare le proprietà di un materiale in qualunque fase. Aggiungendo un azide alla plastica o alle fibre di tessuto è possibile aggiungere sostanze che conducono elettricità, catturano la luce solare, che hanno proprietà antibatteriche o proteggono dai raggi UV. Senza contare che la click chemistry permette di ottimizzare sostanze che possono diventare nuovi farmaci. Nessuno fino a quel momento aveva però predetto che potesse essere usata anche negli esseri umani.

Nel corpo umano. Carolyn Bertozzi riesce a utilizzare la click chemistry per introdurre molecole fluorescenti nei glicani, carboidrati complessi costituiti da diversi tipi di zuccheri che spesso si trovano sulla superficie di cellule e proteine e che giocano un ruolo importante in molti processi biologici. In questo modo i glicani, e in seguito altre proteine, diventano tracciabili in tempo reale senza che la cellula venga in alcun modo disturbata. Bertozzi conia l’espressione chimica bioortogonale per dire che questa forma di mappatura non deve interferire né interagire con i processi biologici delle cellule – per esempio non deve causare tossicità. E siccome il rame è tossico per i viventi, trova il modo di ricreare la stessa reazione chimica studiata dagli altri due premiati senza l’aiuto degli ioni di rame, costringendo gli alcani ad assumere una struttura chimica ad anello.

Lotta ai tumori. Questa reazione mostra di funzionare benissimo negli ambienti cellulari: può essere usata per studiare come le biomolecole interagiscono con i processi cellulari, per esempio in caso di malattia. Bertozzo scopre che alcuni glicani proteggono i tumori dal sistema immunitario perché “spengono” le cellule immunitarie.

La scienziata sviluppa con il suo gruppo alcuni farmaci specifici che contrastino questo meccanismo: lega anticorpi specifici per i glicani ad enzimi che li degradino sulla superficie delle cellule tumorali. Questo medicinale è attualmente in fase di test su pazienti con forme avanzate di tumore. Seguendo le sue orme, molti ricercatori hanno iniziato a lavorare ad anticorpi “a scatto”: un primo anticorpo attacca il tumore, e a quel punto viene inserita una seconda molecola, per esemmpio un radioisotopo che possa aiutare a tener traccia del cancro o che dia una dose letale di radiazioni alle cellule malate.

Click chemistry e chimica bioortogonale hanno portato la chimica in una nuova era, quella del funzionalismo, in cui questo ramo della scienza è veramente a servizio dell’umanità.

Sapevate che…? Dal 1901 al 2021 sono stati assegnati 113 Nobel per la Chimica a 188 scienziati – anzi, a 187 visto che il britannico Frederick Sanger lo ha vinto due volte (nel 1958 per il suo lavoro sulla struttura delle proteine, in particolare dell’insulina, e nel 1980 per il suo contributo alla determinazione della sequenza base negli acidi nucleici). Il più giovane vincitore finora è stato Frédéric Joliot, che aveva 35 anni quando fu premiato insieme alla moglie Irène Curie (figlia di Marie e Pierre) nel 1935; il più anziano è stato John B.

Goodenough, che ne aveva 97 quando, nel 2019, fu premiato per lo sviluppo delle batterie agli ioni di litio.

Solo 7 tra i premiati sono donne: tra queste spiccano Marie Curie (1911, per la scoperta e lo studio del radio e del polonio), la figlia Irène (1935, per la sintesi di nuovi elementi radioattivi), e più di recente Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna, premiate nel 2020 per la scoperta delle forbici molecolari CRISPR/Cas9. Ricevendo il Nobel, Charpentier ha detto: «Le donne possono lasciare un segno importante nella scienza ed è importante che lo sappiano le ragazze che vogliono lavorare nella ricerca. Spero che questo riconoscimento sia un messaggio positivo e che dimostri loro che le donne possono avere un impatto attraverso le ricerche che svolgono».

La covid è stata meno letale in Africa?

Nei primi mesi di pandemia si temeva che la covid fosse destinata a investire gli Stati africani come uno tsunami. Paesi come la Sierra Leone, che possono contare su tre medici ogni 100.000 abitanti e che sono già messi duramente alla prova da malaria, tubercolosi, HIV, Ebola e malnutrizione, avrebbero riportato – si diceva – un numero disastroso di casi e di decessi. Non sembra essere andata così. Ma non è per niente chiaro se si possa realmente parlare di scampato pericolo.

Il basso tasso di infezioni, ricoveri e decessi per covid in Africa occidentale e centrale è uno dei misteri irrisolti della pandemia: dipende semplicemente dalla mancata registrazione dei casi? Se il SARS-CoV-2 fosse stato in Africa meno letale che altrove, quali fattori hanno protetto la popolazione? E se invece la pandemia avesse duramente colpito questo come altri continenti, come abbiamo fatto a non accorgercene? La questione è ripresa in un articolo sul New York Times.

Molte infezioni. Sul fatto che il virus abbia potuto circolare ampiamente anche in Africa non ci sono più dubbi. Diversi studi che coprono quasi tutti i Paesi dell’Africa subsahariana evidenziano la presenza di anticorpi anti SARS-CoV-2 nei due terzi della popolazione. E siccome soltanto il 14% degli abitanti di questi Stati è stato vaccinato, quelle che osserviamo sono le difese immunitarie sviluppate in seguito all’infezione vera e propria. Secondo un’analisi dell’OMS non ancora pubblicata in peer-review, che prende in considerazione l’Africa intera, il 65% degli africani aveva contratto il virus entro fine 2021. I contagi ci sono stati, eccome.

Giovane età. Perché allora così pochi decessi? Una delle poche spiegazioni convincenti riguarda le caratteristiche anagrafiche della popolazione. L’età mediana (ossia quella che si colloca nel mezzo nella successione di valori) degli africani è di 19 anni; in Europa è di 43 anni e negli USA di 38. In Africa subsahariana, due terzi della popolazione ha meno di 25 anni, e in questa fase della vita non c’è ancora stato tempo per sviluppare quelle patologie (diabete, obesità, problemi cardiovascolari, cancro, malattie respiratorie croniche) che aumentano il rischio di contrarre la covid in forma grave. I giovani manifestano più spesso la covid in forma lieve o asintomatica e questo potrebbe spiegare il basso numero di casi rilevato.

Il confronto con l’India. Altre ipotesi circolate sono state le alte temperature, la bassa densità di popolazione in certe aree rurali, la limitata disponibilità di trasporti pubblici e la compresenza di infezioni, come malaria, febbre Lassa o Ebola, che potrebbero aver offerto una qualche forma di protezione aggiuntiva (per gli anticorpi o per i comportamenti preventivi mantenuti). Ma i milioni di decessi causati dalla variante Delta in India rendono difficile accettare queste spiegazioni. Dopotutto, l’età mediana della popolazione in India è di 28 anni, le temperature sono elevate anche lì e l’incidenza dei casi di malaria o di altre infezioni da coronavirus è comunque alta.

Pochi dati a disposizione. Rimane allora da pensare che le morti per covid in Africa non siano state adeguatamente contate. Una ricerca della Njala University della Sierra Leone ha trovato anticorpi al nuovo coronavirus nel 78% della popolazione, ma il Paese ha riportato appena 125 morti per covid dall’inizio della pandemia. In parte potrebbe dipendere da un sistema di testing praticamente inesistente, e in parte dal fatto che i pazienti muoiono a casa, per la lontananza degli ospedali o per scelta dei parenti. Secondo la Commissione economica per l’Africa (ECA) in Africa subsahariana sarebbe stata registrata soltanto una morte per covid ogni tre.

Ma l’impatto del virus in Sudafrica rende difficile pensare che altri Paesi con sistemi sanitari più fragili siano stati risparmiati. Nella nazione che per prima ha individuato la variante Omicron ci sono state, tra marzo 2020 e settembre 2021, 250.000 morti in più di quelle che si sarebbero verificate per cause naturali, e tutte in corrispondenza delle ondate di covid.
«Se sta succedendo in Sudafrica, perché qui dovrebbe essere diverso?», ha detto al New York Times Lawrence Mwananyanda, epidemiologo dell’Università di Boston e consigliere sanitario del Presidente dello Zambia, Paese con 18 milioni di abitanti e solo 4.000 decessi da covid ufficiali. Uno studio coordinato da Mwananyanda ha trovato tracce di SARS-CoV-2 nell’87% dei corpi presenti negli obitori degli ospedali dello Zambia, e per l’Economist le morti in eccesso per covid in Africa dall’inizio della pandemia sarebbero tra 1 e 2,9 milioni.

Perché nessuno se ne è accorto? La teoria delle mancate registrazioni non trova consenso tra gli scienziati che lavorano sul territorio africano. Referti a parte, se il virus fosse stato letale come altrove si sarebbero dovuti vedere ospedali sovraffollati, mancanze di bare, funerali di massa, e così non è stato (se si esclude il caso del Sudafrica). La burocrazia può anche non tenere il passo con un numero inusuale di decessi, ma in molte circostanze è mancata anche la percezione sociale di quelle morti, nei media locali e nelle cerchie di amici e conoscenti.

Vaccinare tutti vale la pena? E se il mistero è destinato per ora a rimanere irrisolto, il basso tasso di morti sta spingendo alcuni a ripensare le politiche sanitarie africane. Secondo John Johnson, consigliere per le vaccinazioni di Medici Senza Frontiere, l’obiettivo di vaccinare il 70% della popolazione africana poteva aver senso un anno fa, quando si credeva di poter arginare la trasmissione del virus.
Ma ora che sappiamo che il sogno dell’immunità di gregge è svanito anche in Paesi con alte disponibilità di dosi varrebbe forse la pena proteggere soltanto i più vulnerabili, e investire le risorse in altre emergenze sanitarie come la malaria, la polio, il colera, la meningite e l’insicurezza alimentare. Questo, presupponendo che le prossime varianti di covid siano meno letali, com’è avvenuto con Omicron. Ma chi può esserne sicuro?