Così le aree verdi abbandonate possono favorire la biodiversità nelle aziende agricole

A Hillesden, dove il metodo è stato testato, le popolazioni delle specie di uccelli sono aumentate di un terzo e la consistenza delle farfalle è aumentata del 40 per cento

Per molto tempo, si è cercato di dimostrare che riservare piccole aree di habitat seminaturale o completamente abbandonato all’interno di aziende agricole produttive potesse portare beneficio in termini di preservazione o aumento della biodiversità, senza comportare perdite significative dal punto di vista produttivo.

Tuttavia, gli studi sin qui pubblicati hanno mostrato scarsa consistenza e riproducibilità, impedendo una valutazione definitiva e chiara degli effetti concreti di questa misura postulata come benefica dalla cosiddetta agroecologia; il limite principale di tali studi è stata la loro breve durata, la scala relativamente ridotta di sperimentazione e la mancanza di controlli rigorosi, costituiti da terreni condotti in modo tradizionale che fossero pienamente comparabili alle fattorie in cui si introducevano isole di habitat selvatico.

Ora, gli scienziati del Centre for Ecology & Hydrology (UKCEH) del Regno Unito hanno pubblicato i risultati di un decennio di monitoraggio di un esperimento condotto su larga scala a Hillesden, un’azienda agricola in piena produzione di circa 1.000 ettari nel Buckinghamshire.  

A partire dal 2005, sono state create all’interno della fattoria aree idonee al popolamento da parte di fauna selvatica, comprendenti piante a semi gradite agli uccelli, fiori di campo per impollinatori, siepi selvatiche e margini erbosi per supportare una serie di uccelli, insetti e piccoli mammiferi. Le aree di terra sottratte alla produzione alimentare per l’esperimento a Hillesden erano state scelte perché non redditizie o difficili da coltivare.

L’esperimento ha valutato l’efficacia di queste misure agroambientali nel ridurre le perdite di biodiversità causate dall’intensificazione delle pratiche agricole, ma anche i possibili aumenti di produttività guidati dalla eventuale maggiore abbondanza e varietà di impollinatori e predatori di parassiti delle colture. Questo studio, che costituisce l’esperimento più lungo del suo genere, ha consentito innanzitutto di confermare definitivamente che la maggior parte delle popolazioni di specie selvatiche seguite ha mostrato un recupero significativo a Hillesden rispetto ad altri paesaggi coltivati ​​comparabili ma ove non si era intervenuto, nello stesso periodo di tempo. I ricercatori hanno monitorato le popolazioni di 12 specie di uccelli diffusi e 9 specie di farfalle. Ci sono stati aumenti di un terzo tra le popolazioni di tutte le specie di uccelli tra il 2006 e il 2016, rispetto a una media di poco meno del 13% in altri siti monitorati; la consistenza numerica delle specie di farfalle seguite è aumentata mediamente del 40% nel periodo dal 2009 al 2017, rispetto al 21% altrove.

Volendo citare alcune specie in particolare, l’abbondanza del fanello è più che raddoppiata a Hillesden, mentre altri uccelli mangiatori di semi che se la sono cavata meglio rispetto ad altri siti includevano lo zigolo giallo e il fringuello. Inoltre, fra gli uccelli prevalentemente insettivori hanno beneficiato del riparo fornito da siepi e margini erbosi specialmente la cinciallegra (+88%) e la cinciarella (+73%). Tra le farfalle, alcune satiridi ed alcune pieridi hanno mostrato un raddoppio della popolazione, in corrispondenza del fatto che le proprie larve si nutrono di erbe selvatiche e gli adulti del nettare di fiori spontanei. L’unica specie che ha fatto significativamente peggio a Hillesden rispetto ad altri siti è stata la cavolaia minore, una specie dannosa alle colture che si nutre principalmente di brassicacee coltivate come la colza. Gli autori dello studio affermano che il declino potrebbe essere dovuto alla predazione o alla competizione a seguito di un aumento delle specie benefiche; se questo dato sarà ulteriormente confermato, sull’esempio di Hillesden dovrebbe essere possibile diminuire l’utilizzo dei pesticidi.

Ora, la cosa più importante è che questi risultati sulla biodiversità si sono accompagnati al mantenimento o, per alcune colture, al miglioramento della resa complessiva dei raccolti, nonostante la perdita di terreno agricolo marginale da dedicare al ripristino degli habitat semiselvatici; ciò era stato già ampiamente documentato da uno studio dell’UKCEH durato sei anni pubblicato a Hillesden.  Si noti che, come riportato dai ricercatori, Hillesden è una tipica, grande azienda agricola con pratiche agricole convenzionali, in un paesaggio ordinario senza grandi appezzamenti di habitat naturale. 

Da questo punto di vista, i risultati dello studio appaiono particolarmente rilevanti, perché indicano una modalità di intervento che potrebbe interessare la tipologia di aziende maggiormente responsabili della perdita di habitat selvatici, senza tuttavia incidere sull’economia di tali aziende. Studi rigorosi come quello appena pubblicato sono quanto necessita per evitare di abbandonarsi a pratiche fantasiose e dannose per la produzione agricola, già minacciata da una molteplicità di fattori diversi, integrando i metodi convenzionali con pratiche mirate così da ridurne l’impatto ambientale.

Vedremo se e quanto i risultati di Hillesden siano trasferibili ad altre aziende, e di che tipo; per intanto, tuttavia, abbiamo la prima dimostrazione chiara del beneficio di ripristino della biodiversità che non mortifichi la produzione aziendale, contrariamente agli esoterismi della biodinamica o di altri metodi che di scientifico hanno ben poco.

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