Due maggio 1945

Due maggio 1945!

di Maurizio Tiiriticco

Il 2 maggio del 1945: una grande ricorrenza! La Bandiera Rossa sventola sul Reichstag, a Berlino!

La grande Primavera del 1945!!! Siamo alla fine della terribile Seconda Guerra Mondiale! E la Bandiera della Vittoria viene finalmente piantata dai soldati sovietici sulle rovine del Reichstag, in Berlino. Il palazzo del Reichstag era statocostruito come sede per le riunioni del Reichstag, appunto, ovvero il Parlamento del Reich Tedesco. Era stato inaugurato nel 1894 ed è tornato ad essere la sede del Parlamento Tedesco nel 1999. Rimasto fortemente danneggiato dopo l’incendio del 1933, il palazzo non fu più utilizzato durante il Terzo Reich, ma venne comunque ritenuto un simbolo della Germania nazista.

Il Reichstag fu attaccato dai soldati sovietici dell’Armata Rossa durante la fase decisiva della cosiddetta battaglia di Berlino del 1945. E riuscirono a conquistarlo dopo un violento combattimento contro la guarnigione tedesca asserragliata all’interno e …..

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27 febbraio 1933: l’incendio del Reichstag

Novant’anni fa a Berlino bruciava il Reichstag, sede del parlamento tedesco. La polizia catturò vicino all’edificio un noto agitatore Marinus van der Lubbe e i nazisti ne approfittarono per far ricadere la colpa sul Partito socialdemocratico. Vediamo come quest’evento, che segnò un punto di svolta per l’ascesa del nazismo, venne strumentalizzato attraverso l’articolo “Chi ha bruciato il Reichstag?” di Roberto Festorazzi, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Un simbolo in fumo. La notte del 27 febbraio 1933 le fiamme distrussero il Reichstag, il parlamento tedesco a Berlino. Andava così in fumo il simbolo del fragile regime democratico nato dopo la sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale. Aprendo la strada alla dittatura di Adolf Hitler, vincitore delle elezioni del novembre 1932 e Cancelliere da meno di un mese. Ad appiccare l’incendio fu uno strano personaggio: un militante libertario olandese di 24 anni, Marinus van der Lubbe, catturato sul luogo dell’attentato.

Fine di un’era. Hitler, giunto sul posto, volle rendersi conto di persona dell’accaduto. Il rogo aveva distrutto l’aula in cui si riuniva l’assemblea e danneggiato gravemente la cupola del monumentale palazzo neoclassico, senza però farla crollare. Un paio di notti prima, l’olandese aveva compiuto le sue prove generali, innescando roghi dapprima al municipio di Berlino, poi in un ufficio di assistenza sociale della capitale tedesca e infine anche presso il Palazzo imperiale.

Un attentato “artigianale”. Con lo stesso tipo di sostanza infiammabile, la “diavolina” (quella che si usa per accendere stufe e caminetti), la sera del 27 febbraio, verso le 21, riuscì a penetrare all’interno del Reichstag, non particolarmente presidiato. Fabbricò alcune torce con pezzi di tende, asciugamani e vestiti e appiccò l’incendio nel grande anfiteatro delle assemblee.
Le fiamme si propagarono rapidamente attraverso tappezzerie, drappeggi e rivestimenti di legno. Il calore fece esplodere la vetrata della gigantesca cupola di vetro e acciaio: immortalata dai fotografi, quell’immagine divenne un simbolo. Alle 21:30 l’attentatore fu arrestato da un poliziotto e dal custode del Reichstag, dopo un lungo inseguimento all’interno dell’edificio. Al guardiano che gli chiese, a caldo, “Perché lo hai fatto?”, rispose: “Per protestare!”.

Colpa dei comunisti. Dopo l’incendio, l’anziano presidente del Reich, Paul von Hindenburg, accettò di firmare un decreto che aboliva la maggior parte dei diritti civili in Germania. I comunisti, subito indicati come gli autori dell’attentato, vennero messi al bando e fu dichiarato fuorilegge l’avversario storico dei nazisti, il Partito socialdemocratico. Non solo. Il 5 marzo i tedeschi furono nuovamente chiamati al voto e dalle urne Hitler uscì trionfatore, per la prima volta con la maggioranza assoluta.

Proprio ripercorrendo questa rapida sequenza di eventi, molte ricostruzioni hanno dato per certo che l’attentato fosse una provocazione orchestrata dal Führer e dai gerarchi del nazismo per dare la spallata finale alla democrazia tedesca. Questa tesi, però, secondo gli storici di oggi, non regge. È certo che il nazismo trasse vantaggio dal rogo, presentandolo come una prova della minaccia “rossa”, ma per Hitler fu un colpo di fortuna, non il risultato di un piano preciso.

Agli atti. La chiave di quei fatti è contenuta nell’Archivio numero 551, conservato fino agli Anni ’80 del secolo scorso a Lipsia e oggi, a Berlino, a disposizione degli studiosi. Lì sono raccolti gli atti del processo celebrato a Lipsia nel 1933, conclusosi con la condanna a morte di van der Lubbe. Carte che nel 1945 l’Armata Rossa aveva sequestrato e portato a Mosca. Dallo studio di quel materiale è emersa la definitiva conferma del fatto che il rivoluzionario dei Paesi Bassi agì da solo, senza complici o manovratori.
Come del resto avevano ricostruito già gli storici tedeschi Fritz Tobias e Hans Mommsen, negli Anni ’60. Studiando quelle carte, il biografo di Hitler e tra i più autorevoli studiosi del nazismo, lo storico inglese Ian Kershaw, ha confermato, negli Anni ’90, che «nessun altro fu implicato nella faccenda». Anzi, il Führer e Joseph Goebbels si convinsero che la cattura di un comunista olandese, mezzo nudo, con un pamphlet marxista in tasca, fosse il segnale inequivocabile dell’imminente insurrezione bolscevica.

La cupola del Reichstag in fiamme dopo l’attentato incendiario del 27 febbraio 1933.
© Everett Collection / Shutterstock

Minaccia rossa. Nel contesto storico di allora, era una possibilità ben reale. Kershaw ha spiegato che, a quel tempo, «il timore che i comunisti non restassero inattivi e potessero intraprendere una qualche dimostrazione di forza era molto diffuso tra i vertici del nazismo, nonché tra i componenti non nazisti dell’esecutivo». Così, Hitler, in uno dei suoi attacchi isterici, ordinò di arrestare, quella stessa notte, tutti i deputati comunisti, sbraitando “Dobbiamo soffocare questo micidiale flagello usando il pugno di ferro!”.

Leggenda nera. Ma se questi furono i fatti, come nacque la leggenda nera di van der Lubbe “agente provocatore” del Führer? A lanciare per primo la tesi del complotto nazista fu Willi Münzenberg, dirigente del Partito comunista tedesco, autore di un pamphlet sul caso, pubblicato a Parigi nel 1933 con grande successo. Del resto, fin da subito l’incendio del Reichstag venne usato dalla propaganda.

Da una parte, i nazisti accusarono van der Lubbe di essere una pedina di Stalin e del Partito comunista tedesco. Dall’altra, le sinistre sostennero che dietro all’incendio ci sarebbe stata la regia occulta dei nazisti in cerca di un pretesto. Strumento di quella macchinazione, il povero attentatore, dipinto come affetto da problemi psichici e fisici e al servizio del nuovo Nerone, Hitler. Ma dagli atti del processo emerge che Marinus era un uomo prestante, provetto nuotatore, ben lontano dalle raffigurazioni grottesche che ne fecero. E si era davvero illuso di innescare un’insurrezione popolare contro Hitler e il capitalismo.

Comunista pentito. Van der Lubbe era un marxista anomalo. Dopo un viaggio in Unione Sovietica aveva deciso di restituire la tessera del Partito comunista olandese e si era avvicinato a gruppi di estrema sinistra in rotta con lo stalinismo. Difficile, quindi, che fosse in contatto con il Partito comunista tedesco, forza politica allineata con Mosca.
De Tribune, giornale bolscevico olandese, fu tra i primi a dissociarsi da van der Lubbe, cercando di accreditarlo come membro del Partito nazionalsocialista e informatore di polizia. Altri scrissero che gli erano stati promessi 50mila marchi per dare fuoco al parlamento. Per parte sua, van der Lubbe difese il suo gesto fino all’ultimo. A un giornalista, in carcere, dichiarò: “Non ci si deve mai pentire di ciò che si è fatto. La sola cosa che rimpiango è che la cupola del Reichstag non sia crollata. Una cupola è sempre qualcosa di simbolico”.

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