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Cent’anni fa, la scoperta del secolo: la tomba di Tutankhamon – l’unica ritrovata intatta nella Valle dei Re – svelò i suoi tesori riempendo di meraviglia gli occhi di Howard Carter prima, del mondo intero poi. Alle sepolture più spettacolari di ogni epoca è dedicato il primo piano di Focus Storia. E ancora: la guerra di Rachel Carson, la scienziata-scrittrice pioniera dell’ambientalismo; i ragazzi italiani assoldati nella Legione Straniera e mandati a morire in Indocina; Luigi Ferri, uno dei pochi bambini sopravvissuti ad Auschwitz, dopo lunghi anni di silenzio, si racconta.

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4 novembre 1922: scoperta la tomba di Tutankhamon

Cent’anni fa l’archeologo britannico Howard Carter trovò l’ingresso della tomba di Tutankhamon, nella Valle dei Re. Le spese per gli scavi, iniziati nell’autunno del 1917, continuavano a lievitare e le scoperte non le giustificavano, tanto che nell’estate del 1922 Lord Carnavon, finanziatore dell’impresa, era determinato a chiudere ricerca e cantieri. Ma Carter non si arrese: esplorando l’ultimo settore trovò il gradino di una lunga scala che conduceva alla tomba del faraone bambino. Il corredo funerario era intatto, come la mummia, adagiata in un sarcofago d’oro massiccio. Vediamo, quindi, come il tenace Carter entrò nella Storia attraverso l’articolo “Un tesoro faraonico” di Maria Leonarda Leone, tratto dagli archivi Focus Storia.

Ultima chance. La verità è che era sul punto di gettare la spugna. Doveva prenderne atto: si era sbagliato. Dopo sette anni di sforzi e migliaia di sterline spese nell’esplorazione palmo a palmo della Valle dei Re (presso l’odierna Luxor), aveva strappato a Lord Carnarvon, il suo finanziatore, il sesto e ultimo “sì”, assicurandogli una scoperta sensazionale.
Ma a poche settimane dalla scadenza della concessione di scavo, nulla era emerso da quell’area dell’antica Tebe dove per quasi cinque secoli gli antichi Egizi avevano sepolto i loro sovrani. Doveva dar ragione a chi diceva che ormai tutto era stato scoperto, persino nel triangolo di terra dove, anni prima, un collega aveva riportato alla luce dei reperti con il nome di Tutankhamon (1341-1323 a.C.), dodicesimo faraone della XVIII dinastia.

Una scoperta strepitosa. Erano le dieci di mattina del 4 novembre 1922 e, con la mente ingombra di questi cupi pensieri, l’archeologo Howard Carter ci mise un po’ ad accorgersi dell’insolito silenzio. Gli operai che scavavano nell’area di fronte all’ingresso della tomba di Ramses VI erano fermi. “Che sta succedendo?”, chiese. “Abbiamo trovato un gradino!” fu la risposta. In capo a un giorno, quello scalino intagliato nella roccia, nascosto sotto agli alloggi delle maestranze che avevano lavorato all’ultima dimora di Ramses, si rivelò una rampa di scale che scendeva verso un’apertura rettangolare, chiusa con massi intonacati e sigilli della necropoli.
Solo allora Carter si concesse un filo di speranza: “Ci volle tutto il mio autocontrollo per non abbattere subito la porta ed esplorare tutto”, annotò nel diario. E, da buon inglese, invece di lasciarsi sopraffare dalle emozioni, inviò un telegramma a Lord Carnarvon: “Finalmente abbiamo fatto meravigliosa scoperta nella valle -stop- Magnifica tomba con sigilli intatti -stop- Coperta di nuovo in attesa vostro arrivo -stopCongratulazioni”.

Avrebbero appurato insieme, venti giorni dopo, che la 62a tomba rinvenuta nella Valle dei Re apparteneva davvero a Tutankhamon.

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È nata una stella. Quel che non potevano ancora sapere, invece, era che, proprio grazie a quel ritrovamento, il semisconosciuto sovrano sarebbe presto diventato la star del parterre regale egizio. «Prima del 1922, di Tutankhamon si conosceva veramente poco», spiega Mattia Mancini, egittologo e ricercatore dell’Università di Pisa, fondatore del blog di storia egizia “Djed Medu”, «Tuttavia, il suo nome era già attestato su oggetti noti e la scoperta della tomba ha quindi gettato luce sul periodo in cui visse, sul suo regno e sulla sua durata, sulla genealogia della sua famiglia».
Ma in che modo fu possibile? E perché questa scoperta, più di altre, infiammò la fantasia del grande pubblico, accendendo i riflettori sull’egittologia? Per capirlo, dobbiamo tornare da Carter e seguirlo nella sua avventurosa esplorazione.

EGITTO POP. Una volta buttata giù la prima porta, gli operai impiegarono due giorni per sgomberare dai detriti il ripido corridoio che si apriva alle sue spalle: finalmente, il 25 novembre, l’archeologo inglese, seguito da Carnarvon, si addentrò nell’ipogeo e giunse di fronte a una seconda porta. Come la precedente, era stata aperta, poi nuovamente sigillata. “Ancora una volta i ladri sono arrivati prima di noi”, si disse Carter, pessimista. Non era la prima volta che sperimentava quel genere di delusione
Ma il giorno dopo, quando, attraverso un foro scavato “con mani tremanti”, riuscì a infilare una candela al di là della porta e a scrutare nel buio, rimase senza parole. “Riesci a vedere qualcosa?”, gli chiese Carnarvon impaziente. “Sì, cose meravigliose”, rispose l’archeologo. “Non ci eravamo mai sognati nulla del genere, una stanza piena di oggetti: alcuni familiari, ma altri del tutto sconosciuti, ammucchiati l’uno sull’altro in una profusione apparentemente senza fine”, scrisse nel suo diario, senza sapere che si trattava solo di un piccolo anticipo.

Il tesoro ammassato e in disordine ritrovato nella tomba di Tutankhamon.
© Jaroslav Moravcik / Shutterstock

Una tomba INTATTA. «Quello di Carter è stato l’ultimo grande ritrovamento nella Valle dei Re, seguito solo dalla scoperta di altre tre sepolture e di un impianto artigianale. Ma la fama di questa tomba si deve senza dubbio alle “cose meravigliose” scoperte al suo interno», continua Mancini. «Seppur visitata almeno due volte dai ladri nell’antichità, infatti, la tomba KV62 mantenne il suo corredo funerario pressoché intatto, con più di 5mila oggetti rimasti “sigillati” per oltre tremila anni».

E anche se alcuni studiosi moderni ritengono che la tomba fosse troppo piccola per un faraone e che venne riciclata in fretta e furia per la morte inaspettata del giovane sovrano, per Carter quelle quattro stanze stipate di tesori rappresentarono la scoperta di una vita. «Oltre a oro e altri materiali preziosi, il corredo comprendeva anche moltissimi abiti, mobili, armi, arnesi, giochi e prodotti alimentari perfettamente conservati che hanno fornito informazioni fondamentali su diversi aspetti della vita quotidiana degli antichi Egizi», nota l’egittologo. «Dallo studio della mummia di Tutankhamon, inoltre, sono emerse moltissime informazioni sulle malattie che affliggevano il faraone e sulle possibili cause della sua morte».

Una notizia DA PRIMA PAGINA. Il loro scopritore impiegò anni a completare il suo viaggio verso il cuore della tomba: attraverso un crescendo di ricchezze, preservate dai danni del tempo e dai furti con cura certosina e catalogate con snervante lentezza, entrò nella camera funeraria il 16 febbraio 1923, a ottobre del 1925 riesumò la mummia del sovrano, nel 1926 si dedicò alla camera del tesoro, infine, l’anno successivo, esplorò l’annesso, una specie di ripostiglio nascosto dietro una porta murata nell’anticamera.
Quando le ultime casse di reperti furono spedite al Museo del Cairo, nel 1930, il corpo del faraone venne lasciato nel luogo che gli antichi avevano scelto per il suo eterno riposo: al posto del corredo, ormai, lo circondava la fama.

Un tesoro conteso. «Tutankhamon divenne un’icona, simbolo di una civiltà del passato, ma anche dell’Egitto moderno e del suo spirito nazionalista, che contrastava l’ingerenza britannica sul Paese: non è un caso che proprio allora le autorità locali decisero di accantonare definitivamente il sistema del partage, la spartizione dei reperti tra Egitto e missioni archeologiche straniere», spiega l’esperto.
Parallelamente, il faraone entrò nella cultura di massa attraverso la moda, il cinema, l’architettura, i documentari, le mostre, i libri e, non ultima, la storia leggendaria della sua maledizione. «Quando le fotografie della scoperta, scattate da Harry Burton, furono pubblicate in esclusiva sul Times, si diffuse una vera e propria “Tutmania”», conclude Mancini. «I quotidiani di tutto il mondo cercarono a ogni costo di accaparrarsi notizie, a volte inventandosele di sana pianta: ne è una prova la bufala della vendetta del faraone».

MALEDETTE BUFALE. Tutto iniziò con la morte di Carnarvon, nel 1923, due mesi dopo l’apertura della camera funeraria del faraone.

Il nobile inglese era stato ucciso da una puntura di insetto degenerata in setticemia e polmonite: troppo banale per uno che aveva finanziato la scoperta della tomba di Tutankhamon. Così i giornali aggiunsero un tocco di soprannaturale: nell’istante esatto in cui il conte era morto, riferivano, la sua cagnetta, in Inghilterra, ne aveva seguito la sorte, stramazzando a terra con un agghiacciante guaito, mentre la città del Cairo era piombata nel buio.

La leggenda della maledizione. Poco importava che la scritta non comparisse nelle foto scattate dagli archeologi, perché il caso volle che, non troppo tempo dopo Carnarvon, morisse d’infarto il direttore del dipartimento di antichità egizie del Louvre. Anche lui aveva visitato la famosa tomba: certo, insieme a migliaia di altre persone ancora vive e vegete, ma perché stare a sottilizzare?
Bastava quella come prova dell’esistenza della maledizione, una magia così potente da spedire tra le braccia di Osiride, negli anni successivi, almeno altre 20 vittime scelte dagli appassionati del genere fra coloro che più o meno direttamente avevano avuto a che fare con il faraone: dall’archeologo Arthur Mace (1874- 1928), all’egittologo James Breasted (1865-1935). E Carter allora? La morte, come accade persino a chi non ha mai visitato la Valle dei Re, scese anche su di lui: planò a Londra e lo prese nel 1939. Senza dargli il tempo di completare lo studio dettagliato della tomba a cui aveva dedicato la vita.

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10 cose che (forse) non sapevi su Tutankhamon

Rachel Carson: la “prima Greta Thunberg”

Il 23 settembre Fridays for Future ha indetto uno sciopero globale per il clima, la storia dell’attivismo ambientalista, però, non è nato con Greta Thunberg, ha radici molto più lontane di quello che crediamo. Ecco la storia della biologa americana Rachel Carson, una Greta prima di Greta, che nel 1962 pubblicò Primavera silenziosa, un saggio, ormai divenuto un classico, che lanciò il movimento ambientalista negli Usa. Ripercorriamo le vicende della Carson attraverso l’articolo “Prima di Greta” di Magda Gattone, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Prima di Greta. “Ero una bambina piuttosto solitaria e trascorrevo gran parte del tempo nei boschi, osservavo gli uccelli, gli insetti, i fiori e imparavo”. Così diceva di sé Rachel Carson (1907-1964), ricordandosi ragazzina nelle quotidiane perlustrazioni nella grande fattoria dei genitori a Springdale (Pennsylvania, Stati Uniti), nei primi anni del Novecento. Quella bambina dalle gambe agili e gli occhi curiosi non poteva immaginare il ruolo che avrebbe avuto per la quasi inesistente cultura ambientalista dell’America negli anni Sessanta, né il peso delle sue denunce contro l’uso e l’abuso della chimica nell’agricoltura estensiva degli Stati Uniti (e non solo). Tutto questo arriverà molto tempo dopo, riassunto splendidamente nel libro Silent Spring (Primavera silenziosa) che Carson diede alle stampe nel settembre 1962, e che oggi è considerato una pietra miliare dell’ambientalismo. Ma questa storia va raccontata dall’inizio.

La casa di Springdale (Pennsylvania), dove Rachel Carson trascorse la sua infanzia nella natura.
© Ccbarr / Wikimedia commons

IDEALISTA coi piedi per terra. I segnali del futuro da ambientalista e divulgatrice scientifica erano chiari fin dagli anni di scuola, quando Rachel affidò alle pagine del giornalino scolastico le sue novelle giovanili intrise di amore per la natura. Nel 1929, ventiduenne, si laureò in biologia, tre anni dopo conseguì un master in zoologia. Con gli occhi di oggi non sembra niente di speciale, ma negli anni Trenta del secolo scorso questi erano traguardi di tutto rispetto per una giovane donna, che la società dell’epoca relegava a ben altri ruoli. E le difficoltà culturali non furono gli unici ostacoli che la biologa, oggi considerata a pieno titolo madre del movimento ambientalista, si trovò ad affrontare.
Tutta la sua vita fu in salita, lastricata di lutti, ricorrenti difficoltà finanziare e problemi causati da una sensibilità fuori dal comune e da una salute cagionevole. Ciononostante inanellò successi letterari e scientifici uno dopo l’altro, scardinando tra l’altro il pregiudizio che gli scienziati siano più avvezzi ai numeri che alle parole.

Subito in laboratorio. Dopo gli studi iniziò a destreggiarsi tra i microscopi dei laboratori e i volumi polverosi delle biblioteche, sempre focalizzata sui segreti della natura, protagonista indiscussa di molte ricerche sul campo, attiva nelle battaglie in cui credeva e prolifica di pubblicazioni che le fruttarono premi e riconoscimenti. Lavorò come biologa marina presso il Fish and Wildlife Service (il servizio ittico e faunistico degli Stati Uniti) dove ebbe l’incarico di redigere pubblicazioni naturalistiche.
Più di una generazione di lettori scoprì, tramite i suoi libri, la bellezza della natura e l’importanza di salvaguardarne l’equilibrio. «Col tempo divenne sempre più preoccupata dal fatto che la politica non facesse abbastanza per la tutela delle aree dedicate alla conservazione delle specie (floreali e non) nonché turbata dalla pressione economica e tecnologica esercitata dall’industria per trasformare il mondo naturale», spiega Linda Lear, storica dell’ambientalismo e biografa americana, autrice del libro Rachel Carson. Witness for Nature (Mariner Books). La sua produzione editoriale cresceva di pari passo con l’urgenza di denunciare e porre fine al maltrattamento del Pianeta.

Una denuncia per “curare il Pianeta”. Tra tutte le sue battaglie editoriali, quella che destò maggior scalpore fu il saggio Silent Spring, una feroce accusa nei confronti dell’utilizzo di metodi chimici dannosi per l’ambiente e per l’uomo. “Sembra che siamo stati travolti da una follia monomaniaca di distruggere, di uccidere, di sradicare dal nostro ambiente qualsiasi cosa che non ci piace”, affermava Carson. Dalla consapevolezza dello stravolgimento dei cicli naturali causati dall’utilizzo indiscriminato dei “biocidi”, nel 1962 nacquero le appassionate pagine del suo libro, frutto anche della proficua collaborazione con gli scienziati più autorevoli dell’epoca, accomunati non solo dalla ricerca scientifica ma anche dalla voglia di “curare” il mondo.
Il saggio raccolse numerosi consensi da parte dell’opinione pubblica, ma ebbe soprattutto il merito di attirare l’attenzione della classe politica sul valore della natura. Ovviamente l’industria chimica, finita sul banco degli imputati, reagì scagliandosi contro la scrittrice-scienziata, imbastendo contro di lei una campagna mediatica denigratoria che ci dà la misura del timore che questa “zitella senza figli” (con queste parole si espresse la lobby chimica) suscitava in coloro che erano chiamati in causa.

Presa di mira, ma ascoltata. «Molti critici furono sorpresi dalla grande campagna montata contro di lei: l’industria dei pesticidi spese ben oltre i 250mila dollari nello sforzo di persuadere il pubblico degli errori della Carson e proteggere i propri interessi ormai minacciati», afferma Lear. Nonostante le infinite discussioni, l’eco di Silent Spring fu talmente estesa da raggiungere un pubblico vastissimo; lei stessa parlò delle migliaia di lettere che le venivano recapitate da tutto il Paese. «Rispondendo a una domanda che un lettore le aveva posto (“Che cosa possiamo fare?”) Carson spiegò che era necessario fare ricerca per sviluppare metodi alternativi e stabilire delle priorità a livello nazionale», prosegue la biografa.
A causa del trambusto che il volume scatenò, nelle settimane successive alla sua pubblicazione il presidente degli Stati Uniti J.F. Kennedy nominò una commissione ad hoc per verificare la veridicità di quanto scritto da Carson. Il rapporto finale apparve il 15 maggio del 1963: era un atto d’accusa contro l’indifferenza burocratica e corporativa, nonché una conferma dell’allarme lanciato della scienziata sui rischi dei pesticidi. La relazione stabilì inoltre, in maniera inequivocabile, che era necessario iniziare a usare metodi biologici alternativi. Fu un vero successo. «La scienza, il governo e l’industria riconobbero Silent Spring per quello che di fatto era: una fondamentale critica sociale dell’intero progresso tecnico», spiega Lear. «Carson ebbe l’ardire di attaccare l’integrità di tutto l’establishment scientifico, la sua leadership morale e l’influenza che esercitava sull’intera società».

LA LOTTA CONTINUA. La battaglia di Rachel Carson non si fermò qui. Grazie all’attenzione che riuscì a conquistare, divenne portavoce della proposta di istituire un’agenzia super partes volta alla tutela dell’ambiente e libera da ogni controllo politico. Fu l’ennesima vittoria, ma anche l’ultima: non riuscì infatti a vedere il suo progetto realizzato perché, nel 1964, morì per un cancro al seno. Tre anni dopo venne creato l’Environment Defence Fund, con lo scopo di emanare un corpus di norme volte alla difesa del diritto dei cittadini di vivere in un ambiente incontaminato. Per molti Rachel Carson fu la fiamma che fece divampare il fuoco dell’ambientalismo.

Una “Greta” ante litteram. Tutto ciò che venne dopo nacque dalle sue idee: dal nuovo attivismo dei movimenti, cresciuto sino a divenire una delle più grandi forze popolari di tutti i tempi, alla consapevolezza dell’importanza dell’impegno dei governi nel contrastare l’inquinamento. La conseguenza più diretta delle sue denunce fu però la messa al bando, negli Usa nel 1972 (in Italia nel 1978) dell’insetticida Ddt (dicloro difeniltricloroetano). Al Gore, quando era vicepresidente degli Stati Uniti durante la presidenza Clinton, di lei disse: «Carson divenne la prova innegabile di quanto il potere di un’idea potesse essere di gran lunga più forte del potere dei politici».

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