Sotto assedio: Kiev come Stalingrado

«Kiev è una città sotto assedio», ha affermato Denis Monastirs’kij, ministro degli Interni ucraino. Assedio è una parola che ci riporta al passato. Più precisamente a ottant’anni fa, quando durante l’assedio di Stalingrado, la disperata resistenza sovietica riuscì ad annientare l’offensiva nazista. Sarebbe un parodosso per Putin, se ribaltando le parti in gioco, il presidente ucraino Zelenskij e i cittadini di Kiev riuscissero a portare avanti l’eroica resistenza che fu dell’Armata Rossa e dell’intero popolo russo contro i nazisti. Ma vediamo che cosa era successo durante la Battaglia di Stalingrado, che segnò la svolta dell’invasione nazista dell’Unione Sovietica e l’inizio della sconfitta nazista.

La Caporetto tedesca. Oltre un milione tra morti, dispersi e prigionieri. L’assedio di Stalingrado fu la Caporetto tedesca. Dopo due mesi di attacchi ininterrotti – iniziati il 17 luglio del 1942 – nella città bombardata e bruciata, casa per casa e incrocio per incrocio era stata ingaggiata una battaglia feroce. Dalle fogne asciutte la notte uscivano gruppi di combattenti russi che spuntavano alle spalle dei tedeschi, li colpivano e sparivano tra le macerie. I carri armati si muovevano a fatica tra le strade sventrate e le montagne di detriti, punteggiate dai cadaveri insepolti di militari e civili. E, su tutto e tutti, incombeva l’incubo dei cecchini.

La VI armata. A cercare di prendere il comando della città era la VI Armata del generale Friedrich Paulus, quasi 300.000 uomini. Ma le sue forze si stavano esaurendo e le possibilità di approvvigionamento scarseggiavano. La “fornace” di Stalingrado inghiottiva ogni giorno immense quantità di munizioni e altri equipaggiamenti. Il 19 novembre, quando la controffensiva sovietica – l’Operazione Urano – venne scatenata,

Paulus non fu in grado di contrastarla. In omaggio al settimo pianeta del Sistema Solare, i sovietici scelsero questo nome in codice per indicare l’offensiva dell’Armata Rossa, appoggiata da migliaia di carri armati e dall’aviazione.

Durò una settimana, dal 19 al 26 novembre, e si completò quando le truppe comuniste, che avanzavano da sud e da nord, si incontrarono nei pressi di Kalach. Il corridoio terrestre che univa la VI Armata alle linee tedesche era spezzato. A quel punto Paulus, resosi conto della situazione in cui si trovava, chiese a Hitler il permesso di interrompere l’attacco a Stalingrado, tentando di spezzare l’accerchiamento con una controffensiva in direzione ovest.

Il permesso, contrariamente alle sue aspettative, però, non venne accordato: Hitler riteneva la vittoria a Stalingrado a portata di mano, ma soprattutto temette che l’avanzata sovietica potesse mettere in pericolo il milione di soldati tedeschi del Gruppo d’Armate A che si trovavano nel Caucaso e che rischiavano di essere tagliati fuori dalle proprie linee. Il suo ordine fu quindi indiscutibile: la VI Armata doveva restare a Stalingrado. Intanto, mentre si preparava una offensiva del Gruppo d’Armate B per la sua liberazione, si tentò di rifornirla dal cielo, con un ponte aereo di dimensioni mai raggiunte precedentemente.

Il grande assedio. Cominciò così un lungo assedio, con un ininterrotto via vai di aerei da trasporto e da bombardamento che atterravano e decollavano dagli aeroporti di quello che iniziò a essere definito der kessel, il calderone: la sacca di Stalingrado, in cui erano chiusi i tedeschi. E mentre i sovietici, preoccupati di rinforzare la morsa intorno alla VI Armata, esercitavano solo una leggera pressione dall’esterno della città, all’interno i tedeschi continuarono a cercare di strappare ai nemici l’ultima testa di ponte sulla riva occidentale del Volga: i combattimenti proseguirono sopra e intorno alla collina di Mamayev Kurgan, il rilievo intorno al quale era costruita Stalingrado. I primi a rimetterci furono i civili. Prima dell’attacco tedesco, Stalingrado aveva ricevuto infatti un imponente afflusso di profughi dall’ansa del Don. E un ordine di Stalin aveva proibito l’evacuazione dei civili per dare ai soldati dell’Armata Rossa una motivazione in più per combattere con convinzione e per creare impedimento ai tedeschi.

Assedio Stalingrado - Sotto terra

Soldati tedeschi estraggono dal suo nascondiglio sotterraneo una donna russa (1942).
© Everett Collection / Shutterstock

Morti di fame. Durante i combattimenti, prima dell’assedio, la popolazione subì così i bombardamenti aerei e i colpi di artiglieria sia tedeschi sia sovietici. Ma la vera tragedia cominciò quando cessò l’afflusso dei rifornimenti alla VI Armata nel mezzo del tremendo inverno russo. I superstiti civili cercarono rifugio nelle cantine e nelle fogne della città diroccata. Il titanico sforzo della Luftwaffe contro l’inclemenza del clima, le batterie contraeree e la caccia sovietica non riuscì a fornire ai tedeschi assediati rifornimenti di materiali e viveri sufficienti: la popolazione rimase abbandonata a se stessa.

Le prime vittime della fame furono i cavalli da tiro, da cui l’armata dipendeva in gran parte per il trasporto delle artiglierie e dei rifornimenti: privi di foraggio, gli animali vennero macellati (il clima rigido consentiva peraltro di abbatterli e di conservarli nella neve). Dagli aeroporti partivano gli aerei carichi di feriti e congelati, e ritornavano carichi di viveri e munizioni. Poi cominciò a mancare il combustibile e, non avendo più cavalli, i rifornimenti non poterono essere trasportati nei vari punti di Stalingrado.

Progressivamente ristretta da attacchi sempre più incisivi, l’offensiva tedesca per liberare la città (l’Operazione Tempesta Invernale) risultò debole e, ostacolata dall’Armata Rossa e dal clima invernale, si smorzò. Era arrivato il momento per i tedeschi di asserragliarsi nelle rovine e nelle fogne per resistere agli attacchi sovietici. Tra le macerie gli uomini lottavano senza più speranza di essere soccorsi: fu la rattenkrieg, la guerra dei ratti, come venne definita in Germania.

Mentre la propaganda nazista strombazzava l’eroismo di quelli che adesso erano i difensori di Stalingrado, l’Armata moriva lentamente. Le munizioni scarseggiavano, le armi disponibili erano sempre meno e le razioni alimentari si esaurivano progressivamente, fino a che si decise di non alimentare più chi, per le ferite o le malattie, non era in grado di combattere.

Assedio Stalingrado - febbraio 1943

Un gruppo di prigionieri tedeschi nel febbraio 1943.
© Everett Collection / Shutterstock

Il tracollo. Sottoposti a un incessante bombardamento, i tedeschi persero il controllo degli aeroporti e, negli ultimi giorni, vennero riforniti solo paracadutando le provviste. Ci furono anche casi di cannibalismo. Il freddo e le malattie avevano decimato i 200mila veterani fino a renderli una massa inerte, istupidita e apatica. Quando Paulus decise di arrendersi (2 febbraio 1943), dopo aver ricevuto il grado di Feldmaresciallo, quello che rimaneva della VI Armata era incolonnato in marce forzate nel ghiaccio e trasportato nei campi di prigionia.

Solo poco più di 5.000 torneranno in Germania dopo la prigionia. Tra le rovine di Stalingrado, quando già iniziava a tornare la popolazione civile, gruppi di disperati tedeschi sopravvivevano nascosti nei sotterranei, uscendo la notte per uccidere e rubare qualcosa da mangiare. I sovietici li cercavano sistematicamente: sigillavano i condotti fognari, li allagavano o li facevano saltare con l’esplosivo, usavano i lanciafiamme. L’ultimo tedesco fu ucciso il 10 marzo del 1943.

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Questo articolo è tratto da “Nella morsa di Stalingrado” di Andrea Marrone, pubblicato su Focus Storia 86 (dicembre 2013) disponibile in formato digitale. Leggi anche il nuovo numero di Focus Storia ora in edicola.

Continua la lettura su: https://www.focus.it/cultura/storia/kiev-sotto-assedio-sara-la-nuova-stalingrado Autore del post: Focus Rivista Fonte: http://www.focus.it

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