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Il massacro dei nativi americani

Nell’Ottocento le tribù native erano viste come un ostacolo all’avanzare della civiltà, di cui gli Usa si sentivano unici portatori. Il massacro dei Sioux, però, fu solo l’ultima delle tante stragi perpetrate dai coloni. In pochi decenni, vennero sterminate tutte le tribù dei nativi americani: vediamo come, attraverso l’articolo “Annientati” di Roberto Roveda, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Alla conquista del Far West. “I bianchi ci fecero molte promesse,  più di quanto ne ricordi, ma ne mantennero una sola: promisero  di prendere la nostra terra… E se la presero”. Così il condottiero sioux  Nuvola Rossa (1822-1909) sintetizzò  con amarezza il destino degli indiani  d’America alla fine dell’800. Gli Stati Uniti, infatti, una volta ottenuta l’indipendenza (1783), misero nel mirino gli immensi territori dell’America Settentrionale ancora inesplorati, in  particolare le grandi pianure dell’Ovest, il Far West. Bisognava però fare i conti con le tante tribù di nativi che vivevano in quelle terre da generazioni. Per il governo americano e anche per i coloni una convivenza con i nativi era  impossibile e l’accaparramento di quelle  terre venne considerato parte del destino degli Stati Uniti.

«Per i  coloni, le popolazioni delle Grandi Pianure – in quanto nomadi con un’economia basata sulla caccia e sulla raccolta, ma non sull’agricoltura – non erano in grado  di mettere a frutto la  terra e, di conseguenza, perdevano i titoli legali per possederla anche in mancanza  di trattati di cessione formale ai bianchi», spiega Stefano Luconi, docente di Storia degli Stati Uniti all’Università di Firenze e autore del libro La “nazione  indispensabile”: storia  degli Stati Uniti dalle origini a oggi (Le Monnier). «In altre parole, l’assenza di strutture stanziali e campi coltivati rendeva i territori  degli indigeni una sorta di terra di  nessuno, legittimamente a disposizione  di chi vi si fosse insediato praticandovi  l’agricoltura e, dunque, mettendola a frutto, senza limitarsi a depredarne le risorse, come facevano invece le popolazioni che vivevano di caccia e raccolta».

MARCIA DISPERATA. A quali conseguenze portasse questa idea divenne evidente durante la presidenza di Andrew Jackson (1829-1837), l’uomo che i nativi avevano imparato a chiamare “coltello affilato” per la  spietata lotta che conduceva contro di loro. Jackson partecipò, tra il 1810 e il 1820, alle campagne militari contro  i Creek e i Seminole, che permisero agli Stati Uniti di strappare loro il controllo di ampie regioni negli attuali Stati dell’Alabama, della Georgia e della Florida.

Una volta eletto usò la  propria autorevolezza e influenza per far approvare dal Congresso, nel 1830, l’Indian Removal Act, una legge che conferiva al presidente il potere di negoziare trattati con le nazioni indiane stanziate nelle regioni meridionali degli Stati Uniti, così da scambiare i loro territori a est del Mississippi con insediamenti in un’ampia zona a ovest del fiume: il cosiddetto Territorio indiano, corrispondente grosso modo all’odierno Stato dell’Oklahoma. 

DEPORTAZIONE DI MASSA. Il trasferimento doveva essere  accettato dai nativi, ma nei fatti  Jackson ignorò le sentenze della Corte Suprema americana a favore degli  indiani, appoggiando quegli Stati che miravano a deportarli come voleva fare, per esempio, la Georgia con i Cherokee, insediati in una zona dove era stato scoperto l’oro. «Jackson dette così un  segnale inequivocabile del fatto che, se i  nativi americani non avessero accettato di cedere i loro territori a est e si fossero rifiutati di spostarsi a ovest, sarebbero  stati comunque costretti a trasferirsi con la forza», spiega Luconi. «Insomma, il presidente pose le premesse della deportazione dei nativi».

Il risultato? Il Trail of tears, il “Sentiero delle  lacrime”, la deportazione forzata delle “cinque tribù civilizzate”, cioè meglio adattate allo stile di vita dei bianchi (Cherokee, Chicksaw, Choctaw, Creek e Seminole), dal Sud-est degli Stati Uniti a circa 1.600 chilometri di distanza, in Territorio indiano. Un terzo dei nativi morì durante il viaggio per poi finire in una regione inospitale, dove la  sopravvivenza era un’impresa. 

GUERRA APERTA. Attorno alla metà dell’800, però, anche gli spazi dell’Ovest entrarono nel mirino del governo e dei coloni statunitensi. Le tribù furono viste come un ostacolo all’avanzare della civiltà, per cui, quando si trattò di mettere in sicurezza le Grandi Pianure per costruirvi i  tracciati ferroviari transcontinentali, al posto delle deportazioni si ricorse a una politica di annientamento. A riassumerla fu una lapidaria frase del generale Philip Sheridan (1831-1888), uno dei protagonisti della conquista militare del West: “L’unico indiano  buono è un indiano morto”. Aggiunge Luconi: «Per comprendere la politica degli Stati Uniti basti dire che l’Ufficio degli affari indiani, istituito nel 1824 per gestire i rapporti con i nativi americani, era inquadrato all’interno del  Dipartimento della Guerra degli Usa».
Non fu quindi un caso che la seconda metà dell’Ottocento fosse contrassegnata a Ovest da una lunga serie di guerre indiane.

Gli Apache e  i Navajo del Sud-ovest furono piegati negli anni Ottanta dell’Ottocento dopo un trentennio di lotta senza quartiere che ebbe come protagonisti nomi leggendari come Cochise e Geronimo. Fu però nelle pianure del Nord-ovest, patria della grande nazione dei Sioux, che si svolse lo scontro decisivo tra cavalleria americana e indiani.

CONTRO I SIOUX. Fu una guerra  senza quartiere e se nel 1854 a Fort Laramie (Wyoming) trenta soldati vennero massacrati dai nativi, nel 1862  le autorità statunitensi punirono la ribellione dei Sioux di Piccolo Corvo organizzando la più grande esecuzione  di massa della storia degli Stati Uniti. Furono impiccati 38 guerrieri, anche se la ribellione si basava sul mancato rispetto di un trattato del 1851 da parte  dei bianchi. Il giorno più tragico delle “guerre indiane” fu però il 29 settembre 1864, quando i volontari della milizia del  Colorado trucidarono oltre cento donne, vecchi e bambini delle tribù Cheyenne e Arapaho presso il fiume Sand Creek. 
Non mancarono però per gli invasori i rovesci di fronte a capi carismatici come Nuvola Rossa, Cavallo Pazzo e Toro Seduto. Il primo seppe sfruttare le difficoltà dell’esercito statunitense dopo la Guerra di secessione per costringere il governo a firmare il trattato di Fort Laramie (1868), che garantiva ai Sioux il controllo di vari territori tra cui l’area sacra delle Black Hills (tra Dakota e Wyoming). Fu una tregua che durò  poco perché proprio sulle “colline  nere” venne trovato l’oro e i coloni accorsero in massa, potendo contare sulla protezione dell’esercito. Scoppiò  la Grande guerra Sioux (1876-1877) che ebbe tra i protagonisti Toro Seduto  e Cavallo Pazzo e il cui episodio più famoso fu la battaglia al Little Bighorn il 25 giugno 1876. 

LA FINE DEI BISONTI. Fu però  il canto del cigno per i nativi, che in  breve tempo si arresero di fronte alla  superiorità numerica e tecnologica  dell’esercito a stelle e strisce e che videro minate le fondamenta della loro società dall’azione spietata dei bianchi. Il governo, infatti, favorì la  diffusione degli alcolici tra gli indigeni, che vennero decimati anche dalle malattie portate dai coloni. Le zone di caccia vennero spazzate via per far posto a campi coltivati, pascoli  per l’allevamento, ranch, steccati e barriere di filo spinato che impedivano il passaggio delle grandi mandrie di bisonti.

E senza questi animali gli indiani non potevano vivere.

«A mettere in ginocchio i nativi fu proprio  lo sterminio dei bisonti, passati da circa 70 milioni di capi all’inizio dell’800 a poco più di 600 a fine del  secolo: uno sterminio verificatosi in parallelo alla costruzione delle  ferrovie transcontinentali», spiega  ancora Luconi. «Le mandrie furono  falcidiate per procurare cibo agli operai con la loro carne, ma anche per puro divertimento. Il bisonte era il cardine dell’economia dei nativi americani nelle Grandi Pianure: la carne serviva per l’alimentazione; la pelle per produrre abiti, calzature e tende; le ossa per ricavare utensili; le feci essiccate per fornire combustibile.

The end. Estintisi quasi i bisonti, i nativi persero il principale  elemento che consentiva loro di vivere  nelle Grandi Pianure e li rese più  disponibili a lasciarsi chiudere nelle riserve». Vi fu solo un ultimo sussulto, quando nel 1890 si diffuse tra le tribù sioux  delle riserve la pratica della ghost dance, la “Danza degli spiriti” che avrebbe favorito la nascita di un mondo senza uomini bianchi. Ma era solo un sogno, stroncato dalle mitragliatrici dell’esercito che fecero centinaia di vittime presso il torrente Wounded Knee. In quello stesso 1890, il governo statunitense dichiarò finita la conquista del West: ogni acro di terra americana era oramai territorio degli Stati Uniti e i pochi indigeni superstiti, 250mila circa, erano prigionieri nelle riserve. 

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I veri pellerossa

Cavalli e nativi americani: una storia antica

Lo dicono i resti archeologici, lo conferma la genetica: il cavallo faceva parte della vita quotidiana dei nativi americani molto prima di quanto indichino le fonti dei coloni europei. Finora, infatti, l’introduzione dei cavalli nelle tribù delle Grandi Pianure e delle Montagne Rocciose nell’America Settentrionale veniva fatta risalire alla sanguinosa rivolta del popolo Pueblo (10-21 agosto 1680), contro il dominio spagnolo nel Nuovo Messico. Secondo la storiografia ufficiale, la comunità Pueblo, dopo l’insurrezione liberò i cavalli dei coloni, favorendo una massiccia diffusione di questo animale ben oltre i confini del Nuovo Messico.
Invece uno studio pubblicato su Science dimostra che questi animali erano cavalcati, curati e accuditi e nutriti dalle tribù nomadi delle grandi pianure, come i Cheyenne, i Sioux, i Comanche, i Pawnee e i Lakota, già all’inizio del 1600, prima che fossero introdotti negli Stati Uniti occidentali dai coloni europei.

Le origini. Innanzitutto bisogna ricordare che L’Equus ferus, (oggi estinto), antenato dell’Equus ferus caballus, il cavallo addomesticato, nacque proprio in America settentrionale milioni di anni fa, ma si estinse nel continente americano almeno 12mila anni prima della nostra era.

Estinzione. Nella preistoria, il cavallo era considerato una preda così pregiata da essere stato sterminato dalle pianure americane a causa della caccia eccessiva: dai tagli sulle ossa ritrovate nei siti archeologici si è dedotto che gli antenati dei nativi americani cacciassero i cavalli e ne usassero le ossa come utensili, ma non li addomesticassero o li cavalcassero. Tuttavia gli scienziati ritengono che tra le cause dell’estinzione di questo animale ci siano stati anche i mutamenti climatici, che favorirono l’avanzata delle foreste e la parallela riduzione dell’habitat naturale di questo animale.

Effetto sorpresa. Quando i conquistadores, capeggiati da Hernán Cortés, sbarcarono nel 1519, con i loro 16 cavalli, sulle coste del Golfo del Messico, gli abitanti delle Americhe non conservavano più alcuna memoria dell’animale e questo diede ai coloni un enorme vantaggio sulla conquista dell’Impero azteco, che venne sconfitto nel giro di un paio d’anni.

L’importanza della datazione. La studio condotto da un gruppo di ricercatori, guidato dall’antropologo Shield Chief Gover, basato su prove archeologiche, datazione al radiocarbonio, analisi degli isotopi e DNA, conclude che i cavalli erano arrivati in queste terre un secolo prima della rivolta Pueblo.

In un sito archeologico nel sud-ovest del Wyoming chiamato Blacks Fork, infatti, è stato ritrovato un puledro di sei mesi sepolto insieme a tre teschi di coyote, il che indica probabilmente facesse parte di un rituale religioso.

La datazione al radiocarbonio ha dimostrato che il puledro era stato allevato, legato e sepolto tra il 1600 e il 1650, molte centinaia di chilometri a Nord degli avamposti spagnoli nel Nuovo Messico. Inoltre le formazioni ossee sul suo cranio provano che era stato legato e una frattura facciale guarita, dovuta ai calci di un altro cavallo, dimostra che l’animale avesse ricevuto cure veterinarie.

A cavallo della Storia. La datazione di altri resti di cavalli provenienti da siti archeologici di Wyoming e Nebraska ha dimostrato che i nativi americani allevavano, nutrivano e si prendevano cura dei cavalli – e probabilmente li cavalcavano – già a partire dal 1550. E che l’animale era perfettamente integrato nella loro società dal 1650 circa. Per rafforzare questa tesi i ricercatori si sono avvalsi anche di prove etnografiche e linguistiche, oltre che dei racconti orali dei nativi americani, ignorati finora dagli storici.

La questione linguistica. Quando gli etnografi nel 1800 annotarono la traduzione della lingua Pawnee, Comanche e di altre tribù native, il loro lessico includeva dozzine di termini indigeni per l’anatomia, la guida, l’aspetto e l’allevamento del cavallo, insieme a un’ampia varietà di piante utilizzate per la cura veterinaria equina. Inoltre, anche grazie a una canzone tradizionale Pawnee, ancora oggi cantata dagli anziani della tribù, che racconta di un incontro con un gruppo di stranieri a cavallo in armatura, a cui i nativi americani presero i cavalli, dopo aver combattuto, si è avuta un’ulteriore conferma dello studio.

La canzone, infatti, racconta un episodio realmente accaduto. Nel 1540, un conquistatore spagnolo di nome Francisco Vázquez de Coronado (1510-1544) guidò una grande spedizione, che comprendeva centinaia di cavalli, attraverso il Nuovo Messico fino all’attuale Kansas, dove vivevano i Pawnee prima di essere spinti nelle riserve dell’Oklahoma. Dunque, anche sulla base di un racconto orale tramandato da generazioni, ora la data risulta plausibile.

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A briglia sciolta

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