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La matematizzazione del Diritto

La matematica dei Romani strumento di civiltà. La grande opera della matematizzazione del Diritto.
I Romani non sono trattati bene dagli storici della matematica.
Si è detto di Morris Kline, che li chiama «agenti distruttori» della matematica e di quanto tali giudizi siano ben radicati nella storiografia. Un Morris Kline del Settecento è, ad esempio, Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783) . Il breve excursus storico che egli traccia nella voce Matematica scritta per l’Encyclopédie (tradotta integralmente per Matmedia da Biagio Scognamiglio) è sufficientemente intriso di giudizi duri, estremi, come il fatto che il popolo dei Romani “pensava soltanto a soggiogare e governare il mondo intero”. Ed è indubbia la notevole influenza nell’orientare gli storici successivi che ha avuto questo excursus, sia per l’autorevolezza dell’autore, sia per il ruolo di riferimento culturale assunto dall’Encyclopédie.
Tra i Romani, a d’Alembert, non era simpatico neppure Cicerone.
Lo accusa di parlare con leggerezza perfino di Archimede. «Forse è fare qualche torto a un genio sublime come Archimede metterlo accanto a un bello spirito come quel Cicerone che nelle materie filosofiche da lui trattate non ha fatto altro se non esporre in lunghi e imbellettati discorsi le chimere pensate da altri». Un giudizio durissimo che Cicerone non meritava soprattutto per il suo “rapporto” con Archimede, come mette in evidenza Mario Geymonat nel suo lavoro sul siracusano.
Anche Tacito è preso di mira da d’Alembert.
«A Roma si era così ignoranti in Matematica che comunemente si dava il nome di matematici, come si vede in Tacito, a tutti quelli che si arrischiavano nella divinazione, sebbene le chimere della divinazione e dell’astrologia siano ancora più distanti dalla Matematica di quanto lo sia la pietra filosofale dalla Chimica. Lo stesso Tacito, uno dei più grandi spiriti fra gli scrittori di ogni tempo, ci dà con le sue opere una prova dell’ignoranza dei Romani nelle più elementari e semplici questioni di Geometria e Astronomia.
Tacito nella vita di Agricola, nel fare la descrizione dell’Inghilterra, scrive che verso l’estremità settentrionale di questa isola i giorni in piena estate non hanno quasi ore notturne; ed ecco la ragione che ne adduce: “scilicet extrema et plana terrarum humili umbra non erigunt tenebras, infraque coelum et sidera nox cadit”.  Noi non ci cimenteremo come i commentatori di Tacito nel dare un senso a ciò che non ne ha affatto; ci accontenteremo di avere mostrato con questo esempio che la smania di diffondere una falsa conoscenza e di parlare di ciò che non si capisce è assai antica.
Un traduttore di Tacito asserisce che questo storico in questo passo considera la Terra come una sfera la cui base è circondata dall’acqua, e via dicendo. Noi non sappiamo che cosa sia la base di una sfera!»
Il verdetto di d’Alembert è senza appello!
Nel suo excursus cita naturalmente i matematici Tolomeo, Pappo di Alessandria, Eutocio di Ascalona, Proclo, ma per lui sono tutti “greci”. Lo è anche Diocle, “noto  per la  cissoide ma del quale non si conosce altro che il nome, non sapendo con precisione in quale epoca sia vissuto”. Diocle è, come gli altri, “greco”. Per d’Alembert e per gli storici successivi, chiunque si dedichi agli studi della geometria è un greco. Posizione decisamente estrema, che molti storici successivi hanno generalizzato in senso antropologico, attribuendo l’etichetta di matematica greca a tutta la matematica prodotta nel periodo dell’impero e oltre, a sottolineare la prosecuzione della tradizione della geometria e della aritmogeometria nate come specialità greche da Talete, Pitagora e Euclide e che cederanno il passo alla matematica araba.
Posizioni meno radicali di quelle di d’Alembert faticheranno a comparire sulla scena della storia della matematica.
Florjan Cajori nella sua History del 1893 segna però una discontinuità evidente: arriva addirittura a riconoscere qualcosa di buono al popolo romano. Loda ad esempio la “notazione romana”, anche se la dice di provenienza etrusca. Afferma che quel sistema di numerazione  “è degno di nota per il fatto che in esso è implicato un principio che non trova riscontro in nessun altro; vale a dire, il principio di sottrazione. Se una lettera viene posta prima di un’altra di valore maggiore, il suo valore non deve essere aggiunto, ma sottratto a quello della maggiore”.
In più è rimarchevole il fatto che per indicare numeri grandi la matematica romana ha prodotto una barra orizzontale che posta sopra una lettera ne aumenta di mille volte il valore. Da lodare sono anche il sistema duodecimale usato per le frazioni e le tre diverse tecniche impiegate per i calcoli aritmetici: rendicontazione sulle dita, sull’abaco e su tavole preparate allo scopo. E nei calcoli i Romani è indubbio che siano stati molto bravi, altrimenti non avrebbero potuto realizzare le grandi opere che ci hanno lasciato. Florian precisa che le tavole dei calcoli preparate da Vittorio d’Aquitania rimasero in uso per tutto il Medioevo, ma che l’autore è meglio conosciuto per il suo canon paschalis, una regola per trovare la data corretta per la Pasqua, che pubblicò nel 457 d.C.
Florian Cajori riconosce altresì ai Romani una certa dimestichezza con i problemi economici, di pagamenti di interessi, fin dai primi anni della repubblica.
«Le leggi romane sull’eredità – egli scrive – hanno dato origine a numerosi esempi aritmetici. Particolarmente singolare è la seguente: un uomo morente vuole che, se sua moglie, essendo incinta, dà alla luce un figlio, questi riceverà i 2/3 e lei,  come, ad esempio, 1/3 dei suoi beni; ma se nasce una figlia, ne riceverà 1/3 e sua moglie 2/3 . Succede che nascono due gemelli, un maschio e una femmina. Come saranno divisi i beni in modo da soddisfare la volontà dell’uomo? Il celebre giurista romano Salvianus Julianus decise che i beni fossero divisi in sette parti uguali, delle quali il figlio ne riceve quattro, la moglie due, la figlia una».
È qui certamente il riconoscimento più significativo. Anche altri esempi Florian ne ravvisa, come l’opera di Giulio Cesare che ordinò un’indagine sull’intero impero per garantire un’equa modalità di tassazione e riformò il calendario o come la destrezza particolare che i Romani avevano raggiunto nelle applicazioni della matematica, ad esempio nella geometria pratica impiegata dagli agrimensori o gromatici. Ma il riconoscimento decisamente più significativo è nell’ambito del Diritto. Florian con l’esempio sopra riportato lo accenna solamente.
Gli esperti giuristi riconoscono invece ai Romani di aver dato forma e struttura matematica al sistema delle leggi e del diritto.
Giustiniano, «ultimo» grande imperatore romano, “codificò” l’antico diritto romano, affermando di aver raccolto i cinquanta libri dei Digesta in sette parti  (septem partes), non vanamente, né senza l’applicazione di una razionalità precisa (non perperam neque sine ratione), ma guardando alla natura e all’arte dei  numeri (sed in numerorum naturam et artem respicientes) e procurando, quindi, alle diverse materie una conveniente divisione (et consentaneam eis divisionem partium conficientes).
«Questa affermazione di Giustiniano – scrive Luigi Labruna[1] – fondò una serie di interpretazioni per così dire “matematizzanti” del Corpus iuris civilis, che hanno avuto una parte non secondaria nella valutazione del diritto romano come ratio scripta e nella conseguente sua ampia e profonda diffusione (si parla di “recezione”) presso tutte le nationes della Res publica christiana medievale. E proprio tali letture di quell’ordinamento giuridico, pur astratto dal suo contesto storico di formazione ed applicazione, hanno fondato la tradizione giuridica europea in cui siamo ancora pienamente inseriti e della cui evoluzione siamo – dobbiamo essere – nell’attuale temperie storica e politica autori e protagonisti».
Un’opera di matematizzazione ovviamente impossibile senza una lunga tradizione di istruzione e di educazione alla sensibilità matematica. Cicerone e Tacito, i personaggi così duramente criticati da d’Alembert, lo testimoniano.
Scrive Tacito nel  Dialogus de oratoribus:
«Vi è nota quell’opera di Cicerone chiamata Bruto, nella quale egli parla dei suoi inizi come oratore, dei suoi progressi, cioè della sua educazione oratoria. Egli ci dice che imparò da Quinto Muzio il diritto civile, dall’accademico Filone e da Diodoto tutte le parti in cui si presenta la filosofia, e poi, non contento di quei maestri che aveva avuto a Roma, viaggiò nell’Acaia e nell’Asia minore, per diventare esperto di tutte le varie discipline e di tutte le arti. E perciò a Cicerone non mancava la conoscenza né della geometria, né della musica, né della grammatica, né di qualsiasi altra arte liberale. Egli aveva appreso le finezze della dialettica, la utilità della filosofia morale, i princìpi del moto e delle cause dei fenomeni fisici.»
Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert aveva decisamente torto!

[1] In Atti del XVI Congresso UMI, Napoli 1999

Laureato in matematica, docente e preside e, per quasi un quarto di secolo, ispettore ministeriale. Responsabile, per il settore della matematica e della fisica, della Struttura Tecnica del Ministero dell’Istruzione. Segretario, Vice-Presidente e Presidente Nazionale della Mathesis dal 1980 in poi e dal 2009 al 2019, direttore del Periodico di Matematiche.

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