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I russi spiegati da Conrad, lo scrittore polacco con un passato nella Russia autocrate

Continuiamo a dipanare i dubbi del presente appoggiandoci alla letteratura, questa volta con l’autore di “Sotto gli occhi dell’Occidente”: il suo è un racconto (e una vita) che testimonia, sotto l’apparenza di grandi ideali, il feroce nichilismo di chi non ammette limiti di sorta al proprio potere

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Con chi starebbe oggi Dostoevskij? Con Putin, che invade e bombarda l’Ucraina sotto il vessillo della non omologazione della Russia all’Occidente, o con chi Putin lo combatte? In forma molto semplificata, questo è il tema che ha posto sul Foglio del 23 maggio Oscar Giannino a cui hanno risposto in precedenza Marco Archetti il 25 maggio, e lo storico Giovanni Savino, il 6 giugno. 

Si potrebbe liquidare la questione dicendo banalmente che amare certi libri non significa sposare le idee di chi li ha scritti. Che importa con chi starebbe oggi Dostoevskij? A rovistare nei cassetti dei grandi, oltretutto, si rischiano scoperte che non vorremmo mai fare. Tanto per rimanere in Russia, pensiamo all’ostilità militante di Tolstoj contro Shakespeare. Un poetastro senza talento, secondo il grande russo, meritevole del più totale oblìo. Si poteva immaginare qualcosa di più orribile di quel guazzabuglio della “Tempesta” e di più noioso di Re Lear? (George Orwell, con britannico acume, avrebbe in seguito notato che, guarda caso, Tolstoj si scagliava contro una figura alla quale assomigliava in modo impressionante). Lo stesso Tolstoj non si capacitava neanche dell’interesse del mondo per il caso Dreyfus, vicenda a suo giudizio del tutto irrilevante. A proposito di antisemitismo, molto si è discusso delle ambigue posizioni di Dostoevskij. E Vittorio Strada, in “Impero e rivoluzione”, ricordava che l’autore di “Delitto e castigo” scriveva sul suo diario, nel 1877: “Costantinopoli deve essere nostra, deve essere conquistata da noi, russi, togliendola ai turchi e deve restare nostra per sempre. Soltanto a noi deve appartenere. (…) Quale confronto si può mai fare tra i russi e gli slavi? E chi stabilirà tra loro un’uguaglianza? Come può la Russia partecipare al possesso di Costantinopoli su basi paritarie con gli slavi, se la Russia non è uguale sotto ogni riguardo né ad ogni popoluccio singolarmente preso né a tutti loro messi insieme?”. 

Inclinazioni disdicevoli, mistica messianico-nazionalista, solenni cantonate. Ameremo forse meno, per questo, “Anna Karenina” o “I fratelli Karamazov”? No di certo. La vera sostanza del quesito però è un’altra. Si tratta di capire, scrive Giannino, come continuare a dialogare “con la profonda anima russa”, quell’anima che oggi sarebbe più che mai in sintonia con l’ennesimo autocrate che siede al Cremlino. Siamo partiti dalla letteratura e allora continuiamo a chiedere aiuto alla letteratura. Uno che il tema della profondità della grande anima russa ha provato – o piuttosto è stato costretto – ad affrontarlo, fu Joseph Conrad. Era nato intorno al 1858 a Berdicev, nella parte di Polonia sotto il governatorato di Kiev, e prima di diventare Joseph Conrad si chiamava Józef Teodor Konrad Korzeniowski. Se oggi ci torna in mente non è per i suoi racconti di mare ma per un libro pubblicato nel 1911: “Sotto gli occhi dell’Occidente”. Un gran romanzo nel quale Conrad racconta la Russia della polizia zarista, dei complotti rivoluzionari, delle provocazioni incrociate, dei nichilisti provvisoriamente emigrati in Svizzera. Un testo preveggente, secondo André Glucksmann, che in “Dostoevskij a Manhattan”, scritto dopo l’attacco alle Torri gemelle, vi trovava un’intuizione fondamentale: il paradigma nichilista, in Russia, accomunava autocrazia e rivoluzionari. “La ferocia e la stupidità di un regime autocratico fuori da ogni legalità e fondato di fatto su una totale anarchia morale – scrive Conrad – è la causa di un ribellismo rivoluzionario puramente utopico che reagisce in modo altrettanto stupido e atroce, complottando e distruggendo con ogni mezzo a disposizione, nella strana convinzione che la caduta di certe istituzioni umane sarà seguita da un radicale cambiamento dei cuori. Costoro non si accorgono di star cambiando solo i nomi”. 

Tesi troppo semplificatoria, fu l’accusa di una parte della critica a Conrad. Eppure, “Sotto gli occhi dell’Occidente” non è affatto il libro di un odiatore dei russi, sebbene qualche buon motivo per non amarli appassionatamente Conrad ce l’avesse. Infanzia e adolescenza, per lui, erano state marchiate da avvenimenti le cui conseguenze sarebbero arrivate fino alla guerra europea di questi giorni. Suo padre, un gentiluomo di campagna polacco coinvolto in un tentativo rivoluzionario fallito, nel 1861 era stato confinato dalla polizia zarista in Siberia, dove lo avevano seguito la moglie e il piccolo Józef. Lì, dopo qualche anno, la madre di Conrad si ammalò di tisi e fu rimandata in patria, dove morì quasi subito. Nel 1869, dopo aver ottenuto la libertà condizionata, morì anche il padre e il ragazzo orfano venne allevato da uno zio. Infine, la scelta del diciassettenne Józef di andarsene dalla Polonia per diventare marinaio, lui che il mare non l’aveva mai visto. 

Il resto è noto. Uno dei più grandi scrittori di sempre in lingua inglese, l’autore di “Lord Jim” e di “Cuore di tenebra”, era un polacco che aveva deciso di lasciarsi per sempre alle spalle il mondo dell’autocrazia russa, ma che di quel mondo aveva fatto un’esperienza indelebile. Per questo poté scrivere in “Sotto gli occhi dell’Occidente”, parlando delle dinamiche nella comunità dei rivoluzionari rifugiati in Svizzera all’inizio del Novecento, che “dovunque due russi si trovano insieme, l’ombra del dispotismo è con loro, impregna i loro pensieri, le loro opinioni, i loro più intimi sentimenti, la loro vita privata, i loro discorsi in pubblico… assilla il segreto del loro silenzio”. Conrad, che presta i propri “occhi occidentali” al narratore – il personaggio di un professore che insegna l’inglese ai russi emigrati a Ginevra – ravvisa nel cinismo la caratteristica comune di dispotismo e rivoluzione: “Nel suo orgoglio del numero, nelle sue strane pretese di santità, nella segreta prontezza d’adattamento alla sofferenza, lo spirito della Russia si rivela cinico. Il cinismo informa le dichiarazioni dei suoi uomini politici, le teorie dei suoi rivoluzionari, le mistiche vaticinazioni dei suoi profeti, al punto di far apparire la libertà come una forma di dissolutezza e le stesse virtù cristiane come qualcosa di indecente”. 

Mescolata al cinismo c’è la rassegnazione. Ed è nel disvelamento di questa attitudine, assai più complessa di quel che il termine può suggerire, che Conrad chiama apertamente in causa l’anima russa. All’inizio del romanzo a parlare è Haldin, il giovane che ha appena ucciso in un attentato l’odioso e potentissimo funzionario zarista colpevole di indicibili persecuzioni ai danni del popolo. Haldin si rivolge allo studente Razumov, immaginandolo, a torto, solidale con la causa rivoluzionaria: “Non dimenticate ciò che vi è di divino nell’anima russa… cioè la rassegnazione. Rispettatela nella vostra irrequietezza intellettuale; e fate in modo che la vostra arrogante saggezza non guasti il suo messaggio nel mondo! (…) Che cosa pensate che io sia? Un essere in rivolta? No. Voi pensatori siete, invece, in perpetua rivolta! Io sono uno dei rassegnati”. Un dinamitardo dichiara di essere diventato tale per rassegnazione, per aver risposto a una chiamata quasi religiosa, e nega di essere un “pensatore” e un uomo in rivolta: può sembrare una costruzione cervellotica, quella di Conrad, ma sentiamo che conduce verso un nucleo di verità. Non tutta intera, non definitiva, ma degna di essere meditata.

Le cronache oggi ci parlano della disperazione delle famiglie divise, di una figlia che vive in Ucraina che non riesce a convincere la madre, rimasta in Russia, che sono proprio i russi che stanno bombardando la sua città e uccidendo i civili, e che non è vero che in Ucraina governano i nazisti. Quale forza è all’opera, quando non si presta fede alle parola di una figlia sotto le bombe? Cinismo? Rassegnazione? Paura? Risuonano le parole di Conrad, dedicate al giovane Razumov e, soprattutto, a Dostoevskij: “In Russia, nel paese delle idee chimeriche e delle aspirazioni incorporee, molti spiriti considerevoli si sono volti alfine, dal conflitto vano e interminabile, al vero fatto del paese: si sono volti al dispotismo, per ottenere pace per la loro coscienza patriottica”. Accadde a Dostoevskij, dopo l’esperienza dei lavori forzati. Accade nel romanzo di Conrad a Razumov, che pencola sull’abisso quando il rivoluzionario Haldin cerca il suo aiuto e preferisce denunciarlo alla polizia. Accade forse, ancora, migliaia o milioni di volte, a chi non accetta di mettere in discussione un potere che pensa a tutto. Pensa al patriottismo e alla nuova grandezza, alla rassicurazione e alla minaccia, alla missione salvifica della Russia e a esorcizzare la “disgregazione occidentale”. Il nuovo autocrate si può permettere qualsiasi cosa, come già vent’anni fa, dopo la guerra in Cecenia, spiegava Glucksmann: “Putin, attuale presidente della Federazione russa, può rendere omaggio alla madre che lo aveva educato segretamente al cristianesimo, deporre fiori sulla tomba del fondatore della Ceka e dei campi di concentramento, portare un toast a Josif Vissarionovic Stalin, onorare la memoria di Andropov, il boia, e di Sacharov, la sua vittima. Voi esitate. Tentate di distinguere i simulacri tattici e le convinzioni strategiche. Vi domandate che cosa si debba pensare… E lui ha già vinto a metà: non è lui che interrogate, ma voi stessi; non sapete più cosa pensare, siete in attesa. Cosa farà? Come girerà? E fin da ora avete dimenticato Grozny distrutta pietra per pietra, prima capitale scheletro dopo la Varsavia del 1944”. 

Forse la grande anima russa è davvero cinica e rassegnata, forse la maggioranza dei russi pensa oggi alla libertà come a un ingombro molesto o a un’illusione propagandistica, ma anche gli occhi dell’Occidente si sono molto distratti, negli ultimi vent’anni. La cosa, lo abbiamo visto, non è rimasta senza conseguenze. “Sotto gli occhi dell’Occidente”, sei anni prima dell’ottobre, raccontava che l’apparenza di grandi ideali poteva nascondere il solito, feroce nichilismo di chi non ammette limiti di sorta al proprio potere. Continuiamo però ad avere speranza. La grande anima russa è anche Cechov, scrittore immenso e medico pronto a partire per curare i malati di tifo durante la grande carestia russa del 1891, negli stessi giorni in cui Lenin – cinico ma non rassegnato – predicava il “tanto peggio tanto meglio” e criticava chi portava aiuto alla popolazione, perché una maggiore sofferenza si sarebbe trasformata in più gagliarda ribellione. Cechov invece partì con la sua valigetta da medico, nonostante i primi segni della tisi che l’avrebbe poi ucciso e in lui si erano manifestati al ritorno dal bagno penale dell’isola di Sachalin, dove era andato volontariamente per poter raccontare le disumane condizioni dei deportati. Benché coevi, Conrad e Cechov non poterono mai incontrarsi ma, siamo sicuri, avrebbero avuto molte cose da dirsi.

Guerra in Ucraina, scuola organizza flash mob a Roma contro l’invasione russa

Di redazione

Un flash mob è stato organizzato dalla scuola media Mazzini, dell’istituto di via delle Carine, per questa mattina in largo Agnesi. A prendere parte all’iniziativa anche l’associazione russa ‘Arcobaleno di Voci’ che fa i corsi nella scuola il sabato.
“Per noi è crollato il mondo – si legge in un messaggio che hanno inviato – Anche se parliamo russo e la scuola é di lingua russa, non diamo il sopporto alla politica di guerra. La nostra associazione é multinazionale. Il corpo di maestre è composto per metà da docenti ucraine, e poi ci sono kazake e moldave mentre i bambini che vengono nella nostra scuola sono italiani. Noi tutti siamo per la pace”.

Pubblicato in Politica scolastica

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