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Sotto i ferri del robot-chirurgo

Il paziente è sul lettino operatorio, accanto a lui c’è solo l’anestesista che controlla i parametri vitali. I chirurghi sono qualche metro più in là, seduti alla consolle: guidano con esperienza le braccia del sistema robotico da Vinci sul campo operatorio. Tutti però possono vedere sugli schermi della sala i movimenti precisi e puntuali del robot. Infatti, oltre a garantire tanti vantaggi per i pazienti, aiuta anche i medici del futuro a imparare più facilmente, senza essere costretti ad “arrampicarsi” sui colleghi per sbirciare le mani del chirurgo come succedeva negli scorsi decenni.
Il robot-chirurgo. Le sale operatorie meno gremite non sono l’unico vantaggio dei robot, che di fatto consentono interventi mininvasivi anche in situazioni in cui in passato era inevitabile ricorrere alla chirurgia tradizionale, con grandi cicatrici e un considerevole impatto sui tessuti: minor sanguinamento, minor dolore, un miglior risultato estetico, un recupero più rapido e meno giorni di ospedale pure dopo interventi “pesanti”, con un risparmio anche economico grazie alla riduzione delle complicanze e delle degenze (in qualche caso la durata del ricovero si può perfino dimezzare) sono fra i principali benefici emersi in oltre vent’anni di esperienza in tutto il mondo.

Ma quel che piace tanto ai chirurghi è anche la precisione del robot: gli strumenti robotici eliminano i tremori fisiologici dell’operatore, possono fare movimenti più fini e ampi rispetto alla mano umana, ruotando per esempio di 540 gradi come nessun polso mai potrebbe e con una libertà di movimento su ben sette assi; inoltre la telecamera offre una visione tridimensionale anziché bidimensionale come nella laparoscopia classica, per di più ingrandita di dieci volte. Il risultato è una veduta chiarissima del campo operatorio, come se il chirurgo ci si trovasse dentro, mentre invece sta comodamente seduto a una consolle comandando le braccia robotiche tramite joystick in maniera intuitiva, proprio come se muovesse le sue mani dentro il paziente.
La precisione dei robot. «Tutto questo ha fatto sì che negli anni le indicazioni della chirurgia robotica siano progressivamente incrementate e oggi per esempio viene usata anche nei pazienti più complessi e fragili, dove serve intervenire con precisione ma anche ridurre il trauma sui tessuti», spiega Franca Melfi, docente di chirurgia toracica dell’Università di Pisa e direttrice del Centro Robotico Multidisciplinare dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa.
Va detto che non sono mancati i detrattori: nei vent’anni in cui si è andata formando l’esperienza clinica alcuni chirurghi per esempio hanno temuto che il robot comportasse interventi troppo prolungati e quindi un carico di anestesia maggiore, insostenibile per alcuni pazienti più fragili, oppure ancora che in oncologia gli esiti non fossero sovrapponibili a quelli possibili con la chirurgia “aperta”, comportando un maggior rischio di recidive.

Nel tempo le evidenze di efficacia si sono accumulate e, come specifica Melfi, «in passato, è vero, i tempi di intervento erano maggiori soprattutto nella cosiddetta fase del “docking” ossia del posizionamento dei bracci e questo era dovuto anche a modelli meno flessibili di quelli attuali. Oggi basta solo una decina di minuti; la procedura poi è più lunga quando non è standardizzata, ma una volta messo a punto il protocollo non ci sono differenze significative con gli altri approcci chirurgici.
così colpisce i tumori. Quanto ai timori di non essere abbastanza radicali nel rimuovere un tumore con i linfonodi circostanti, l’esperienza ha dimostrato che non è così: il robot può dare una marcia in più perché si vede meglio la massa da asportare e si può essere più precisi; ciò consente di raggiungere più agevolmente le stazioni linfonodali e quindi togliere più linfonodi anche in aree difficili da raggiungere con la chirurgia aperta. Nel caso del cancro al polmone, per esempio, in passato si diceva che era possibile operare con il robot solo lesioni piccole e periferiche, oggi sappiamo che si può intervenire anche su tumori di grandi dimensioni».

Anche la “curva di apprendimento” per imparare a utilizzare le braccia robotiche non preoccupa più troppo: certo per imparare a operare con da Vinci un chirurgo deve prima aver compiuto gli altri passi della formazione, cioè saper operare in aperto e in mininvasiva standard, ma, come spiega Melfi, «con il robot oggi si impara più velocemente, proprio grazie all’aiuto di una tecnologia all’avanguardia e intuitiva: i vari studi hanno dimostrato che per acquisire le abilità necessarie a poter completare la curva di apprendimento occorre eseguire circa venti interventi, per la chirurgia laparoscopica ne servono cinquanta. La chirurgia robotica del resto dà la possibilità di applicare gli stessi gesti della chirurgia tradizionale, con la laparoscopia invece occorre cambiare completamente l’approccio».
Formazione dei chirurghi.  I medici giovani, nativi digitali, sono tra l’altro perfino più rapidi nell’apprendimento perché non hanno la diffidenza nei confronti della tecnologia di chi ha iniziato e operato per decenni con il solo bisturi; inoltre, forse per la loro esperienza con videogiochi e realtà virtuale, sono più abituati a utilizzare simulatori e viene loro naturale usare braccia robotiche per operare. E in tante sale i robot sono provvisti di 2 console così che il primo chirurgo, oltre a prendere il comando in alcuni frangenti, insegna direttamente sul campo, consentendo al secondo chirurgo di fare esperienza diretta senza per questo compromettere l’esito dell’intervento.

Aggiunge l’esperta: «Grazie alle tante simulazioni che è possibile fare con la piattaforma robotica, i nuovi chirurghi riescono ad acquisire molta esperienza in minor tempo, di fatto imparando ben prima rispetto a quando l’unica modalità di apprendimento era sbirciare da dietro le spalle del luminare per vedere come si muovevano le sue mani». Poi quando finalmente si arrivava a operare un paziente si cercava di ripetere quei gesti, ma c’è da scommettere che chiunque preferirebbe finire sotto un chirurgo che abbia una solida esperienza virtuale anziché nelle mani di uno alle prime armi con un bisturi reale.
In sala operatoria con il robot. Per tutti questi motivi da Vinci sta trovando sempre più spazio in sala operatoria: nel mondo ce ne sono ben 6.700 e soltanto in Italia, dove ce ne sono oltre 150 distribuiti su tutto il territorio, nel 2021 sono stati operati dal bisturi robotico più di 27mila pazienti, per le più varie tipologie di indicazioni. Il sistema robotico – che in Italia è il fiore all’occhiello dei prodotti distribuiti da ab medica, oggi guidata da Francesca Cerruti e punto di riferimento per la robotica chirurgica e per la telemedicina – per esempio da anni è utilizzato per intervenire sulla prostata: anche quando la ghiandola viene rimossa per un tumore, i risultati ottenuti con il robot sono sovrapponibili a quelli con la chirurgia classica e l’intervento è così poco invasivo e rispettoso dei nervi circostanti da ridurre il rischio di disfunzione erettile, come ha dimostrato un recente studio australiano.

Il robot-chirurgo viene ampiamente usato anche in ginecologia, cardiochirurgia, chirurgia toracica e dei trapianti; in alcuni contesti, come certe prostatectomie, viene considerato ormai il gold standard, cioè l’intervento di riferimento. E si sta utilizzando sempre di più anche sui bambini, come hanno spiegato poche settimane fa Rossella Angotti e Alessandro Raffaele del Policlinico Le Scotte di Siena analizzando i dati di sette centri di chirurgia pediatrica italiani: i primi interventi sui più piccoli risalgono a una decina di anni fa e oggi si ricorre al robot per esempio per rimuovere parti del polmone, per interventi di chirurgia urologica, per trattare il reflusso gastroesofageo nell’infanzia.
Costi e benefici. La questione più spinosa, in ultima analisi, resta il costo del robot-chirurgo: è un investimento rilevante per gli ospedali. «La chirurgia robotica, per avere un buon rapporto costo-beneficio va usata con continuità affinché si formi un’esperienza adeguata che garantisca i risultati migliori. L’uso intensivo abbatte i tempi per la formazione dei chirurghi e i costi per singolo intervento, rendendo così la chirurgia robotica sostenibile sotto ogni punto di vista», spiega Melfi.

Che effetto ci fa un robot che imita l’uomo?

Non è la prima volta che il robot umanoide Ameca fa parlare di sé: era salito alla ribalta della cronaca a dicembre scorso, quando l’azienda britannica Engineered Arts, sua creatrice, aveva diffuso un video in cui ne mostrava le capacità espressive. Ora Ameca si presenta ulteriormente migliorato, con dodici nuovi attuatori che gli permettono di assumere espressioni sempre più umane di stupore, disgusto, dolore.

Miglioramenti e frecciatine. Il principale miglioramento che si nota nel nuovo video diffuso dalla Engineered Arts è che Ameca è ora in grado di utilizzare anche braccia e mani: tocca lo schermo, muove le dita – riesce insomma a muovere la parte inferiore del corpo.
I più attenti noteranno che nel video che abbiamo inserito in apertura è presente sullo sfondo una persona che lavora a un computer: se osservate bene, vedrete che sta guardando delle immagini del prototipo di Optimus, l’umanoide progettato da Tesla, che balla. Secondo Interesting Engineering si tratterebbe di una stoccata a Musk, che continua a rimandare la data della presentazione del suo robot umanoide.

i giusti distinguo. Ameca è un’intelligenza artificiale o un robot? La risposta viene dalla stessa Engineered Arts, che sul suo sito sottolinea: «Noi costruiamo robot, e Ameca vuole essere una piattaforma nella quale sviluppare l’IA. I robot non sono IA, e l’IA non ha a che fare solo coi robot».

Camminate e espressioni spontanee. Nonostante venga definito dai suoi creatori “il robot umanoide più avanzato al mondo”, Ameca (almeno per ora) è solo in grado di riprodurre le espressioni facciali umane, ma non riesce a manifestarle autonomamente: questa è una buona notizia per chi teme che i robot ci ruberanno il lavoro, perché un umanoide inespressivo difficilmente potrà sostituire una persona, se non in compiti ripetitivi e non a contatto con il pubblico.
Ameca, tra l’altro, non sa camminare: a detta della Engineered Arts, però, questa caratteristica è in via di sviluppo, e trattandosi di un robot modulare potrà essere aggiunta in seguito insieme ad altre migliorie. Per ora non ci resta che osservarne i ghigni su Youtube, domandandoci quando i confini tra tecnologia e realtà saranno così sfumati da non vedersi più.

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