Francesca Sanna Sulis, una donna d'alta moda

Una prima (forse) inconsapevole scintilla della Rivoluzione industriale scoccò nel Regno di Sardegna, in una donna con una gran fiuto per gli affari: Francesca Sanna Sulis. Come racconta Ada Lai nella biografia La straordinaria storia di Francesca Sanna Sulis. Donna di Sardegna (Palabanda Edizioni), questa imprenditrice ante litteram trovò la sua emancipazione seguendo un filo di seta. A metà Settecento, infatti, Francesca Sulis (1716-1810), figlia di ricchi proprietari terrieri, riuscì a trasformare i suoi possedimenti nel Sarrabus (una zona agricola nella remota periferia del Regno di Sardegna) e nel Campidano di Cagliari in un impero della moda.

Grazie a una legge agraria che favoriva la coltivazione del gelso, Francesca Sanna Sulis distribuì la preziosa pianta su 450 ettari di terra per nutrire i suoi bachi da seta, ottenendo così un filato talmente pregiato che ne venne richiesta l’esportazione in esclusiva per Lombardia e Piemonte. Ma lei preferì usare il tessuto per le sue creazioni, che entusiasmarono l’alta società cagliaritana.

Nel giro di pochi anni riuscì a trasformare un’attività a conduzione familiare in una manifattura tessile che arrivò a contare 750 dipendenti. I suoi abiti non passavano inosservati e uscirono ben presto dagli atelier sartoriali di Cagliari per varcare i confini dell’isola. Approdarono prima alla corte sabauda e meneghina, per poi spingersi fino al Palazzo dell’Ermitage di San Pietroburgo, dove Donna Francesca conquistò persino la zarina Caterina di Russia. 

Arrivano i Savoia. Ma in che contesto si muoveva questa visionaria imprenditrice tessile? Nata ricca, ma pur sempre donna in una società rurale e patriarcale, Francesca Sulis venne al mondo appena prima che la Sardegna, dopo tre secoli di dominazione spagnola, passasse con il Trattato di Londra (1720) ai Savoia, sotto Vittorio Amedeo II.

L’isola, in quel periodo d’incertezza politica, era decisamente fuori controllo. Vessata da arretratezza e banditismo, la popolazione versava nella miseria più nera. Nei primi tempi, dunque, i Savoia faticarono a mantenere l’ordine pubblico, tanto che il governo sabaudo cominciò a sperare di potersi liberare di quell’isola, scambiata in corsa con la Sicilia nel contesto dei conflitti di successione tra le grandi casate europee. Se lo avessero fatto, i piemontesi se ne sarebbero pentiti. La Sardegna si rivelò infatti, per decenni, una fonte di ricchezza: dotata di materie prime agricole e minerarie di ottima qualità, fornì alla corte dei Savoia legname, carbone, argento, zinco, pietre dure e marmi pregiati per ridisegnare il volto di Torino (e non solo). Tutti materiali che tornarono utili in un periodo in cui in Piemonte sorgevano prestigiosi edifici per celebrare la dinastia in ascesa, come la Palazzina di caccia di Stupinigi e la Basilica di Superga (eretta proprio per volere di Vittorio Amedeo II).

Nel giro di qualche anno, quindi, la Sardegna si trasformò da “bomba a orologeria” a preziosa colonia oltremare, da cui attingere tasse, manodopera a bassissimo costo e anche derrate alimentari per le tavole dell’aristocrazia piemontese.

RIFORME SARDE. Fu anche per questi motivi economici, dunque, che, nella seconda metà del XVIII secolo, l’atteggiamento politico dei Savoia verso la Sardegna cambiò. Dopo la morte di Vittorio Amedeo, il nuovo re Carlo Emanuele III (1701-1773) affidò nel 1759 al conte Giovanni Battista Bogino, temutissimo ministro delle Finanze, la direzione politica di tutti gli affari riguardanti l’isola.

Bogino non fu un personaggio amato dalla popolazione, soprattutto per i crudeli metodi usati nella riscossione delle tasse. Ma il suo intervento contribuì a diffondere nei villaggi strumenti per contrastare il potere feudale e limitarne gli abusi. Nel 1760 sancì l’obbligo della lingua italiana (al posto dello spagnolo) nelle scuole e negli atti ufficiali. Nel 1764 riaprì l’Università di Cagliari e poi quella di Sassari, fondate nel Seicento da Filippo III di Spagna, ma che negli anni erano andate decadendo.

Queste riforme volte a modernizzare la vita economica e sociale non bastarono: il sistema feudale, la diffidenza verso innovazioni tecniche e agrarie, l’analfabetismo, la malaria e la povertà diffusa continuarono per decenni ad attanagliare la popolazione. E la svolta illuminata di Francesca Sulis s’inserisce proprio in questo difficile momento storico.

Talento isolano. Francesca Sulis, rimasta orfana della madre a un anno, dopo un’infanzia “selvatica” trascorsa tra le sue terre a Muravera, lasciò la campagna per trasferirsi nella residenza paterna di Cagliari, dove il suo talento creativo ebbe la fortuna di crescere in una famiglia colta e illuminata. Oltre al ricamo e al cucito, imparò a leggere, scrivere e far di conto, e grazie alle esigenze della vita di città, più formali e sociali di quelle di campagna, diede libero sfogo a una sua antica passione: disegnare e realizzare vestiti.

I suoi modelli erano molto diversi dai poco pratici abiti imposti dalla sfarzosa moda cagliaritana dell’epoca. La scelta di colori innovativi e i tagli insoliti diventeranno il suo “marchio di fabbrica”, ma sarà anche il matrimonio combinato nel 1735 con Pietro Sanna Lecca a spianare la strada alla sua visionaria scelta imprenditoriale.

Il marito, infatti – autore dei Pregoni, una raccolta di tutte le leggi e ordinanze promulgate in Sardegna dal 1720 al 1774, voluta dal re Carlo Emanuele III e completata sotto il regno di Amedeo III – conosceva bene la legge. E proprio Pietro Sanna, giureconsulto del re, con un atteggiamento inusuale per l’epoca non solo la incoraggiò a lavorare, ma le garantì un’adeguata consulenza legale per siglare importanti accordi commerciali con gli acquirenti provenienti sia dalla Francia sia dalle corti italiane, catapultandola nell’Olimpo della moda meneghina. 

la prima sfilata DEL MONDO. Nel 1748 il conte milanese Giorgio Giulini rimase folgorato dalle sue creazioni e decise di organizzare quella che probabilmente fu la prima sfilata di moda al mondo. Al Circolo dei nobili di Milano, a due passi dal Castello Sforzesco, andò in scena uno spettacolo mai visto: modelle in carne e ossa davano vita agli abiti che erano sempre stati solo sui manichini. «Donna Francesca insieme al Conte Giulini creò la prima boutique a Milano e dovette affittare sei navi per trasportare tutta la seta che le veniva ordinata», scrive Lucio Spiga nella monografia Francesca Sanna Sulis (Workesign edizioni).

Nel 1750, a 34 anni, la Francesca Sanna Sulis, rimasta ormai unica amministratrice dei suoi beni dopo la morte del padre e il trasferimento del marito a Torino presso la corte sabauda, ebbe quell’intuizione geniale che anticipò la rivoluzione industriale. Decise infatti, per creare i suoi abiti, d’impiantare nei terreni paterni l’intera filiera produttiva: dalla coltivazione dei gelsi per nutrire i bachi da seta, ai telai per la lavorazione dei filati, alle erbe per tingere le pezze di stoffa fino alle sarte che confezionavano i vestiti.

In poco tempo fondò un laboratorio di tessitura all’avanguardia nella casa ereditata dalla madre a Quartucciu (Cagliari), dove i lavoranti chiamati dal Sarrabus e dalla pianura del Campidano venivano formati. S’insegnava loro a leggere, scrivere e fare di conto, oltre che i rudimenti della botanica e le competenze tecniche per estrarre il filo dai bachi. Gli uomini e le donne, impiegati presso Donna Francesca, diventavano così operai specializzati, “merce” sconosciuta nell’Italia pre-industriale.

Oltre a essere ben formati, i suoi lavoranti erano numerosi perché la cura dei bachi richiedeva turni ininterrotti, un elemento dell’organizzazione del lavoro che anticipava il concetto di catena di montaggio.

Welfare rurale. In una Sardegna poverissima, basata su modi di produzione arcaici e su un’economia quasi esclusivamente agro-pastorale, in cui i bambini già a sette anni erano chini sulla terra più che sui libri di scuola, Donna Francesca fece un’altra scelta controcorrente. Decise che nella sua azienda non avrebbe promosso il lavoro minorile. Anzi, realizzò un proto nido aziendale, affidando i piccoli alle suore perché li curassero e proseguì nell’impresa educativa facendo in modo che ai più grandicelli venisse insegnato a leggere e scrivere. Tutto questo impegno nella formazione e nell’educazione le venne riconosciuto solo dopo la morte, con l’onorificenza di Benemerita della Pubblica Istruzione da parte del re Carlo Alberto di Savoia.

Ma la visionaria imprenditrice non si fermò qui, il passo successivo fu concedere alle sue lavoranti lo smart working: per permettere alle donne di conciliare lavoro e famiglia, senza allontanarsi da casa, le dotò (come all’epoca si faceva nell’avanzata Inghilterra) di un telaio domestico per tessere a domicilio.

«Quando le sue dipendenti si sposavano e si trovavano costrette a seguire il marito in paesi lontani dall’impresa tessile, lei trovò un modo geniale per non buttare via tutte le capacità acquisite e continuare a permettere loro di essere autonome economicamente», racconta Lucio Spiga. «Come regalo di matrimonio consegnava un telaio permettendo loro di continuare il lavoro e di insegnarlo ad altre donne».

Fu così che a partire dalla seconda metà del Settecento l’impresa di Donna Francesca cambiò il volto all’economia di un territorio secolarmente arretrato, permettendo a moltissime donne di guadagnarsi dignitosamente un reddito proprio.

Tumulti da salotto. Erano arrivati gli anni Novanta del Settecento e, anche in Sardegna, giunse l’eco della Rivoluzione francese (1789). L’illuminata borghesia cagliaritana si ritrovò così a discutere nei salotti di casa Sanna Sulis di emancipazione dalla monarchia piemontese e di un sistema di riforme contro lo sfruttamento della popolazione sarda. Nel 1793 i volontari cagliaritani s’improvvisarono militari, e con divise firmate Sanna Sulis, si opposero a un’armata francese che voleva occupare l’isola. Questo episodio di resistenza antifrancese illuse la classe dirigente sarda che Vittorio Amedeo III (1726-1796) avrebbe acconsentito a una gestione più autonoma dell’isola, ma non fu così. Anzi, il governo piemontese rispose con maggiori restrizioni e una tassazione ancora più dura.

Una rivolta urbana, che si intrecciò con i tumulti antifeudali delle campagne, scatenò un moto rivoluzionario antimonarchico, portando il 28 aprile del 1794 (ricordato e festeggiato ancora oggi come il “giorno della cattura”) all’assalto del palazzo del viceré a Cagliari e alla cacciata di 514 funzionari del regno.

I moti rivoluzionari si allargarono nel resto dell’isola, coinvolgendo anche l’entroterra: era la rivoluzione sarda che si spense (momentaneamente) dopo la rivolta algherese del 1821. La repressione piemontese, infatti, non si fece attendere, fu durissima e sanguinosa: molti i morti e moltissimi gli arresti. E fu così che si chiuse la parentesi rivoluzionaria sarda, partita e finanziata, ironia della sorte, dal salotto della vedova di un consigliere del re. Ma a Francesca Sanna Sulis, morta nel 1810, fu risparmiato di assistere a questo triste epilogo. 

Continua la lettura su: https://www.focus.it/cultura/storia/francesca-sanna-sulis-una-donna-d-alta-moda Autore del post: Focus Rivista Fonte: http://www.focus.it

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