L’origine dell’uomo

Lucy australopiteca

Gli scienziati datano l’origine dell’uomo a circa 7 milioni di anni fa, in Africa orientale (esattamente in Kenya, Etiopia e Tanzania), quando un antenato comune alle scimmie diede via alla discendenza degli ominidi, famiglia alla quale appartiene l’uomo.

Gli ominidi sono una famiglia di primati (mammiferi placentati) di cui fanno parte gli oranghi, i gorilla, gli scimpanzé, l’uomo e altri Homo.

Il più antico ominide è l’Australopiteco, vissuto in Africa già 4,5 milioni di anni fa. Il reperto osseo più antico, trovato dai paleontologi, fu scoperto nel 1974 in Etiopia e chiamato Lucy (da una nota canzone dei Beatles).

Più evoluto è l’Homo habilis, vissuto due milioni di anni fa in Africa, capace di fabbricare utensili di pietra utilizzando la selce.

Altre specie di ominide furono l’Homo erectus, vissuto un milione e mezzo di anni fa, che fu il primo ad utilizzare il fuoco; l’Homo sapiens che arrivò fino in America e dal quale discende l’Homo di Neanderthal, stanziatosi in Germania, il primo in grado di formulare pensieri.

Il nostro antenato è l’Homo sapiens sapiens che lasciò le prime tracce di sé in Africa tra 150 e 200 mila anni fa. Di lì si diffuse in tutti i continenti, arrivando in Europa tra i 60 e i 40 mila anni fa.

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Il Nobel per la Medicina 2022 a Svante Pääbo

Il Nobel 2022 per la Medicina va allo svedese Svante Pääbo “per le sue scoperte sul genoma di ominini estinti e sull’evoluzione umana”. Svante Pääbo, classe 1955, ha fondato una disciplina completamente nuova, la paleogenomica. Rivelando le differenze genetiche che separano tutti gli uomini viventi dagli ominini estinti, le sue scoperte hanno fornito le basi per esplorare le caratteristiche che ci rendono unicamente umani.

Quello di Pääbo non è il primo Nobel in famiglia: Svante è figlio del biochimico svedese Sune Karl Bergström, co-vincitore del Nobel per la medicina nel 1982 per gli studi sulle prostaglandine (mediatori chimici nei processi derivanti dalle infiammazioni). Ma ha assunto il cognome della madre, Karin Pääbo.

Eredità nascosta. Che cosa rende l’Homo sapiens unico rispetto agli altri ominini? Attraverso le sue pionieristiche ricerche di genetica evolutiva, Svante Pääbo ha fornito gli elementi fondamentali per provare a rispondere. Il biologo svedese è riuscito nell’impresa apparentemente impossibile di sequenziare il genoma del nostro “cugino” estinto, l’Uomo di Neanderthal; ha inoltre firmato una scoperta sensazionale, quella di un ominine a lungo sconosciuto – l’Uomo di Denisova.

Pääbo ha capito per primo che il trasferimento di geni da queste specie alla nostra è avvenuto dopo l’uscita dell’Homo sapiens dall’Africa, circa 70.000 anni fa. Questo antico passaggio di geni all’uomo moderno ha conseguenze fisiologiche rilevanti per la nostra salute: da qui la decisione di assegnare allo scienziato il Nobel per la Fisiologia o la Medicina. I geni ereditati da questi ominini estinti hanno per esempio effetti su come il sistema immunitario umano reagisce alle infezioni.

In cerca di risposte. Sappiamo che l’Homo sapiens apparve per la prima volta in Africa circa 300.000 anni fa e che i Neanderthal, i nostri più vicini parenti estinti, si diffusero in Europa e Asia occidentale a partire da 400.000 anni fa e fino alla loro definitiva estinzione, 30.000 anni fa. Circa 70.000 anni fa, alcuni gruppi di sapiens migrarono fuori dall’Africa verso il Medio Oriente prima di spargersi nel resto del mondo. Sapiens e Neanderthal sono quindi coesistiti in Eurasia per decine di migliaia di anni. Ma in che modo interagirono? La risposta oggi viene prevalentemente dalla paleogenomica, la scienza fondata da Svante Pääbo.

Il pezzo mancante del puzzle. Alla fine degli anni ’90 il genoma umano era stato quasi interamente sequenziato, ma per capire le relazioni tra umani moderni e Neanderthal estinti c’era bisogno di sequenziare il DNA di questi ominini arcaici. All’inizio della sua carriera, Svante Pääbo intuì l’affascinante possibilità di studiare il DNA Neanderthal con metodi genetici moderni, ma ne capì anche l’estrema difficoltà: con il tempo il DNA si modifica e degrada, si riduce in piccoli frammenti e contamina con batteri e geni dell’uomo moderno. Sotto la guida di Allan Wilson, pioniere degli studi di biologia evolutiva, l’allora post-doc Svante Pääbo iniziò a studiare metodi specifici per sequenziare il DNA dei Neanderthal, sfidando il tempo.

Una sfida impossibile (o quasi). Nel 1990 Pääbo, appena divenuto Professore all’Università di Monaco, decise di analizzare il DNA dei mitocondri dei Neanderthal. Il DNA mitocondriale contiene soltanto una frazione delle informazioni genetiche della cellula, ma è presente in migliaia di copie e questo aumenta le probabilità di successo “di lettura”. Grazie ai metodi appena sviluppati, Pääbo riuscì a sequenziare una regione del DNA mitocondriale a partire da un frammento di osso di Neanderthal vecchio 40.000 anni. Fu la prima sequenza genetica di un nostro parente estinto. Confrontandolo con il DNA di sapiens e di scimpanzé si vide chiaramente che i Neanderthal erano geneticamente diversi da noi (cioè che non sono nostri “avi”).

La differenza tra DNA nucleare e mitocondriale. Il secondo contiene informazioni limitate, ma in molte più copie.
© Nobel Prize

Un pezzo di Neanderthal in noi. Ma come dicevamo, le informazioni fornite dal DNA mitocondriale sono limitate. Bisognava riuscire a sequenziare il DNA nucleare, quello che si trova, cioè, non negli organelli cellulari chiamati mitocondri bensì nel nucleo delle cellule. Pääbo, nel frattempo approdato al Max Planck Institute di Lipsia (Germania) e circondato da esperti collaboratori, continuò a migliorare i metodi per isolarlo dai resti di ossa rinvenuti da archeologi e paleontologi. Fino al 2010, quando riuscì a pubblicare la prima sequenza genetica di Neanderthal: confrontandola con la nostra si vide che il più recente antenato comune tra sapiens e Neanderthal era vissuto circa 800.000 anni fa.

C’erano ormai gli strumenti per capire quale relazione avesse legato la nostra specie con quella di questi ominini estinti. Pääbo scoprì che il DNA Neanderthal che aveva sequenziato è più simile a quello dei sapiens moderni di origine europea e asiatica che a quello dei sapiens moderni di origine africana. Significa che Homo sapiens e Neanderthal si incrociarono durante la loro convinvenza fuori dall’Africa. E anche che l’uomo moderno ospita, nel suo DNA, una porzione pari all’1-4% di genoma Neanderthal.

L’uomo di Denisova. Nel 2008 nella grotta di Denisova, nel sud della Siberia, fu ritrovato il frammento di un osso di un dito contente DNA in un eccellente stato di conservazione. Pääbo non perse tempo e si mise a sequenziarlo, arrivando a una scoperta epocale: quel DNA non simigliava né a quello dell’uomo moderno né a quello Neanderthal. Si trattava del codice genetico di una nuova specie di ominine, che venne chiamata Uomo di Denisova. Anch’esso ci ha lasciato in eredità una parte di geni. Le popolazioni della Melanesia e di altre parti del sudest Asiatico ospitano fino al 6% di DNA denisoviano.

Homo sapiens, Neanderthal e Denisoviani. Migrazioni e incroci
© Nobel Prize

Migrazioni e fisiologia. La nostra comprensione della storia evolutiva e delle migrazioni dei sapiens si basa sulle scoperte di Pääbo. Uscito dall’Africa l’Homo sapiens si incrociò con almeno due popolazioni di ominini estinte, i Neanderthal in Eurasia e i Denosiviani in Asia orientale. Omini arcaici potrebbero essersi incrociati con i sapiens anche in Africa, ma non ne abbiamo le prove a causa della degradazione del DNA arcaico nei climi tropicali.

Ma le scoperte di Pääbo sono rilevanti anche per la comprensione della fisiologia dell’uomo moderno. Un esempio? La versione denisoviana del gene EPAS1, comune nelle odierne popolazioni tibetane, conferisce un vantaggio di sopravvivenza alle altitudini elevate.

Sapevate che…? Dal 1901 sono stati assegnati 112 Nobel per la Medicina o la Fisiologia a un totale di 224 scienziati. Il più giovane a riceverlo è stato Frederick G. Banting, che aveva 32 anni quando, nel 1923, fu premiato insieme a John James Rickard Macleod per la scoperta dell’insulina come cura contro il diabete. Il più anziano laureato invece è stato Peyton Rous, premiato nel 1966, a 87 anni, per la scoperta dei virus che inducono tumori. Soltanto 12 tra gli scienziati a cui è stato riconosciuto questo premio sono donne. Tra queste c’è l’italiana Rita Levi-Montalcini, insignita del Nobel nel 1986 per le sue scoperte sui fattori di crescita.

A condividere il Nobel per la Medicina sono state in un paio di casi due coppie: Carl Cori e Gerty Cori (1947), premiati per aver scoperto come il glicogeno (la riserva glucidica del corpo umano) viene risintetizzato dall’organismo; e più di recente May-Britt Moser e Edward Moser, per aver contribuito a chiarire come il cervello si orienta nello spazio.

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Una famiglia da Nobel

Gli ominidi più vecchi di Lucy

Culla dell’Umanità di nome e forse anche di fatto. I resti di alcuni esemplari di Australopithecus rinvenuti nella grotta di Sterkfontein, un sito paleoantropologico in Sudafrica noto come la “Culla dell’Umanità”, sarebbero molto più antichi di quanto si credesse.
Ominidi Prima di Lucy. Una ricerca scientifica che ne ha riesaminato l’età sfruttando un diverso metodo di datazione li colloca a quasi 4 milioni di anni fa: gli ominidi sarebbero vissuti persino prima di Lucy, la femmina di Australopithecus afarensis trovata ad Hadar, in Etiopia. Se la scoperta pubblicata su PNAS fosse confermata, avrebbe implicazioni importanti per lo studio dell’evoluzione umana. 

La culla dell’umanità. Nell’ultimo secolo di scavi il complesso di grotte calcaree di cui fa parte Sterkfontein, non lontano da Johannesburg, ha restituito centinaia di fossili di Australopithecus – inclusi lo scheletro quasi intatto di Little Foot, un australopiteco vissuto 3 milioni e 670mila anni fa, e il cranio fossile di un australopiteco denominato Mrs Ples, due celebrità della paleoantropologia. In totale questo insieme di cavità contiene un terzo dei primi fossili di ominidi trovati fino al 2010.

A quando risalgono i fossili? Datare questi resti è però molto difficile. Basandosi sull’età di fossili animali trovati nelle vicinanze o delle concrezioni calcaree adiacenti si è arrivati a datazioni controverse, comprese tra i 2 milioni di anni fa, cioè prima della comparsa del genere Homo, e i 3 milioni di anni fa (l’australopiteco Lucy, trovato invece in Africa orientale, risale a 3,2 milioni di anni fa). Tuttavia, le concrezioni calcaree si possono formare sopra sedimenti più antichi e secondo alcuni scienziati non sempre costituiscono un metodo di datazione affidabile.

Un approccio diverso. La maggior parte dei fossili di australopiteco di Sterkfontein è stato rinvenuto in un deposito di riempimento (l’insieme dei sedimenti depositati nei vuoti carsici) chiamato Member 4. Nel nuovo studio il team guidato da Darryl Granger, Professore di scienze terrestri, atmosferiche e planetarie della Purdue University (USA), esperto di datazione di depositi geologici, ha applicato a questo deposito lo stesso metodo di datazione già usato per Little Foot: ha esaminato cioè il decadimento radioattivo (ossia la loro trasformazione in altri atomi) di due rari isotopi di alluminio e berillio nella roccia in cui erano rimasti sepolti i resti degli ominidi.

«Questi isotopi radioattivi, conosciuti come nuclidi cosmogenici, sono prodotti dalle reazioni dei raggi cosmici altamente energetici vicino alla superficie del suolo, e il loro decadimento radioattivo fornisce la datazione del momento in cui le rocce furono sepolte nella grotta, quando vi caddero assieme ai fossili» spiega Granger. In pratica il metodo garantisce che lo strato di roccia in cui si trova il fossile da datare sia quello originario.

Quattro diversi crani di australopiteco rinvenuti nella grotta di Sterkfontein, in Sudafrica.
© Jason Heaton, Ronald Clarke/Ditsong Museum of Natural History

Più indietro. Dalla nuova analisi è emerso che i sedimenti in cui si trovavano gli esemplari di Australopithecus erano tutti di un’età compresa tra i 3,4 e i 3,7 milioni di anni fa, la stessa di Little Foot: questi depositi risalgono cioè all’inizio dell’era degli australopitechi e non alla fine, come in precedenza ipotizzato. Un dato, questo, molto importante per comprendere la storia e i luoghi dell’evoluzione umana e il ruolo, in essa, del Sudafrica.

Potenziali antenati. Come spiega Dominic Stratford dell’Università di Witwatersrand (Sudafrica), coordinatore delle ricerche a Sterkfontein, «ominidi più recenti, inclusi il Paranthropus e il nostro genere Homo, compaiono tra i 2,8 e i 2 milioni di anni fa. Basandosi sulle datazioni precedenti, gli australopitechi sudafricani erano troppo “giovani” per essere loro antenati, e si pensava pertanto che Homo e Paranthropus si fossero evoluti in Africa orientale», se non in contemporanea, quasi.

Dal nuovo lavoro emerge invece che Homo e Paranthropus, i cui resti sono peraltro presenti nella grotta Culla dell’Umanità, vissero un milione di anni dopo gli australopitechi presenti nel Member 4 di Sterkfontein. Potrebbero dunque aver avuto tutto il tempo di evolversi qui in Sudafrica e non soltanto in Africa orientale come lungamente ritenuto. Se confermata, la scoperta riporterebbe i fossili di questo sito e il Sudafrica in generale al centro della storia dell’evoluzione dell’uomo.

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10 errori comuni sull’evoluzione

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