Che cosa è stata la Primavera di Praga?

Per “Primavera di Praga” si intende la stagione riformista cecoslovacca durata dal 5 gennaio 1968, il giorno dell’elezione di Alexander Dubček alla guida del Partito comunista cecoslovacco, fino al 20 agosto dello stesso anno, quando l’esercito dell’Urss e degli alleati del Patto di Varsavia occupò il Paese.

Un fatto che rientrava nella politica estera dell’Urss di allora, guidata dalla “dottrina Breznev”: negli Stati del Patto di Varsavia dovevano andare al potere governi allineati.

Brusca frenata. Le riforme di Alexander Dubček (il “Socialismo dal volto umano”) erano considerate una minaccia. Il suo programma, pur mantenendo il sistema economico collettivista, aveva permesso la nascita di altri partiti politici oltre a quello comunista, la libertà di stampa (abolì la censura) e di espressione. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, l’Armata Rossa entrò a Praga e nel resto della Cecoslovacchia.

La gente scese in strada e iniziò la protesta disarmata, cercando di parlare con i soldati. Dubček, il Primo ministro Oldrich Cernik e il Presidente Ludvik Svoboda furono trasferiti a Mosca.

Status quo. Al ritorno, Dubček rese noti gli Accordi di Mosca, che in sostanza riportavano alla situazione precedente la Primavera e che prevedevano il mantenimento di divisioni sovietiche in Cecoslovacchia. Nell’aprile del 1969 Dubček fu sostituito da Gustav Husák. Tre mesi prima Jan Palach, uno studente di filosofia, si era dato fuoco in piazza San Venceslao a Praga per protestare contro l’occupazione sovietica.

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16/1/1969: Jan Palach si dà fuoco a Praga

Il 16 gennaio 1969, in Piazza San Venceslao, nel centro di Praga, Jan Palach si diede fuoco come gesto di protesta contro i carri armati sovietici che soffocavano la “Primavera di Praga”, la rivoluzione democratica reclamata dal popolo cecoslovacco. Palach, vent’anni, morì due giorni dopo per le ustioni. L’estremo gesto scosse l’opinione pubblica, mentre il governo tentò con una campagna diffamatoria verso lo studente di sminuire il suicidio. Dopo di lui altri sette studenti si uccideranno nello stesso modo. Ripercorriamo il dramma di Jan Palach attraverso l’articolo “Il fuoco della rivolta” di Pino Casamassima, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Morire per la libertà. Un gesto potente, eroico, degno di un film ma tristemente vero. Il 16 gennaio 1969 Jan Palach decise di darsi fuoco, “come i monaci buddhisti in Vietnam per protestare contro quel che succede qui”. Così disse ai medici che l’accolsero in condizioni disperate all’ospedale di Praga. Ma che cos’era successo? La sua città era stata invasa dai carri armati del Patto di Varsavia, che avevano messo fine alla stagione di libertà sbocciata con le riforme del governo di Alexander Dubcek (1921-1992).

Primavera di Praga. Riforme che andavano dall’economia alla libertà di stampa, all’assetto politico del Paese che avrebbe visto nascere due repubbliche: la Ceca e la Slovacca. Sarebbe stata questa l’unica riforma sopravvissuta a quella stagione, anche se per trasformarla in realtà si dovette aspettare il crollo del comunismo nel 1993. Iniziata il 5 gennaio 1968, la “Primavera di Praga” durò fino al 20 agosto, giorno in cui i soldati del blocco sovietico entrarono nella capitale. Qualche anno prima era toccato all’Ungheria: nel 1956 la rivoluzione antisovietica fu soffocata dai carri armati dell’Armata Rossa.

L’invasione sovietica. Jan Palach, iscritto a Filosofia e studioso di Storia, come tanti aveva seguito con partecipazione il riformismo del presidente Dubcek. E visse con uno sconforto inconsolabile la fine di quel sogno. In particolare rimase scioccato quando un soldato russo rispose alle sue invettive dicendo che gliela avevano portata loro la libertà, con quei carri armati, come avevano fatto 12 anni prima a Budapest. Da quel momento il suo desiderio di fare qualcosa di concreto per svegliare le coscienze del suo Paese, che pareva rassegnato a subire, divenne un’ossessione. Che lo condusse a quel drammatico gesto finale.

Sacrificio umano. Il pomeriggio del suicidio, dopo essere arrivato in piazza San Venceslao, Jan depose il suo zaino lontano da sé, si cosparse il corpo di benzina versandola da una tanica, e si diede fuoco con un accendino.

Nello zaino furono trovati tutti i suoi appunti, gli articoli, le lettere, fra cui quella resa pubblica come atto di denuncia. Palach resistette per tre giorni, poi quel che restava del suo corpo quasi totalmente divorato dalle fiamme cedette. Prima di chiudere gli occhi volle sapere se il governo avesse accettato qualcuna delle sue richieste. Nessuna venne accolta.

Atto di denuncia. Le istanze erano in una lettera che non solo rivendicava il suo suicidio, ma ne annunciava altri. “Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per questa causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la messa al bando della diffusione di Zpravy (il Notiziario delle forze di occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno accolte entro 5 giorni e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà”. E così fu: poco dopo un altro giovane, Jan Zajíc, si diede fuoco, fedele all’impegno di morte deciso dal gruppo cui appartenevano i due studenti.

Torce umane. Imitando i monaci buddhisti vietnamiti, il gruppo studentesco aveva infatti deciso di darsi fuoco pubblicamente, stabilendo per estrazione i nomi di chi si doveva sacrificare. Palach fu il primo, e il suo gesto fece il giro del mondo. Poi fu la volta di Jan Zajíc: si diede fuoco il 25 febbraio. Anche lui lasciò un appello “Ai cittadini della Repubblica cecoslovacca”: “Nonostante la protesta di Palach, la nostra vita sta tornando sui suoi vecchi binari”, scrisse, “e per questo ho deciso, come torcia umana n° 2, di risvegliare la vostra coscienza. Non lo faccio per essere compianto o per diventare famoso, né perché sono impazzito. Ho deciso di compiere questo gesto perché vi facciate coraggio e non permettiate a quattro dittatori di calpestarvi! Ricordate: quando il livello dell’acqua arriva sopra la testa, non conta quanto in alto arriva… Che la mia torcia illumini il cammino verso la libertà e la felicità della Cecoslovacchia. […] Solo così continuerò a vivere”.

La censura. Dopo il secondo suicidio ne seguirono altri sei.

Ma in questi casi scattò la censura, che tenne nascosti a lungo i sacrifici di questi ragazzi. Ancora oggi non si sa con certezza se queste morti facessero parte del “piano” o se furono solo frutto di emulazione. Resta il fatto che la Cecoslovacchia, nonostante la forza di queste proteste, subì una dura “normalizzazione” che proseguì fino al crollo dell’Urss.

I gesti drammatici dei giovani cechi non furono gli ultimi ma neppure i primi: l’8 settembre 1968 il polacco Ryszard Siwiec, 59 anni, si era dato fuoco nello stadio di Varsavia, per protestare contro il suo Paese che aveva partecipato all’invasione di Praga. Nonostante la folla presente il suo gesto restò sconosciuto al resto del mondo: ancora una volta “merito” della formidabile censura del governo filosovietico.

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Le proteste che hanno cambiato la storia

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