Che fine farà la Stazione spaziale?

Negli ultimi mesi la Stazione Spaziale Internazionale (Iss) ha fatto parlare di sé soprattutto per via delle comunicazioni dell’agenzia spaziale russa Roscosmos, che in più occasioni ha annunciato di voler uscire in anticipo dalla collaborazione. In realtà, nonostante tutto, al momento i russi sono parte integrante del programma, mentre gli Stati Uniti hanno annunciato di voler proseguire le operazioni fino almeno al 2030. Nel frattempo, l’obiettivo della Nasa è quello di agevolare l’accesso allo spazio da parte dei privati per focalizzare le proprie risorse su traguardi più ambiziosi, a partire dalla conquista della Luna e di Marte, come raccontato nell’infografica qui sotto e, in modo più approfondito, nel numero 360 di Focus attualmente in edicola.

Nell’oceano. Riguardo al destino della stazione spaziale, quando verrà il suo momento, sarà probabilmente fatta disintegrare nell’atmosfera con una manovra già programmata, alla quale gli astronauti si esercitano perché sarebbe utilizzata anche in caso di grave incidente. La Iss a quel punto, per ragioni di sicurezza, sarebbe indirizzata nello spazio aereo sopra l’Oceano Pacifico Meridionale, la zona meno popolata del pianeta dove solitamente avviene questo tipo di operazioni.  

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La stazione spaziale non è a rischio caduta

In queste ore sta circolando molto una dichiarazione di Dmitry Rogozin, responsabile dell’agenzia spaziale russa Roscosmos, che avrebbe affermato come le sanzioni internazionali messe in campo dopo l’invasione dell’Ucraina potrebbero interrompere i lanci dei razzi e delle navicelle russe che riforniscono la Stazione Spaziale Internazionale e le operazioni che la mantengono in orbita.
Rogozin, che non è uno scienziato ma che si trova alla guida dell’agenzia spaziale russa per motivi politici e lo stretto legame con il presidente russo Vladimir Putin, non è nuovo a minacce di questo genere e ha già fatto dichiarazioni dello stesso tenore nei giorni scorsi, ma si tratta di pura propaganda. Vediamo perché.
Caduta progressiva. La Iss si trova a 400 km di altezza, dove l’atmosfera è molto tenue (ma c’è) e ha un effetto frenante. Per questo la Stazione cade lentamente verso Terra e quindi ogni tanto è necessario correggere l’orbita, rialzandola. Per fare tutto ciò si utilizzano i motori di manovra del modulo russo Zvezda oppure i motori delle navette russe Progress (quelle che portano materiale ed esperimenti alla Iss da parte russa) attraccate alla Stazione.
È quanto è successo venerdì 11 marzo quando il cargo russo Progress MS-18, attraccato alla Stazione, ha acceso i propri motori per sei minuti, su comando del Controllo Missione russo, come previsto. Come fa notare Paolo Attivissimo: “La realtà dei fatti è completamente opposta alle sparate di Rogozin”.
Se è corretto dire che normalmente il mantenimento della quota orbitale dipende dai russi, è altrettanto vero che questa operazione è stata compiuta anche dal veicolo spaziale della Nasa Cygnus, di costruzione statunitense e anche’esso normalmente utilizzato per rifornire la Stazione Spaziale.
In quanto tempo? La quota orbitale della Iss si abbassa molto lentamente (si parla di mesi o anni) e il rischio che precipiti improvvisamente perché l’agenzia russa smette di fare i cosiddetti reboost programmati è una bugia propagandistica. Inoltre Nasa ed Esa, grazie anche a SpaceX, stanno sviluppando nuove procedure che possano essere svolte da altre navette. Il tutto per rendere la Stazione Spaziale Internazionale indipendente dai russi per queste operazioni. 
Diverso è il caso, invece, di accensione dei motori per cambiare in tempi rapidi la quota della ISS per evitare la collisione con i detriti spaziali. In questi casi la cooperazione con Roscosmos è imprescindibile e si può fare solo con i motori russi.

La Stazione Spaziale Internazionale vista di lato con i diversi moduli e le agenzie che li hanno sviluppati e ne assicurano il funzionamento. Le sanzioni internazionali potrebbero rendere impossibile la collaborazione russo-europea, rendendo problematica la manutenzione e l’evoluzione del modulo Nauka, che dipende in gran parte dal braccio telecomandato europeo ERA. Guarda i moduli dall’interno.
© ESA–K. Oldenburg

La fine della ISS. La Stazione Spaziale Internazionale è in orbita dal 1998 e gli anni si fanno sentire. La sua esistenza è comunque segnata, a prescindere dalla guerra in Ucraina. Grazie ai dati in suo possesso, la Nasa è fiduciosa che l’avamposto spaziale possa rimanere in salute fino al 2030, sebbene l’ultima analisi completa abbia proiettato i dati fino al 2028.
Come avverrà la dismissione? Un gruppo di ingegneri della NASA e dell’agenzia spaziale russa Roscosmos ha già definito alcuni aspetti delle modalità di “rientro” (ispirandosi a quanto fu fatto con la stazione russa MIR), con l’obiettivo primario di non provocare danni. Stando all’idea degli ingegneri verranno lanciate alcune navicelle Progress russe che, agganciate e grazie a una serie di accensioni dei loro motori, abbasseranno progressivamente l’orbita della stazione.
La traiettoria della ISS sarà tale da far precipitare questo oggetto gigantesco in un’area disertata dalle navi nell’Oceano Pacifico, dove c’è il cosiddetto cimitero dei satelliti. Con circa 400 tonnellate, la Stazione Spaziale è di gran lunga l’oggetto di fabbricazione umana con la massa maggiore che abbia mai fatto il giro della Terra. E siccome più grande è un oggetto, più è probabile che l’atmosfera non lo bruci completamente, è facilmente comprensibile che la Nasa stia studiando nel dettaglio il piano di rientro. 

E se i russi spengono tutto? Più problematica sarebbe invece una sospensione totale della collaborazione con Roscosmos nel programma della Stazione Spaziale Internazionale perché il segmento russo è responsabile della guida, della navigazione e del controllo dell’intero complesso. 
Nell’aprile 2021 il vice primo ministro russo Yury Borisov aveva suggerito che la Russia si sarebbe ritirata dal programma della Stazione Spaziale Internazionale già nel 2025 per perseguire una stazione spaziale nazionale.
La guerra in Ucraina e le conseguenti sanzioni potrebbero accellerare questo processo annunciato, ma difficilmente renderlo imminente, sia perché sarebbe irrazionale sia perché sulla Stazione ci sono ancora cosmonauti russi, Anton Shkaplerov e Pyotr Dubrov, insieme a quattro astronauti statunitensi Mark Vande Hei, Kayla Barron, Raja Chari e Thomas Marshburn e l’europeo Matthias Maurer.

Fantascienza e fantapolitica. Alcuni hanno ipotizzato che la Russia potrebbe sganciare i suoi moduli. Non è tecnicamente fattibile perché i due settori, quello occidentale e quello russo, sono integrati e non potrebbero funzionare uno senza l’altro. Il comparto russo  fornisce propulsione e controllo d’assetto, come detto; quello occidentale, semplificando, fornisce l’energia attraverso i pannelli solari. Entrambi i settori producono ossigeno, ma quello russo è meno efficiente e da solo non sarebbe sufficiente.
Altri avanzano l’idea che i russi potrebbe chiudere i portelli fra i due segmenti, ma in caso di emergenza lascerebbero in pericolo gli astronauti statunitensi ed europei. In caso di emergenza, infatti, ci si rifugia nelle Soyuz e si è pronti ad abbandonare la Stazione. L’ipotesi è un po’ improbabile.
La cosa più verosimile che potrebbe accadere è che la Russia si ritiri dagli accordi di far volare cosmonauti (ovvero russi) sulle Dragon (statunitensi) e astronauti (occidentali) sulle Soyuz (russe).

Check in – Check out. Intanto i programmi previsti per i prossimi mesi sono stati confermati e solo in parte modificati: il 18 marzo è previsto il lancio di una navicella Soyuz che dovrebbe portare in orbita tre cosmonauti e far rientrare subito dopo Shkaplerov e Dubrov insieme allo statunitense Mark Vande Hei. Atterreranno in Kazakistan e forse questo potrebbe creare qualche problema a Vande Hei.
Il 28 marzo dovrebbero arrivare sulla Iss i 4 membri della missione privata Axiom Space-1 che rimarrano in orbita per 10 giorni.
Intorno al 15 aprile, invece, arriverà sulla Iss l’astronauta europea Samantha Cristoforetti insieme agli statunitensi Kjell Lindgren, Robert Hines e Jessica Watkins a bordo di una capsula Crew Dragon (la quarta). Daranno il cambio ai 4 membri della missione Crew Dragon 3 il cui rientro è pervisto il 21 aprile.
Rifornimenti. Anche le navicelle senza equipaggio che riforniscono la Iss di cibo, una parte dell’acqua e materiale per gli esperimenti scientifici continuano i loro programmi di approviggionamento. Nasa ed Esa si affidano infatti alle navicelle Cygnus (che abbiamo visto possono anche rialzare l’orbita della Stazione) e Cargo Dragon di SpaceX.
L’ultima Cygnus (la 17) ha portato sulla Stazione oltre 3.500 kg di materiale a febbraio. La prossima missione di rifornimento (SpaceX CRS-25) è prevista per maggio. In questo senso gli astronauti occidentali non devono temere ritorsioni dall’agenzia russa.

I primi stop. Tuttavia le prime avvisaglie che qualcosa sta cambiando nei rapporti di collaborazione spaziale si sono già viste. Roscosmos ha fatto sapere in un tweet che non collaborerà più con la Germania negli esperimenti scientifici fin qui condotti nel settore russo: “il programma spaziale russo sarà adeguato sullo sfondo delle sanzioni. Ora la priorità (nella ricerca spaziale) sarà la progettazione di satelliti nell’interesse della difesa della Nazione”.

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Dormire (e altre attività quotidiane) sulla ISS.

Partiti! Artemis I sta volando verso la Luna

Dopo la delusione dello scorso 29 agosto, e dei successivi tentativi, quando la partenza di Artemis I fu rinviata per un problema a uno dei 4 motori RS-25, il momento tanto atteso è arrivato alle ore 7:47 (ora italiana) di oggi 16 novembre 2022: l’enorme razzo Sls (Space Launch System), un bestione alto ben 98 metri con a bordo la capsula Orion (in questa occasione, priva di equipaggio umano), si è staccato come da programma dalla rampa di lancio del complesso 39 del Kennedy Space Center in Florida (Usa). È dunque iniziata, ora per davvero, la missione Artemis I, una missione storica.
La destinazione è infatti la Luna a 450mila km di distanza. O meglio, una serie di orbite che la Orion, che nel frattempo si sarà staccata dall’Sls, compirà attorno al nostro satellite naturale (con ampiezze diverse), prima di riprendere la via di casa, circa 25 giorni più tardi, l’11 dicembre, dopo avere percorso un totale di circa 2.100.000 km.
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La missione in breve. Perché è cosi importante una missione dimostrativa senza equipaggio che durerà soltanto 25 giorni, dal 16 novembre all’11 dicembre?
Beh, prima di tutto, la missione non è così breve, sebbene siamo abituati a rover che girano su Marte per anni. Ma soprattutto la capsula Orion eseguirà precisamente le stesse manovre che in futuro verranno effettuate dagli astronauti a bordo della missione Artemis II che nel 2024 riporterà l’uomo in orbita lunare. Una cosa che non avveniva da più di 50 anni, dalla fine del programma Apollo.
Dalla sua riuscita dipende dunque il futuro della missione Artemis e il nostro ritorno sulla Luna. Ma come si svolgerà il viaggio della capsula Orion?

Il significato del logo Artemis

In alto a destra c’è la Luna, nostra prossima destinazione e “fulcro” dei nostri sforzi attuali.

Il vertice della A è puntato non sulla Luna, ma oltre. Significa che gli sforzi attuali non si esauriranno con la Luna, ma sono una preparazione di ciò che verrà dopo.La traiettoria va da sinistra a destra attraverso la barra della “A”, con una direzione opposta a quella del logo Apollo. Questo evidenzia una differenza: stavolta la Luna è una tappa del nostro percorso verso Marte, simboleggiato dal colore rosso della traiettoria.L’arco blu, infine, è la Terra, nostro punto di partenza e di vista: tutto ciò che impareremo e acquisiremo “tornerà” sul nostro Pianeta blu.
© Nasa

Dopo la partenza da Terra ed essere entrata per breve tempo in orbita terrestre bassa, la capsula Orion verrà spinta verso la Luna dal secondo stadio del razzo Sls. Nel momento in cui leggerete questa notizia, probabilmente la rotta Terra-Luna sarà già stata imboccata: il programma prevede che Orion lasci l’orbita terrestre dopo 1 ora e 38 minuti dal decollo (riguarda la partenza e scopri le varie fasi del lancio).
Quando Orion dopo qualche giorno raggiungerà il nostro satellite, effettuerà un volo radente (un flyby molto ravvicinato) a soli 100 km di altezza. A quel punto, il modulo di servizio, costruito in Europa e in Italia, accenderà i suoi motori inserendo Orion in orbita lunare. Si tratta di una cosiddetta “orbita retrograda distante”, ovvero la capsula ruoterà in senso contrario rispetto alla rotazione lunare e a una distanza fino a 64.000 km dalla Luna (la Stazione Spaziale, per intenderci orbita a 400 km di altezza).

Si tratta di un record, rispetto  al precedente di 16.000 km circa, raggiunto con la missione Apollo 13.
Nella prima settimana di ottobre, dopo circa un mese di orbite, Orion effettuerà un secondo flyby ravvicinato e si dirigerà verso casa. Successivamente il modulo di servizio (vedi foto che segue) si separerà da quello di comando (sono i due componenti della navicella Orion) e rientreranno in atmosfera: il primo brucerà, il secondo la attraverserà toccando i 40mila km/h di velocità, verrà rallentato da un paracadute e infine completerà il suo rientro l’11 ottobre con un bel tuffo nel mare al largo di San Diego (California).

La capsula Orion. Nella parte alta vi è il modulo di comando e sotto quello di servizio. Alla costruzione di quest’ultimo ha partecipato anche l’Italia grazie ad Asi e Leonardo. Serve a dare energia (grazie ai pannelli solari, costruiti in Italia), acqua e ossigeno al modulo di comando, dove alloggerà l’equipaggio.
© Nasa

La carica dei cubesat. A bordo non ci saranno astronauti in carne e ossa, ma tre manichini equipaggiati con una serie di sensori per raccogliere dati utili per le future missioni.
Del carico faranno parte inoltre 10 minisatelliti, cubesat, grandi come scatole di scarpe e destinati a svolgere vari esperimenti: Icecube, per esempio, che una volta in orbita attorno al nostro satellite naturale, userà uno spettrometro per studiare il ghiaccio lunare; NEA Scout, che dopo essere stato “liberato” si dirigerà, spinto da una vela solare, verso un asteroide per studiarlo da vicino.
L’unico componente di bordo a toccare il suolo lunare sarà il minisatellite giapponese Omotenashi, parte di una missione che ha l’obiettivo di dimostrare la possibilità di atterrare sulla Luna con un piccolo satellite a basso costo.

Il Moonikin Campos, che prende il nome da Arturo Campos, sarà presente in Artemis I, sulla navicella Orion. Il Moonikin Campos, insieme ad altri due manichini, Helga e Zohar, consentirà di misurare i dati relativi a radiazioni, accelerazioni e vibrazioni durante la missione; le informazioni raccolte da queste “repliche del corpo umano” saranno utili per le future missioni con equipaggio.
© Nasa

Il megarazzo. Se siete giunti fino a qui, vale la pena soffermarsi sul vero protagonista della partenza di oggi, il lanciatore Sls, alto 98 metri e con un diametro del primo stadio di 8,4 metri. È in grado di sprigionare una potenza di 39 meganewton e di lanciare verso la Luna 27 tonnellate di massa.
Si tratta di un lanciatore (vedi illustrazione qui sotto) che ha molto a che vedere con lo Space Shuttle. Come la navicella spaziale che fino al 2011 ha portato satelliti, telescopi e astronauti nello spazio, l’Sls ha motori principali RS-25 che bruciano idrogeno e ossigeno liquido. In più, come lo Shuttle, ha due booster laterali a combustibile solido. 
Sia i motori principali del primo stadio sia i booster laterali sono riciclati dal programma dello Space Shuttle.
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La Space Launch System (Sls), il gigantesco razzo impiegato dalla Nasa per il programma Artemis è un colosso alto 98 metri il cui sviluppo (insieme alla capsula Orion) è costato, dal 2011 a oggi, oltre 23 miliardi di dollari. Pur riutilizzando motori e altri componenti, ogni lancio “costa” 2 miliardi di dollari. Al lancio, produce quasi 4.000 tonnellate di spinta.
© Nasa / Focus

Al momento ci sono almeno 16 motori RS-25 riciclati sufficienti per 4 lanci del Sls (che adopera 4 motori ciascuno) e booster per otto lanci. Dopodiché la Nasa produrrà nuovi motori e nuovi booster.

Artemis 1, 2 e 3. Come detto, questa è la prima di tre missioni che dovrebbero consentire di riportare gli Stati Uniti e i suoi alleati (tra i quali l’Europa, con l’Italia) sulla Luna.
Dopo Artemis I sarà infatti il turno di Artemis II (prevista per il 2024, con l’obiettivo di portare un equipaggio di astronauti a orbitare attorno alla Luna senza scendere sulla superficie) e a seguire Artemis III (non prima del 2025, con l’obiettivo dell’allunaggio).
Il nome Artemis – Artemide nella mitologia greca è la sorella di Apollo – richiama immediatamente alla mente il programma Apollo, che più di mezzo secolo fa consentì al genere umano di raggiungere uno dei traguardi più esaltanti si sia mai prefissato.
Ma, sottolineano alla Nasa, non si tratta semplicemente di un secondo tempo di quel film: con Artemis l’uomo torna dunque sulla Luna, esplorando parti a oggi sconosciute, ma si prepara anche per raggiungere la sua destinazione finale, Marte. Lo scopo è “imparare a vivere nello spazio”, sfruttando le risorse della Luna per generare l’energia, costruire gli strumenti e produrre il cibo necessario per chi dovrà abitarci.

Lo spazioporto. Con Artemis III inizierà anche la parte più ambiziosa del progetto, cioè la costruzione del Lunar Gateway: si tratta di uno “spazioporto” in orbita attorno alla Luna, dove le navicelle spaziali potranno attraccare e darsi il cambio, in modo simile a quanto accade oggi sulla Stazione spaziale internazionale.
Per sbarcare sulla Luna da lì gli astronauti useranno una navetta, la Starship, e dopo essere sbarcati raggiungeranno la base permanente al polo sud (Artemis Base Camp) a bordo di jeep lunari.
La Nasa ha dichiarato ufficialmente che Artemis III non arriverà prima del 2025, ma anche l’ipotesi del 2026 potrebbe essere ottimistica.

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20 luglio 1969, Apollo 11: ecco la Luna

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