Biennale di Venezia: riparte la grande macchina dell’arte contemporanea

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La potenza della figura femminile: donna, madre, natura. E poi il rapporto tra l’essere umano e la terra, e quello con la tecnologia, la metamorfosi e la fluidità dei generi. È fatto di questi ingredienti “Il latte dei sogni”, la 59. edizione della Biennale Arte di Venezia curata da Cecilia Alemani, prima italiana alla guida della più grande manifestazione d’arte contemporanea.
La Biennale della post pandemia è stata costruita tra colloqui a distanza e riunioni via zoom, però si distingue per numeri da record: 213 artiste e artisti provenienti da 58 nazioni, 180 prime partecipazioni, 1433 opere esposte, 80 nuove produzioni.

Molti degli artisti presenti hanno creato opere appositamente per questa edizione: hanno sfruttato il tempo sospeso del lockdown per ideare e realizzare i loro lavori, e il segno dei tempi certo si sente. L’arte contemporanea non è consolatoria, è nata per sollevare quesiti, aprire la strada alla molteplicità dei significati. Quello che ci troviamo di fronte, attraversando le Corderie dell’Arsenale e il Padiglioni Centrale ai Giardini è un mondo in trasformazione continua, in cui i generi si fondono, il senso – anche dell’esistenza in sé – diviene fluido, la natura è matrigna e benigna al tempo stesso e il corpo umano perde di identità e deve fare i conti con l’incombente tecnologia.

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Venezia: immagini di una Biennale al femminile

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La Biennale donna

La Biennale di Cecilia Alemani è tutta al femminile, a cominciare dai due leoni d’oro alla carriera: Cecilia Vicuña e Katharina Fritsch. È suo l’elefante iperrealistico che apre la mostra “Il latte dei sogni” nella sala Chini del Padiglione Centrale, tra specchi e stucchi, richiamo ai pachidermi esibiti vivi nei circhi o imbalsamati nei musei di Storia naturale. Perfetto, se non fosse per quel colore verde scuro dell’epidermide che lo rende onirico, anti-naturalistico.

All’Arsenale invece, ad aprire l’esposizione, ci accoglie una gigantesca scultura di Simone Leigh: un busto di donna (dal volto senza occhi) che sembra una enorme capanna in cui essere accolti. Le donne in questa Biennale sono in netta maggioranza: Alemani ha prediletto nella scelta artiste meno note e provenienti per lo più da paesi che un tempo avremmo definito “in via di sviluppo”.

Se Delcy Morelos ci fa camminare in mezzo a blocchi di terra per ricordarci che siamo noi stessi esseri terreni, le sculture cinetiche di Mire Lee sono fin troppo simili a organi di un corpo in continuo movimento, in cui le funzioni corporali non si fermano mai. Natura, corpo e macchina, in tutte le loro declinazioni, si ritrovano anche nelle “capsule del tempo”, cinque micro-mostre storiche sparse lungo il percorso espositivo che la curatrice ha voluto creare per collegare passato e presente attraverso le tematiche affrontate e il confronto tra artisti vecchi e nuovi.

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