La fabbrica mondo tra tecnica, arte e letteratura

In un noto passo di Massa e potere, Elias Canetti scrive sulla “fede nella produzione, il moderno furore dell’accrescimento”. Le rivoluzioni industriali, nel loro continuo rivolgimento, hanno rimodellato il panorama interiore delle civiltà producendo un senso profondo e malinconico di languore in una umanità, spesso, piuttosto confusa; e già Karl Marx nel Capitale sottolineava come nella fabbrica, a differenza dell’artigianato, un meccanismo morto governi le azioni degli operai che ne divengono quindi mera estensione.

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14 marzo 1883: muore Karl Marx

140 anni fa moriva Karl Marx, diamo uno sguardo alla vita privata del filosofo tedesco, autore del Manifesto del partito comunista e del Capitale, attraverso l’articolo “Sotto la barba di Marx” di Maria Leonarda Leone.

Babbo Marx. Rosso era rosso (almeno in senso politico), la barba non gli mancava ed era dolce con i bambini. Forse qualcuno potrebbe trovare forzata, per non dire blasfema, l’analogia tra Karl Marx e Babbo Natale. Ma quel qualcuno ignora forse che in privato Marx era l'”orsacchiotto selvatico” di sua moglie e “un magnifico cavallo” per le figlie.
Insomma: tutti conoscono (o credono di conoscere) il pensiero del filosofo tedesco più famoso, temuto e citato al mondo. Ma la vita privata del teorico della rivoluzione proletaria, del più acerrimo nemico del capitalismo, riserva non poche sorprese.

Borghese. “Immagina Rousseau, Voltaire, Holbach, Lessing, Heine e Hegel uniti in una persona (e dico uniti, non messi insieme alla rinfusa) e avrai Karl Marx”, diceva ammirato il socialista Moses Hess. Non bisogna essere filosofi per capire che si trattava di un personaggio piuttosto complesso e contraddittorio. Lo conferma Francis Wheen, giornalista britannico e autore di una documentata biografia sul pensatore tedesco: «Per quanto si beffasse dei costumi della classe media, nel profondo del cuore Marx era un borghese fatto e finito».

Pecora nera. Sicuramente lo fu per nascita. L’anticapitalista di Treviri (Trier in tedesco) nacque infatti in una borghesissima famiglia ebrea il 5 maggio 1818, al primo piano di una casa sulla Brückergasse, una via trafficata che conduceva al ponte sulla Mosella. Suo padre, Hirschel Marx, era un uomo colto, figlio e nipote di rabbini, che si era convertito al cristianesimo luterano per aggirare le discriminazioni nella Prussia di Federico Guglielmo III e poter fare l’avvocato. Ebbe un legame stretto con Karl, almeno finché il figlio non abbandonò gli studi di legge per abbracciare la filosofia all’Università di Berlino.
Le ultime sconfortate lettere paterne non fecero che allontanare la pecorella dal gregge: nel 1838, quando Hirschel morì, il ragazzo non partecipò neppure al funerale. Il viaggio sarebbe stato troppo lungo e lui aveva cose più importanti da fare. Da allora la famiglia divenne inesistente e l’unico sentimento di cui degno la madre Henrietta, poco colta, ultra-apprensiva e mai soddisfatta del figlio, fu l’astio per la sua longevità, che lo teneva lontano dall’eredità.

Tracotante. La donna non fu l’unico bersaglio dell’egocentrico, dispotico e irascibile giovane: amici poi diventati nemici, avversari politici, sovrani prussiani e non, professori pedanti, pensatori a suo avviso insulsi, tutti furono vittime della sua pungente ironia e del suo graffiante sfoggio di superiorità intellettuale.

“Aveva trent’anni ed era già il capo riconosciuto di una scuola di pensiero socialista […] ma non avevo mai visto un uomo farsi avanti con tanta offensiva, insopportabile arroganza”, scrisse a proposito il rivoluzionario tedesco e suo contemporaneo Carl Schurz, futuro senatore negli Usa.

L’apparenza inganna. In questo lo aiutava, nonostante gli abiti trascurati e la giacca abbottonata di sghimbescio, l’aspetto esteriore, che metteva in soggezione i suoi interlocutori: era pelosissimo, con un barbone nero e una criniera corvina sulla fronte ampia. Per questo venne soprannominato “il Moro”. Eppure sotto la scorza da uomo nero, nascondeva a volte un cuore d’oro. “A dispetto del suo carattere irrequieto e violento, come marito e padre di famiglia Marx è l’uomo più tenero e mansueto di questo mondo”, riferì con incredulità un confidente della polizia, a meta dell’Ottocento.

Innamorato. Ed era vero: dopo tredici anni di matrimonio, quest’omone scorbutico scriveva ancora lettere d’amore alla moglie Jenny, la sua bionda “principessa incantata”, un’aristocratica amabile e poco sofisticata che si era innamorata di quella mente geniale. “È vero che ti posso sposare?”, gli scriveva speranzosa, temendo che il suo “malizioso briccone” prima o poi la rimpiazzasse con qualcun’altra. E lui diceva che si, l’avrebbe sposata, ma solo quando avesse trovato un impiego remunerativo.
Era il 1841: Marx, neolaureato incerto sul da farsi, passo un’estate pazza a Bonn, bruciandosi la carriera accademica tra bicchieri di birra chiara e la pubblicazione di un libello antireligioso e sovversivo.

Parentesi giornalistica. Poi, siccome tanta verve polemica non poteva andare sprecata, abbracciò il giornalismo: iniziò con la Rheinische Zeitung (la liberale Gazzetta renana) poi passo agli Annali tedeschi dell’amico Arnold Ruge, esponente della sinistra che si ispirava al filosofo idealista Hegel. Da allora, per tutta la vita, Karl ebbe a che fare con censori, denunce e divieti. Quando il parlamento federale prussiano fece chiudere gli Annali, Ruge lo invitò a seguirlo a Parigi, per fondare un giornale in esilio: gli Annali franco-tedeschi. Il Moro accettò volentieri, a una condizione: “Sono fidanzato e non posso, non debbo e non voglio uscire dalla Germania senza la mia fidanzata”.

La famiglia. Il grande momento era giunto: Jenny sposò il suo “orsacchiotto selvatico” il 19 giugno 1843. Poi i coniugi Marx emigrarono in terra francese. Fu solo la prima di una lunga serie di fughe, scandite dai certificati di nascita delle figlie: le tre femmine sopravvissute, sui sette bimbi messi al mondo dalla coppia, nacquero a distanza di pochi anni l’una dall’altra in Francia, Belgio e Inghilterra.

In ogni nuova patria adottiva la storia si ripeteva: articoli di violenta polemica, frequentazione o fondazione di circoli proletari, operai, comunisti, socialisti e rivoluzionari, allerta delle autorità ed espulsione.

Passione politica. Del tutto innocente Marx non era: ebbe a che fare, più o meno attivamente, con il primo congresso della Lega dei comunisti (1847), con la pubblicazione (con Engels) del celebre Manifesto del partito comunista (quello, per capirsi, che chiude con l’appello “Proletari di tutti i Paesi, unitevi!”), con la rivoluzione parigina del 1848 e, nel 1864, con la Prima internazionale, l’associazione che tentò di riunire i lavoratori di sinistra di ogni nazione.

Soggiorno inglese. All’epoca Marx si trovava a Londra, l’ultimo rifugio per i rivoluzionari sradicati, la sua casa dal 1849 e patria de Il capitale. «L’Inghilterra non ha mai saputo decidere se provare orgoglio o vergognarsi per il fatto di essere associata al padre della rivoluzione proletaria », dice Wheen.
E ovviamente Marx ricambiò la cortesia, rafforzandosi nella convinzione che “il dono caratteristico dell’imperturbabile ottusità” fosse parte del patrimonio genetico di ogni inglese. Se anche i sudditi della regina non brillavano per calore e accoglienza, con la maggior parte di loro Marx condivise una costante della propria esistenza: la miseria, che gli portò via quattro figli (denutriti e morti per malattia).

Fame e scrittoio. Ufficiali giudiziari alla porta, in coda con creditori ed esattori, un’assidua frequentazione del banco dei pegni, la mancanza cronica di cibo: al confronto i racconti strappalacrime di Charles Dickens sembrano commedie. Nelle due stanze che i Marx affittarono alla fine del 1850 nel peggior quartiere della città, il mobilio era ridotto all’osso: un paio di sedie mezze rotte e un tavolo, colonizzato dal capofamiglia, ingombro di libri, giornali, carte, tazze sbeccate, posate sporche, giocattoli, lavori di rammendo, la pipa, gli immancabili sigari (una volta dichiarò: “Il Capitale non mi farà guadagnare abbastanza per pagare i sigari che ho fumato mentre lo scrivevo”).

Povero in canna. A 34 anni, rimaneva un disordinato perfezionista: lavorava senza orari, dormendo pochissime ore per notte; mai soddisfatto, se non avesse avuto bisogno di soldi sarebbe stato capace di documentarsi all’infinito, senza mai concludere i suoi scritti. La pignoleria non giovava all’economia familiare e a questa si aggiungevano le voglie da signore: anche per senso di colpa nei confronti della moglie, non appena veniva in possesso di qualche soldo lo spendeva senza pensarci.
«Se Marx fosse stato lo spensierato bohémien descritto in tanti rapporti polizieschi, se la sarebbe cavata abbastanza bene; invece apparteneva alla categoria delle persone perbene cadute in miseria, che fanno di tutto per salvare le apparenze e non hanno alcuna intenzione di rinunciare alle abitudini borghesi», avverte Wheen.

Per uno che sarebbe diventato famoso con un libro sul capitale: se c’era una cosa che non riusciva a fare il Moro era mettere da parte un gruzzolo.

In famiglia. Nel 1856, grazie all’eredità di un vecchio zio e della suocera, si trasferì con la famiglia in una grande casa sostituita otto anni dopo, con la morte di sua madre, da una dimora più grande e costosa, mantenuta a spese di Engels. Qui le sue figlie vissero i loro momenti più belli con il padre, che adoravano. “Era il più allegro e giocondo di tutti gli uomini”, sosteneva la figlia Eleanor. Per loro inventava favole, declamava l’amato Shakespeare (lo scrittore preferito insieme a Goethe, Eschilo e Diderot) e si piegava a ogni richiesta, persino fare il “cavallo da sella”.
A differenza dei genitori dell’epoca, invece di ignorarle, discuteva alla pari con le figlie. Così, quando Eleanor a 5 anni gli confessò di avere “scrupoli religiosi”, le raccontò la storia del figlio del falegname (Gesù) ucciso dai potenti. “Nonostante tutto possiamo perdonare il cristianesimo perché ha insegnato ad amare i fanciulli”, affermava l’ateo Marx, che definì la religione “oppio dei popoli”, cioè una droga consolatoria che impediva alle persone di prendere coscienza dei propri mali .

Cagionevole. Lui, invece, i suoi mali li conosceva bene: “La mia malattia viene sempre dalla testa”, diceva. E infatti, in coincidenza di scadenze di lavoro o di episodi sgradevoli e stressanti, ascessi e bubboni lo tormentavano sulle natiche e sulla schiena, rendendolo più acre e polemico. Nel 1867, l’ennesima eruzione cutanea lo costrinse a scrivere Il capitale in piedi, davanti alla scrivania. Quando lo ebbe tra le mani, Engels notò che diversi passi del libro portavano “l’impronta alquanto profonda dei foruncoli”. A cui si alternavano mal di denti, mal di fegato, travasi di bile, vomito e febbre.

Rimedi peggiori dei mali. Insomma, lui che amava il pesce e preferiva curarsi con il porto che l’amico gli spediva come antidepressivo, doveva più spesso attenersi ai regimi prescritti dal medico arsenico tre volte al giorno come anestetico, limonate e olio di ricino per il fegato.
Prossimo alla fine, si accontentava di mezzo litro di latte al giorno, con generose aggiunte di rum e brandy. All’epoca era ormai un placido nonno affettuoso, che leggeva il Times la mattina ed era talmente miope da infilare la chiave nella toppa del vicino di casa, quando rientrava dalle sue passeggiate.

Finale solitario. Di questo Marx over-sessanta, alle figlie rimase la foto che si fece scattare ad Algeri, prima di sacrificare alla vecchiaia precoce la barba e i capelli che non aveva mai accorciato dai tempi dell’università. Come il biblico Sansone, con quei peli perse anche la sua forza: Jenny era morta di cancro nel 1881 e a gennaio di due anni dopo anche la figlia Jennychen fu uccisa da un tumore alla vescica.
Piegato da pleurite e bronchite cronica, sessantadue giorni dopo la figlia fu trascinato nella tomba da un’ulcera polmonare. Venne sepolto il 17 marzo 1883 nel cimitero londinese di Highgate, insieme a un’immagine del padre che gli trovarono nel taschino. Engels recitò una breve orazione funebre che terminò così: “È morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California”. Ma doveva essere un giorno feriale, perché soltanto 11 persone erano lì a salutarlo.

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