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Le aziende cercano disperatamente professionalità nell’automazione industriale e nella robotica. La formazione con FANUC e la certificazione della competenza

Di Patrizia Montesanti

Una eccellenza nel mercato della robotica, leader mondiale, FANUC è scesa in campo per formare e trasmettere ai ragazzi le competenze essenziali per la loro formazione nel settore della robotica.
Un progetto che comprende anche la certificazione delle competenze grazie al partner SANOMA.

Tutti i dettagli nel video
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Pubblicato in Cronaca

Le conseguenze dell'automazione: come sarà il lavoro nel 2030

AGI – Sì, le imprese hanno capito che la tecnologia conta e che “si avvicina la piena automazione” nel settore manifatturiero. Sembra però che “né i decisori né gli addetti alla produzione abbiano compreso appieno le sue conseguenze”.

Lo afferma il report “The Rise of the Smarter, Swifter, Safer Production Employee”,  realizzato dall’Ericsson IndustryLab. L’analisi sul futuro della produzione pare sia sempre più consapevole dal punto di vista tecnologico ma sia ancora poco lucida su lavoro e occupazione.

Automazione e occupazione

Il 48% delle imprese italiane intervistate utilizza almeno tre tecnologie avanzate (tra intelligenza artificiale, software video per il riconoscimento e l’analisi, controllo da remoto di macchine, veicoli e robot, realtà virtuale e aumentata, guida autonoma, digital twins, robot collaborativi ed esoscheletri). Il 67% ritiene che nel giro di pochi anni ne verranno adottati almeno sette.

A livello globale, solo il 3% degli intervistati prevede che la propria azienda raggiungerà la piena automazione. Ma un’accelerazione è data ormai per certa: il livello di automazione era del 57% dieci anni fa, è del 69% oggi e si prevede raggiunga il 79% entro dieci anni.

Eppure, oltre la metà degli addetti alla produzione resta convinta che saranno necessari più dipendenti da qui al 2030 e solo uno su cinque stima una riduzione del personale. Tra i ruoli di vertice, l’87% si aspetta che l’intelligenza artificiale venga utilizzata nei processi di produzione entro i prossimi dieci anni, ma il 76% pensa che oltre la metà delle decisioni verrà presa ancora dagli esseri umani.

L’Ericsson IndustryLab parla apertamente di “incongruenza” tra “la consapevolezza della transizione in corso” e “la convinzione che nulla cambierà”. Secondo il rapporto è una visione “umana”, ma allo stesso tempo “ingenua”, come conferma la citazione di uno dei manager intervistati: “Prima avevamo quasi 450 operatori, in tre anni sono stati ridotti quasi del 40% grazie a robot e cobot”.

In altre parole: una prospettiva che guarda all’automazione senza badare all’impatto sull’occupazione è quantomeno monca. E ha quindi bisogno di maggiore profondità, senza toni apocalittici, ma anche – per usare le parole del rapporto – senza ingenuità.

Da tute blu a colletti bianchi

I vantaggi dell’automazione sono chiari: il 77% dei decisori italiani intervistati (il 75% a livello globale) ritiene che abbia portato o porterà un incremento della velocità produttiva. Per il 70% ha portato a una riduzione delle mansioni più rischiose e per il 68% ha permesso o permetterà di comprimere i costi.

Macchine e robot possono eseguire attività con grande accuratezza, 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana. L’argomentazione che tende a limitare il loro impatto sull’occupazione è, in sostanza, quella delle “tre D”: l’automazione tenderà a sostituire i compiti “dull, dirty and dangerous” (cioè noiosi, sporchi e pericolosi). Sono quindi più esposti gli addetti a bassa specializzazione che svolgono mansioni ripetitive. Che per evitare di perdere il posto, devono acquisire nuove competenze.

Difficile affermare che questa visione sia sbagliata. Ma il report non esclude che possa essere parziale, almeno nel manifatturiero: “Finora, le tute blu si sono trasformate in colletti bianchi, rallentando la riduzione della forza lavoro all’interno del settore manifatturiero. La digitalizzazione e l’automazione hanno consentito lo spostamento di lavori manuali poco qualificati verso mansioni più orientate alla gestione dei processi e alla supervisione. La domanda è se questo scambio di posti di lavoro abbia fatto il suo corso e se si stia avvicinando un calo del numero totale del personale”.

E se: gli effetti imprevedibili

Le “tre D” implicano che i lavori non ripetitivi siano più al sicuro. Ma, anche in questo caso, l’Ericsson IndustryLab invita a non avere troppe certezze. Da una parte, “molte aziende stanno iniziando a notare una crescente necessità di costose manutenzioni e riparazioni”, dovute alla complessità dei macchinari. Potrebbe quindi “essere stata sottovalutata” la necessità di personale nelle mansioni “sporche e noiose” (anche se richiederanno una maggiore specializzazione).

Dall’altra parte, “attività che richiedono un impegno cognitivo e intellettuale complesso sono state semplificate”, grazie all’intelligenza artificiale, all’apprendimento automatico e a interfacce che rendono il dialogo tra uomo e macchina sempre più intuitivo. Questo potrebbe permettere “ai dipendenti con un livello di istruzione inferiore di eseguire attività che in precedenza richiedevano un ingegnere o un operaio specializzato”.

Il fatto che oggi si fatichi a trovare alte competenze digitali non smentisce ma rafforza questo scenario. La carenza, ipotizza l’Ericsson IndustryLab, “potrebbe alimentare ulteriormente l’automazione di lavori più qualificati”. Tradotto: è vero che le imprese cercano (spesso invano) addetti con competenze tecnico-scientifiche evolute. Ma se l’attesa dovesse essere troppo lunga, tenderanno a investire sempre di più nelle tecnologie in grado di sostituirli.

2030: lavoro e reddito di base

Nel manifatturiero del futuro, gli operai avranno a loro disposizione “strumenti cognitivi, sensoriali e motori”, che consentiranno loro di interagire in modo più rapido e sicuro. Quasi la metà degli intervistati prevede che, entro il 2030, una quota significativa dei dipendenti avrà “protesi” tecnologiche.

La grande disponibilità di dati cambierà la produzione, dando vita a “fabbriche pop-up”, aperte e chiuse in tempi brevi per rispondere alle esigenze di uno specifico mercato. Sarà consuetudine il “manufacturing-as-a-service”, ossia una “produzione come servizio”: le fabbriche non produrranno prodotti propri ma risponderanno alle esigenze altrui.

Quanto all’occupazione, quasi la metà degli addetti ipotizza di passare in fabbrica meno ore e solo il 16% si aspetta di lavorare di più. Secondo il 54% dei manager non ci sarà posto per tutti, rendendo necessaria l’introduzione di un reddito minimo universale. 

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