Il prof che punisce lo studente cacciandolo fuori dalla classe, compie una grave leggerezza

Il docente, durante la sua ora di lezione, ha l’obbligo della vigilanza di tutti gli studenti e deve fare molta attenzione a non allontanare dalla classe uno o più alunni. L’allontanamento dalla classe di un alunno particolarmente movimentato, potrebbe risultare una grave leggerezza da parte del docente.

Culpa in vigilando

Se un alunno cacciato fuori dalla classe dal docente, dovesse farsi male o dovesse, visto il mancato controllo, allontanarsi dalla scuola, ci sarebbe una grave colpa del professore che lo ha punito con l’allontanamento dalla classe ed ha quindi omesso la dovuta vigilanza.

Durante tutto il periodo in cui un alunno è affidato alla scuola, il docente ne è responsabile, altrimenti una mancata osservanza di tale obbligo darebbe origine ad una responsabilità per omissione ovvero ad una culpa in vigilando. La culpa in vigilando è l’accertamento, da parte delle autorità, che l’omissione di sorveglianza dell’alunno da parte di un docente ha …..

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Età ed esercizio del dovere di vigilanza

L’incidenza dell’età nell’esercizio del dovere di vigilanza a scuola

di Anna Armone

Le fonti regolative dell’obbligo di vigilanza a scuola sono costituite dagli articoli 2047 e 2048, nonché dall’art. 1218 del codice. Per l’illustrazione del tema in oggetto ci soffermeremo essenzialmente sull’art. 2048.

La giurisprudenza è oramai concorde nel considerare il fattore età come fattore ordinario, il che significa che in ogni analisi sul livello di responsabilità afferente alla carente o omessa vigilanza tale elemento va preso necessariamente in considerazione.

Secondo una parte della giurisprudenza della Cassazione l’art. 2048 c.c., comma 2 “si riferisce unicamente ai danni provocati dal minore sottoposto alla vigilanza dell’insegnante e non a quelli procurati dall’allievo maggiorenne”, non apparendo “dubitabile che la responsabilità dei precettori e degli insegnanti, al pari di quella dei genitori, cessi con il raggiungimento della maggiore età degli allievi, in quanto da tale momento non vi è più ragione che l’insegnante eserciti la vigilanza su persone ormai dotate di piena maturità e capacità di discernimento”: pertanto “la responsabilità dell’insegnante e quindi dell’istituzione scolastica” deriverà, se ne ricorrono i presupposti, dall’art. 2043, o dall’art. 2051 c.c..

Per quanto riguarda la capacità del soggetto, l’art. 2048, presuppone l’esistenza di un fatto illecito compiuto da un minore capace di intendere e di volere, in relazione al quale sono esclusivamente configurabili la “culpa in educando” e la “culpa in vigilando”, rispettivamente previste dal primo e dal secondo comma, per cui la responsabilità dei genitori o tutori/insegnantiviene a concorrere con la responsabilità del minore, mentre entrambe restano escluse nell’ipotesi di caso fortuito che come tale elimina l’ingiustizia del danno. 

Facciamo un cenno al richiamato art. 1218 del codice civile che porta alla stessa considerazione sull’elemento età. L’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo a scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità del medesimo allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni e, quindi, di predisporre gli accorgimenti necessari affinché non venga arrecato danno agli alunni in relazione alle circostanze del caso concreto. Tali circostanze possono essere ordinarie, come l’età degli studenti, che impone un controllo crescente con la diminuzione della stessa età, od eccezionali, implicando, allora, la prevedibilità di pericoli derivanti dalle cose e da persone, anche estranee alla scuola e non conosciute dalla direzione didattica, ma autorizzate a circolarvi liberamente per il compimento della loro attività. (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO VENEZIA, 09/05/2018). In particolare, in relazione ad alunni in tenerissima età, al fine di escludere qualsivoglia profilo di responsabilità in capo all’istituto scolastico ed ai precettori dipendenti, si richiedeun controllo all’interno dell’aula molto serrato, in modo da impedire un gesto improvviso e potenzialmente dannoso degli alunni. Qualora, pertanto, l’evento pregiudizievole si verifichi ai danni di un bambino di pochi anni durante l’attività ricreativa, che richiede un controllo ancora maggiore, presunta l’omessa vigilanza degli insegnanti presenti, deve  concludersi per la responsabilità contrattuale dell’istituto scolastico.

Secondo giurisprudenza costante, pertanto, il contenuto dell’obbligo di vigilanza è inversamente proporzionale al grado di maturità degli alunni, per cui con l’avvicinarsi di questi all’età del pieno discernimento il dovere di vigilanza dei precettori richiede in minor misura la loro continua presenza -, nella quale già si sarebbe riconosciuto che, con l’acquisizione del “pieno discernimento” coincidente con il raggiungimento della maggiore età, cessa l’obbligo di vigilanza ex art. 2048, comma 2, in lineacon la cessazione di responsabilità dei genitori secondo il primo comma per culpa in educando. Richiamiamo in modo più specifico la sentenza della Cass. sez. 3, 30 maggio 2001 n. 7387, che ha effettivamente attribuito all’articolo 2048, secondo comma, quale presupposto, l’età minorenne dell’allievo, dovendosi presumere che non sia stato riservato “ai precettori e maestri d’arte un trattamento deteriore rispetto a quello dei genitori di cui al primo comma, irrazionalmente dilatando, oltre quel limite temporale, la loro responsabilità”.

Ma secondo altra posizione giurisprudenziale, occorre fare una lettura esegetica dell’art. 2048 che nel primo comma prevede la responsabilità dei genitori o del tutore per il danno causato dal fatto illecito “dei figli minori non emancipati” o delle persone soggette alla tutela che abitano con loro, mentre nel comma 2, attribuisce responsabilità a “precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte” per il danno causato dal fatto illecito “dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza”.Le due fattispecie racchiuse nei primi due commi dell’art. 2048 c.c., non sono, in realtà, del tutto sovrapponibili come prospettato da qualche giudice, ovvero non sono configurabili come due species di un unico genus di responsabilità che si infrange sul confine della maggiore età dell’autore del fatto illecito. L’unico elemento in comune fra le due fattispecie risiede nel terzo comma, il quale indica che a entrambe le responsabilità viene posto limite in una prova liberatoria: che, peraltro, pur essendo identico il testo normativo – esigente la prova “di non aver potuto impedire il fatto” -, logicamente non può avere un contenuto identico, poiché la fonte della responsabilità è diversa.

Dalla lettura dei due commi si nota la loro evidente divergenza: il comma 1, disegna quella che tradizionalmente viene qualificata come responsabilità per culpa in educando senza peraltro indicare che cosa genitori (e tutori) abbiano omesso di fare affinché la responsabilità insorga, tutto essendo presupposto nella qualità genitoriale da un lato e filiale dall’altro; e il secondo comma, invece, indica espressamente che cosa non è stato fatto, cioè la “vigilanza”. Notoriamente, anche i genitori sono tenuti alla vigilanza dei figli minorenni; ma è evidente che la “vigilanza” del comma 2, è di contenuto specifico, in quanto si rapporta alla cognizione culturale e tecnica che viene trasferita dai responsabili ai loro “allievi e apprendisti”. Già questo basta per escludere che il raggiungimento della maggiore età di per sé estingua l’onere della vigilanza, poiché la maggiore età non significa che il soggetto cessi di essere allievo o apprendista, ovvero cessi di essere sottoposto a quella vigilanza che, logicamente, è teleologica, ovvero necessaria per l’attività di insegnamento/addestramento cui si riferisce l’art. 2048, comma 2.

Il comma 2, in altre parole, è molto più specifico rispetto al comma 1: l’attività dell’allievo/apprendista si svolge in un luogo e in un tempo specifici – quelli in cui si svolge l’obbligo di vigilanza -, ed è proprio la presenza dell’allievo/apprendista in quel luogo e in quel tempo che costituisce il presupposto del fatto illecito rilevante ai fini dell’articolo 2048, comma, laddove, nel comma 1, il luogo e il tempo in cui si verifica il fatto illecito è irrilevante, trattandosi di una responsabilità del tutto “generalista” riferita al rapporto di filiazione. Peraltro una stretta connessione con l’attività di insegnamento sussiste normalmente pure nel caso in cui l’insegnamento non ha per oggetto attività materiali: a differenza dell’epoca in cui fu scritto il codice civile, al giorno d’oggi l’insegnamento viene erogato quasi sempre in un ambito collettivo, ovvero non tramite lezioni personali da parte appunto di “precettori”, bensì entro istituti scolastici: e allora l’insegnamento comporta anche il controllo della condotta sociale degli studenti in tale ambito, così da consentire che l’insegnamento sia praticato in modo proficuo e che gli studenti esperimentino in modo positivo la loro socialità, comportandosi in modo corretto e rispettoso delle persone – compagni di classe e personale con cui condividono la socialità entro l’istituto scolastico.

Tuttavia, la maggiore età, benché non eserciti la propria incidenzasulla responsabilità dell’art. 2048 c.c., comma 2, incide nella determinazione del contenuto dell’obbligo di vigilanza, che appunto la giurisprudenza di legittimità da tempo commisura alle concrete caratteristiche del soggetto vigilato che consentono di conoscere le sue condotte prevedibili: e tra queste caratteristiche è inserita l’età. Scorrendo gli ultimi decenni, Cass. sez. 3, 4 marzo 1977 n. 894 già chiaramente afferma che il maestro delle scuole pubbliche elementari, quale rientrante nella nozione di precettore di cui all’ art. 2048 c.c., comma 2, in riferimento al comma 3, dell’articolo “in tanto… si libera dalla presunzione di responsabilità, in quanto provi di aver esercitato la vigilanza sugli alunni nella misura dovuta e che, nonostante l’esatto, completo adempimento di tale dovere…gli sia stato impossibile impedire il compimento dell’atto illecito causativo di danno per la sua repentinità e imprevedibilità, che non ha consentito un tempestivo efficace intervento”, non essendo però assoluto il contenuto del dovere di vigilanza, “bensì relativo all’età e al normale grado di maturazione degli alunni”; l’arresto ne deduce che la vigilanza nella scuola elementare (oggi scuola primaria) deve pertanto “raggiungere il massimo grado di continuità e attenzione nella prima classe”.

Nello stesso intento di commisurare il contenuto dell’obbligo di vigilanza anche rispetto all’età della persona vigilata, la Cassazione, sez. 3, con sentenza del 15 gennaio 1980 n. 369 ribadisce che il dovere di vigilanza previsto dall’ art. 2048 c.c., comma 2, “è da intendere in senso non assoluto ma relativo, in quanto il contenuto di detto obbligo è in rapporto inversamente proporzionale al grado di maturità degli alunni, con la conseguenza che con l’avvicinarsi di costoro all’età del pieno discernimento il dovere di vigilanza dei precettori richiede meno la loro continua presenza”. Ancora, la sentenza  Cass. sez. 3, 23 luglio 2003 n. 11453 riconosce che la presunzione di responsabilità ex art. 2048, comma 2, “non è assoluta – come se si trattasse di ipotesi di responsabilità oggettiva – ma configura una responsabilità soggettiva aggravata in ragione dell’onere… di fornire la prova liberatoria, onere che risulta assolto in relazione all’esercizio – da accertarsi in concreto – di una vigilanza adeguata all’età e al normale grado di comportamento” degli affidati, che in quel caso erano minorenni. Da ultimo, Cass. sez. 1, 9 maggio 2016 n. 9337, quanto al superamento probatorio della presunzione di responsabilità dell’insegnante per il fatto illecito dell’allievo, pur nell’ambito di un’impostazione assai rigorosa, giunge a sfociare nell’età dei vigilati come elemento sostanzialmente dirimente, affermando che l’insegnante dovrebbe dimostrare “di non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo dopo l’inizio della serie causale sfociante nella produzione del danno, e di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi di quella serie, commisurate all’età ed al grado di maturazione raggiunto dagli allievi in relazione alle circostanze del caso concreto, dovendo la sorveglianza dei minori essere tanto più efficace e continuativa in quanto si tratti di fanciulli in tenera età”.

Conclusioni

La vigilanza costituisce un supporto suppletivo di cui devono fruire in primis proprio i soggetti vigilati che non abbiano ancora capacità di gestire, o di gestire in modo completo, la propria condotta nell’ambito e nell’attività specifici in cui si trovano, così da evitare di porre in essere fatti dannosi. L’età della persona vigilata usualmente si rapporta, d’altronde, con il livello di capacità autogestionale: e quel che la tradizione definisce capacità di discernimento alla luce del notorio si incrementa con lo sviluppo psicofisico ed esperienziale della persona.

Al riguardo, su un piano generale, il legislatore, conferendo la maggiore età, presume che tale età renda capace una persona normale sotto il profilo psicofisico che l’ha raggiunta di evitare consapevolmente una condotta colpevole che cagioni danni a terzi. Se, allora, nel caso specifico dell’art. 2048, comma 2, la maggiore età del soggetto direttamente non priva il soggetto stesso del supporto della vigilanza da parte dell’insegnante, ciò non toglie che la presunzione di capacità di autogestione propria della maggiore età, quantomeno per le attività che non sono attività materiali oggetto di insegnamento (come potrebbero essere le attività sportive, artigianali, meccaniche e in generale tecniche), incida così da rendere a questo punto imprevedibile – nel senso di eccezionale, e quindi ordinariamente inevitabile – una condotta da parte dell’allievo maggiorenne che sia dannosa alle persone a lui prossime. Il che è insito nel secondo comma dell’articolo 2048 in un’ottica di interpretazione che aggiorni una norma promulgata negli anni 40 del secolo scorso con la situazione complessiva in cui oggi viene ad essere applicata. Non solo, infatti, il legislatore ha anticipato, rispetto a quell’epoca, l’età maggiorenne – che quando fu promulgato il codice ben difficilmente avrebbe potuto essere raggiunta da chi ancora frequentava un istituto scolastico o svolgeva attività di apprendistato -; ma altresì deve considerarsi che la complessiva evoluzione sociale è coerente ormai con il riconoscere nelle persone di età prossima ai 18 anni una maturazione psicofisica ormai completa, e quindi idonea a giustificare una loro autoresponsabilità come responsabilità diretta ed esclusiva. I c.d. grandi minori costituiscono oramai, in effetti, una fascia di passaggio tra l’età adolescenziale in senso stretto e la maggiore età, assimilandosi, peraltro, più a quest’ultima che a un periodo di necessità di sostegno altrui e di incapacità di comprendere direttamente gli effetti delle proprie azioni od omissioni. Mentre all’epoca della promulgazione del codice civile il minore era, d’altronde, complessivamente ancora un soggetto passivo, tanto che il genitore, sul piano più generale, esercitava nei suoi confronti una potestà, nel sistema odierno il minore è ora un soggetto, per così dire, giuridicamente incrementato; a fortiori, dunque, l’età del discernimento pieno non può non presumersi raggiunta dall’allievo maggiorenne in riferimento a quelle condotte che, come già si è detto, non necessitano di particolari conoscenze tecniche per essere compiute in modo corretto e privo quindi di pericoli.

Se, dunque, permane la responsabilità ex art. 2048, comma 2, anche nel caso in cui l’allievo sia maggiorenne, in ultima analisi l’età maggiorenne incide comunque sul contenuto dell’onere probatorio dell’insegnante, in quanto la dimostrazione da parte sua della maggiore età dell’allievo – al di fuori, come si è appena ripetuto, di condotte specificamente correlate ad un insegnamento tecnico – deve ritenersi ordinariamente sufficiente per provare che l’evento dannoso ha costituito un caso fortuito, essendo stato posto in essere da persona non necessitante di vigilanza alcuna in quanto giunta ad una propria completa capacità di discernimento, persona che pertanto – essendo ben consapevole delle sue conseguenze – non era prevedibile che effettuasse una siffatta condotta. Questo principio, per le appena descritte condotte, per così dire, socialmente “generaliste”, non può non valere anche per le persone che sono ormai prossime alla maggiore età, come sono usualmente quelle che frequentano l’ultimo anno di una scuola superiore. Il caso fortuito, infatti, si ripete, non può non conformarsi alla complessiva realtà giuridica e sociale odierna in cui viene ad inserirsi una norma precauzionale come l’art. 2048 c.c., comma 2, ben potendo comunque – è ovvio – la parte danneggiata contrastare la presunzione di caso fortuito appena delineata come discendente dalla dimostrazione dell’età maggiorenne o prossima alla maggiore età con la prova della prevedibilità della condotta dannosa da parte del soggetto che l’ha posta in essere, ovvero di un peculiare contenuto dell’obbligo di vigilanza che l’insegnante non abbia adempiuto: per esempio, dimostrando che autore dell’evento dannoso è stata una persona che aveva già manifestato spiccati elementi di asocialità, oppure una persona notoriamente ostile/vendicativa per pregressi eventi nei confronti della persona danneggiata ecc..

La responsabilità dei genitori in educando

La responsabilità dei genitori in educando

di Anna Armone

La tematica è correlata ai casi di danni causati da alunni durante la permanenza a scuola e, in generale, durante le attività didattiche. La tutela del danneggiato parte dalla richiesta di risarcimento del danno all’istituzione scolastica che chiama in causa la società assicuratrice. Ma la storia non finisce qui. L’insoddisfazione della famiglia del danneggiato può portare alla chiamata in causa dell’amministrazione scolastica e, qualora si ritenga che il fatto dannoso trovi la propria origine anche in una carenza educativa del danneggiante, anche dei genitori di quest’ultimo, per responsabilità in educando.

Gli articoli 2047 e 2048 del codice civile

Accanto al sistema della responsabilità civile basato sulla colpa dell’autore dell’illecito sono previste ipotesi in cui l’attribuzione della responsabilità avviene in base a regole diverse (art. 2047 – 2054 c.c.).In particolare, nell’ipotesi del danno cagionato da persona incapace di intendere e di volere la responsabilità del fatto dannoso ricade su persona diversa da quella che lo ha commesso materialmente (art. 2047 c.c.) mentre nell’ipotesi del fatto illecito commesso da un minorenne la responsabilità è attribuita anche ai genitori(art. 2048).

La prima distinzione da fare, dunque, riguarda lo status del minore. Quando il danneggiante è persona incapace d’intendere e di volere, ai sensi dell’art. 2047 c.c., colui che era tenuto alla sorveglianza o vigilanza rimane obbligato per responsabilità diretta, propria, poiché l’obbligo deriva dalla omissione di vigilanza. Esso non nasce, dunque, da una colpa dell’agente (incapace), perché il danno subito ad per opera di persona che non abbia capacità d’ intendere e di volere si traduce sostanzialmente in un caso fortuito, ma il fatto deriva dall’essere stato reso possibile con la omessa sorveglianza. Rimane obbligato colui che aveva dovere di sorveglianza, ed è tenuto ad un completo risarcimento su di una base equitativa, a meno che non abbia potuto impedire il fatto o non possa risarcire il danno.

Viceversa, nei casi di cui all’art. 2048 presupposto è la capacità d’intendere e di volere del minore, e la responsabilità per il fatto dannoso deriva dal concorso di due responsabilità distinte, per quanto concorrenti. Responsabile principale (per dolo, o colpa) è il minore, e con esso son tenuti i genitori, o il tutore, o il precettore, o il maestro di mestiere e di arte per responsabilità indiretta. In conclusione, nell’art. 2048 si tratta di situazioni che afferiscono all’incapacità di agire, non all’incapacità giuridica.

La giurisprudenza è pragmaticamente orientata ad attribuire alle disposizioni di cui agli articoli 2047 e 2048 c.c. il compito di garantire il più possibile la risarcibilità del danno cagionato ingiustamente da soggetti incapaci o comunque minori di età. In alcune decisioni il confine tra colpa e responsabilità oggettiva appare molto sfumato, evidentemente per non lasciare ingiustificatamente privi di copertura risarcitoria eventi dannosi che altrimenti sfuggirebbero al sistema della responsabilità civile. Tuttavia, si può affermare che la giurisprudenza interpreta certamente come fondato sulla colpa del sorvegliante e del genitore il criterio di imputazione della responsabilità nelle situazioni cui fanno riferimento l’art. 2047 e l’art. 2048 del codice civile.

Nel sistema dell’istruzione, se è vero che i docenti rispondono per eventuali danni cagionati agli studenti qualora si accerti la loro culpa in vigilando, anche i genitori possono essere chiamati in causa e rispondere degli stessi fatti per culpa in educando. Dunque, la responsabilità del docente e quella del genitore non sono alternative e possono essere tirate in ballo entrambe per uno stesso episodio. Insomma, l’eventuale culpa in vigilando di un insegnante non esclude la culpa in educando del genitore, in quanto il primo deve sorvegliare gli alunni in modo adeguato, prendendo tutte le misure atte a evitare una situazione di pericolo; ma è responsabilità del secondo impartire al minore l’educazione adeguata a scongiurare comportamenti illeciti o causa di rischio per il proprio figlio o per i suoi compagni.

I genitori, pertanto,  sono coinvolti, ai sensi dell’art. 2048 c.c., in due tipi di responsabilità per i fatti illeciti dei minori che abbiano la capacità di intendere e di volere: la “culpa in educando” a carico dei genitori che non abbiano impartito al figlio una adeguata educazione così come previsto dall’art. 147 c.c. e la “culpa in vigilando” a carico dei genitori, dei precettori e dei maestri d’arte che sono liberati dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto.

Il primo comma dell’art. 2048 si incentra sulla figura dei genitori (in solido) nei confronti dei figli minori non emancipati e/o del tutore nei confronti delle persone soggette alla tutela.

I presupposti affinché sussista la responsabilità sono:

• la convivenza con l’autore dell’illecito

• la mancata educazione impartita ai figli, così come prevede l’art. 147 c.c. in tema di doveri verso i figli ed ai sensi dell’art. 30 Cost.

L’ultimo comma disciplina la prova liberatoria in capo a chi ne risponde. Nella fattispecie, è previsto che chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace, il padre e la madre, in solido hanno la possibilità di liberarsi dalla suddetta responsabilità solo nel caso in cui dimostrino di “non aver potuto impedire il fatto”.

I genitori avranno l’onere di dimostrare il tipo di educazione che hanno impartito al minore, che deve essere idonea, seguendo i dettami del “buon padre di famiglia” e, tale, per cui, il figlio sia stato in grado di sapersi relazionare in maniera diligente e seguendo le regole di una corretta convivenza civile; e, altresì, dimostrare di aver vigilato correttamente sullo stesso.

Nel caso si dovessero ravvisare tutti gli elementi in grado di identificare quel fatto come illecito, in capo ai genitori ricadrà una responsabilità diretta, la cui prova liberatoria assumerà i connotati della c.d. “probatio diabolica”, con minor riguardo nei confronti del ragazzo (Cassazione civile, sez. III, sentenza 19.02.2014 n° 3964.

Il ruolo genitoriale in educando

Nel processo educativo l’ordinamento stesso si è dato dei limitinon superabili, proprio per non interferire nell’autonomia familiare nella gestione della relazione educativa con i propri figli.In questo spazio gestito dai genitori prevale l’aspetto morale e sociale su quello regolato normativamente. Ma, nonostante ciò, però, l’obbligo educativo rimane e comporta conseguenze sulla responsabilità genitoriale, tra le quali rientra la responsabilità risarcitoria rispetto ai terzi danneggiati dalla condotta del minore.

Il dovere educativo consiste nell’impartire principi e regole di comportamento finalizzati allo sviluppo armonico della persona per il suo migliore inserimento nella società, a beneficio, dunque, anche di quest’ultima.   A differenza della potestà, la responsabilità, così come l’obbligo di mantenimento, non cessa, secondo l’opinione più diffusa, automaticamente con il raggiungimento della maggiore età. Contestualmente bisognaconsiderare il trend oramai inarrestabile della crescita anticipata dei minori e della loro autonomia. Vengono definiti “grandi minori” proprio per indicare questa nuova dimensione dei ragazzi agita fuori dal controllo dei genitori. Tutto ciò incide sulla determinazione del contenuto dell’obbligo educativo e della correlata responsabilità.

Prova liberatoria di responsabilità

La presunzione di responsabilità per i genitori è iuris tantum, per cui la prova liberatoria consiste nel non avere potuto impedire il fatto. 

Nel tempo in cui il minore si trova affidato al precettore od a colui che gli insegna un’arte od un mestiere, i genitori, od il tutore, sono legittimamente esonerati dall’obbligo della vigilanza, sostituendosi ad essi il precettore od il maestro d’arte. Responsabilità solidale potrà sorgere solo se il fatto illecito del minore sia imputabile ad entrambi, come se il genitore, tenendo incustodita in casa un’arma, non abbia saputo evitare che il figlio minore se ne impossessi nell’atto di uscire in strada, ed il precettore o maestro non abbia saputo impedire l’uso di questa, causativo di danno al terzo, mentre l’allievo si trovava con lui. È ovvio che se il fatto del minore non si collega all’ insegnamento, ma derivi da mala educazione, risponderà il genitore; se connesso all’ insegnamento, il maestro.

La giurisprudenza si è mostrata molto restrittiva per la “culpa in educando”, ammettendo il raggiungimento della dimostrazione di non aver potuto impedire il fatto. Ciò, anche perché la Cassazione ha finito per richiedere ai genitori la prova positiva di aver impartito una sana e adeguata educazione. Di conseguenza la prova liberatoria è divenuta sempre più difficile al punto d trasformare la responsabilità da colposa a quasi oggettiva.Infatti, nelle sentenze in materia è stata sempre più tralasciata una concreta indagine sulla effettiva colpevolezza dei genitori, dando maggiore spazio alle “modalità” del fatto illecito; molto spesso sulla base di documentazioni raccolte in un giudizio penale che costituiscono “prove atipiche” ed hanno valore di indizi semplici.Da più di un decennio, però, sempre la Suprema Corte (Sez. 3, 6/12/2011 n. 26200) sembra mostrare una attenzione nuova: enuncia infatti il principio che va imputata ai genitori la responsabilità degli “illeciti dei figli minori riconducibili ad una obiettiva carenza dell’ attività educativa”. 

Prove queste che vanno costruite con le testimonianze di persone che abbiano conosciuto la famiglia e il minore, con i precedenti dello stesso e con le di lui frequentazioni.

D’altra parte, anche le sentenze più restrittive avevano, comunque, enunciato che la valutazione delle modalità vanno sempre confrontate con le prove raccolte nel giudizio per verificare se siano in contrasto con le risultanze processuali.

In tema di responsabilità dei genitori per i danni cagionati dall’illecito del figlio minore, ove manchi, da parte dei primi, la prova liberatoria di non aver potuto impedire il comportamento dannoso – e cioè la dimostrazione di avere impartito al minore l’educazione e l’istruzione consone alle proprie condizioni familiari e sociali e di avere vigilato sulla sua condotta, così da non potersi configurare a loro carico una “culpa in educando” o “in vigilando” – i genitori medesimi sono obbligati a risarcire i detti danni nella stessa misura con cui tale obbligazione graverebbe sull’autore materiale dell’illecito e, quindi, in caso sussistano le condizioni, anche a risarcimento dei danni non patrimoniali.

Con riferimento alla regolazione dei rispettivi comportamenti, la scuola e la famiglia devono trovare nell’ambito del patto di corresponsabilità educativa il luogo in cui impegnarsi nell’azione educativa. Tale regolazione costituisce, quantomeno, prova dell’impegno reciproco finalizzato ad evitare situazioni causative di danno tra gli alunni.

Dal punto di vista della natura dell’obbligazione risarcitoria, in caso di concorso di responsabilità tra istituzione scolastica e genitori, la responsabilità è “solidale”, ossia il danneggiato può rivolgersi a ciascuno dei responsabili e pretendere l’intero risarcimento anche da uno solo di essi.

Ecco, dunque, l’opportunità, se non necessità, per le famiglie di stipulare una polizza assicurativa per la responsabilità civile. Ciò perché nel caso di pagamento del risarcimento in toto da parte dell’amministrazione, la famiglia si troverebbe a subire un’azione di regresso per la percentuale di responsabilità riconosciuta da giudice a suo carico.

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