L’ultimo libro di Annie Ernaux sull’amore con uno studente universitario

“Ma sapevo, guardando quella coppia matura, che se ero con un ragazzo di venticinque anni era per non trovarmi davanti, continuamente, il volto segnato di un uomo della mia età, quello del mio stesso invecchiamento”

La sua estrema gelosia – mi accusava di aver ricevuto un uomo perché nel mio bagno trovava la tavoletta sollevata – rendeva inutile dubitare della sua passione per me e assurda quella critica che, ne ero quasi certa, dovevano avergli mosso i suoi amici, come fai a uscire con una donna in menopausa?
Annie Ernaux, “Il ragazzo
(L’orma editore, 60 pp.)

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Alla ricerca dell’elisir di lunga vita

L’ambiziosa e controversa ricerca dell’immortalità da parte di alcuni guru della Silicon Valley. I quotidiani tentativi per bloccare l’invecchiamento, tra scienza e intrugli. I confini del corpo e della mente. Un’indagine

Tutti gli individui viventi sono costruiti in modo da preservare sé stessi dalla distruzione e resistere alle avversità, ma il desiderio di non terminare la propria vita, in taluni casi l’ossessione, è una delle caratteristiche che probabilmente scaturiscono dalla coscienza di sé e dallo stesso essere umani.

Ad ogni latitudine, ed in ogni periodo storico, questo desiderio si è palesato nelle forme più diverse, ed ha trovato una certa sua soddisfazione nella costruzione di variegate credenze di sopravvivenza, che molto spesso sfociano nella distinzione tra il corpo, perituro, e uno spirito interno, un’essenza individuale più o meno eterna ed immortale. “L’anima di un uomo è immortale e incorruttibile”, afferma Platone nel Fedro: e in questa semplice asserzione, priva di ogni dimostrabilità per costruzione, è radicata tenacemente questa credenza.

Oggi, tuttavia, siamo di fronte ad un fenomeno molto diverso: personaggi di punta della tecno- finanziaria mondiale, insieme ad un pugno di autodefiniti visionari dell’élite della Silicon Valley cercano con nuovi mezzi e nuove strategie di soddisfare un’ambizione particolarmente controversa. L’obiettivo è lo stesso della ricerca della pietra filosofale in cui erano impegnati gli alchimisti: l’immortalità, non solo dell’anima, ma anche del corpo. Jeff Bezos di Amazon, Larry Page di Alphabet, Larry Ellison di Oracle e Peter Thiel di Palantir sono solo alcuni dei super ricchi che hanno mostrato un vivo interesse per il campo emergente della longevità, a giudicare da interviste, libri e resoconti dei media.

Uno dei maggiori sostenitori dell’estensione della vita tra i miliardari della tecnologia è proprio Thiel, che ha co-fondato PayPal e Palantir e ha sostenuto la campagna presidenziale di Donald Trump del 2016. Nel 2006, ha donato 3,5 milioni di dollari per sostenere la ricerca sull’invecchiamento attraverso la fondazione senza scopo di lucro “Methuselah Mouse Prize”. Thiel ha poi aumentato il suo investimento nella fondazione a 7 milioni di dollari nel il 2017, secondo il Time.

Ancora, in un articolo del 2017 pubblicato dal NewYorker, troviamo scritto che il fondatore di Oracle Ellison ha donato oltre 370 milioni di dollari per la ricerca sull’invecchiamento e sulle malattie legate all’età.

Jeff Bezos, fondatore e proprietario di Amazon, ha più recentemente investito cifre considerevoli in una nuova start-up di “ringiovanimento” chiamata Altos Labs. A quanto pare, la start-up, che starebbe perseguendo una cosiddetta “tecnologia di riprogrammazione biologica”, è sostenuta anche dal venture capitalist russo-israeliano Yuri Milner, che ha fatto fortuna come primo investitore in Facebook.

Nel frattempo, i fondatori di Google Sergey Brin e Larry Page hanno contribuito a lanciare Calico, un’impresa che spera di trovare indicazioni sui meccanismi alla sua base di invecchiamento e malattie degenerative o tipicamente associate all’età come morbo di Alzheimer e diabete, seguendo topi dalla nascita alla morte. Calico fa parte di Alphabet, la holding che possiede anche Google.

Nel Regno Unito, il miliardario britannico Jim Mellon ha fondato e ampiamente finanziato un’azienda dedicata al progetto di estendere la vita, la Juvenescence. A sua volta, Juvenescence continua a investire in un’ampia gamma di terapie anti-età che ritiene abbiano il potenziale per prolungare la vita umana. Per esempio, Juvenescence ha sostenuto AgeX Therapeutics, poi fusa con LyGenesis. AgeX ha sede in California e cerca di creare cellule staminali in grado di rigenerare i tessuti invecchiati, mentre LyGenesis intende sviluppare bioreattori per far crescere organi sostitutivi.

Altri miliardari, tra cui Mike Cannon-Brookes, il co-fondatore della società di software australiana Atlassian, e il fondatore del gruppo NEX Michael Spencer, hanno messo soldi in Juvenescence.

Mentre gli “onesti” miliardari della tecnologia esplorano idee sul ringiovanimento e di contrasto all’invecchiamento come l’ingegneria dei tessuti, la stampa di organi, la crionica, la coscienza digitale e persino la “donazione da giovani”, ed in sostanza investono in ricerca ad alto rischio (o qualche volta poco fondata), c’è tuttavia chi è arrivato già sul mercato. Esistono infatti numerosi prodotti sul mercato, quasi sempre al limite della frode, che rivendicano già oggi l’estensione della vita, e alcuni fanatici giurano che la prima persona in grado di vivere fino a 1.000 anni è già nata, magari grazie all’ultimo ritrovato acquistato via Internet. Se esploriamo il panorama di mercato costituito dalle aziende che vendono questi prodotti, troviamo al primo posto le promesse fatte da chi ritiene fonte di ogni male l’alimentazione moderna, puntando il dito in particolare su un maldefinito concetto di “cibi elaborati”. Senza preoccuparsi di una rigorosa analisi scientifica, molte di queste aziende vendono prodotti, in genere integratori, programmi e strumenti vari, promettendo di essere in grado di prevenire molti dei danni “causati dalla vita moderna” e così di allungare la vita. Naturalmente, le stesse aziende hanno comitati scientifici pieni di titolatissimi esperti, siti web patinati, spazio pubblicitario ampio su riviste di ogni genere; soprattutto, esse sono costruite sopra il racconto del “cibo naturale” e dello stile di vita sano, un racconto in cui assieme a certi fatti generali e risaputi, la cui indubitabile efficacia nel preservarci da certe malattie è dimostrata, sono mescolati fattoidi e tecno-sciocchezze, che costituiscono il valore aggiunto venduto al più o meno ignaro consumatore. Tra questi ultimi, un ruolo preminente hanno trattamenti pseudoscientifici, la cui efficacia è indimostrata e per i quali non è possibile o non è stato nemmeno proposto un meccanismo di azione: innanzitutto integratori corredati di fantasiose descrizioni fino a livello molecolare sulle presunte azioni benefiche esercitate, e poi trattamenti al plasma per la longevità, nutraceutici “age-defying”, terapia con campi elettromagnetici pulsati, trapianti e trattamenti a base di pretese “cellule staminali” (le quali spesso non sono nemmeno ben definite), camere iperbariche, apparecchi per la crioterapia ed ogni sorta di strani rituali tecnologici.

La finanza e il mercato si sono già mossi, quindi, e qualche volta promettono persino di aver già raggiunto il traguardo; ma come possiamo mettere ordine in questo magmatico ed effervescente ribollire di idee, mezze verità, franche truffe e risultati interessanti?

Come possiamo, cioè, capire quanto di vero ci sia, nell’idea che sia possibile trovare la “pietra filosofale” tanto ambita dagli alchimisti, attraverso l’identificazione di un “elisir di lunga vita” tecnologico?

Come sempre, dobbiamo tornare alla scienza, e allontanarci dalle visioni dei futurologi, degli investitori, dei venditori e pure dei sognatori.

Gli scienziati, da decenni, stanno studiando le basi del processo di invecchiamento, che, se ci riflettiamo un momento, non è null’altro che l’insieme di quei fenomeni degenerativi che portano alla cosiddetta “morte naturale”, alla morte cioè per eventi fisiologici non riconducibili all’azione di un’entità esterna al nostro stesso corpo. Può davvero una simile indagine, come entusiasticamente propagandano coloro che vi sono coinvolti e che spesso vendono prodotti ad essa collegata, portare alla fine all’allungamento non dico indefinito, ma perlomeno molto significativo delle nostre esistenze individuali? Ma, soprattutto: cosa abbiamo imparato circa il processo che ci porta a morire, le sue cause, perfino i suoi vantaggi, e la sua necessità? Morire è davvero un fatto ineluttabile, o è solo una conseguenza della nostra limitata conoscenza sul fenomeno dell’invecchiamento?

Proviamo ad esaminare alcuni fatti, alla luce delle moderne conoscenze che derivano dalle scienze biologiche.

Perché si muore anche senza essere uccisi?

Innanzitutto, possiamo fare alcune considerazioni circa la morte dei singoli individui di ogni specie. Allo scopo, dobbiamo ricordare che ciascun individuo, diverso da ogni altro, corrisponde ad un “pacchetto di informazioni” genetiche ed epigenetiche, in parte forgiate dalla sua stessa esistenza, che sono sottoposte al vaglio continuo della selezione naturale. In ogni momento, la bontà delle informazioni di cui un individuo dispone in termini di geni, epigeni e, quando del caso, nozioni apprese, è la principale risorsa attraverso la quale può affrontare l’interminabile sequenza di sfide poste dall’ambiente circostante: la reazione appropriata ai cambiamenti dell’ambiente, che comprende anche tutti gli altri organismi viventi, è infatti ciò che consente all’individuo di continuare la sua esistenza, posto che ciascun nuovo avvenimento può portare alla sua distruzione, sia a causa della competizione per risorse limitate, sia a causa degli shock imposti all’organismo, sia infine a causa di predazione e parassitismo. Questo pacchetto di informazioni, codificate chimicamente nei geni e nella struttura molecolare, fenotipicamente nella morfologia e cognitivamente nel cervello di un individuo, richiede al minimo di essere mantenuto integro, quando non può anche essere ampliato e adattato, come nel caso della morfologia e delle capacità cognitive. Anche il solo processo di mantenimento, tuttavia, ha un costo, per una semplicissima conseguenza del secondo principio della termodinamica: mantenere un pacchetto di informazioni integro, infatti, significa mantenere una struttura ordinata, cioè mantenere lo stato del supporto che trasporta un contenuto informativo in una conformazione corrispondente a quel contenuto preciso. Le lettere sulla pagina che state leggendo ne sono un esempio: perché esse portino iscritto qualcosa che abbia un significato, è necessario che la loro precisa disposizione sul foglio di carta che avete in mano o sullo schermo del PC che state utilizzando sia mantenuta integra, e ciò avviene con consumo di energia (quella necessaria a mantenere integro il foglio di carta contro le intemperie o quella necessaria a visualizzare sul vostro schermo una precisa conformazione di testo).

Se smettessimo di fornire energia allo schermo del vostro PC, o se avvicinassimo una fiamma al foglio di carta che avete fra le mani, immediatamente la struttura ordinata e l’informazione in essa contenuta sarebbero distrutte; lo stesso accade se lasciamo trascorrere sufficiente tempo, perché l’accumulo costante di danni accidentali dovuti a stress ambientali anche piccolissimi porta alla distruzione della carta come di un PC.

Ora, le cellule di cui siete composti e di cui sono composti tutti gli esseri viventi dispongono precisamente di una fonte di informazione chimica che specifica sia come devono essere fatte, sia come devono interagire con le altre cellule formando il nostro corpo e determinandone ogni azione, sia come devono reagire agli stimoli e agli accadimenti ambientali. Questa fonte di informazione è costituita dal genoma di un individuo, nonché dall’insieme delle modifiche accumulatesi nel corso del tempo e riflesse nella composizione molecolare diversa di ogni tipo di cellula. E’ questo che mantiene una cellula cardiaca in grado di assumere le sue funzioni e la sua forma, è questo che permette ad una cellula del sistema immunitario di creare anticorpi per proteggere tutte le altre cellule da un patogeno, è questo insomma che, cellula per cellula, definisce come siamo fatti: l’informazione molecolare iscritta nelle singole cellule, ivi inclusa l’informazione che consente alle cellule di formare il nostro organismo interagendo in modo preciso fra loro e di reagire alle variazioni ambientali in modo più o meno appropriato.

Questa informazione, questa struttura complicatissima, va in ogni momento difesa contro gli insulti accidentali provenienti dall’ambiente esterno; in altre parole, la tendenza all’aumento di disordine interno dovuta alle semplici leggi di probabilità della termodinamica va contrastata consumando energia, e creando un maggior disordine all’esterno del nostro corpo nel processo di ottenere tale energia per nostro vantaggio. Per mantenere integro il nostro “libro di istruzioni chimico”, tuttavia, abbiamo bisogno di altre istruzioni; abbiamo cioè bisogno di informazioni utili a riparare anche il nostro stesso genoma e la struttura molecolare che ne supporta il funzionamento, perché se essi fossero danneggiati in maniera irreparabile, le nostre cellule comincerebbero a comportarsi in modo alternativo a quello che serve alla sopravvivenza dell’organismo (come nel caso del cancro), oppure perirebbero per mancanza di istruzioni sul proprio stesso mantenimento.

Il lettore si accorgerà che, a questo punto, stiamo cominciando a rincorrere un regressus in infinitum: per mantenere integra una fonte di informazione, abbiamo bisogno di altra informazione di riserva, ma siccome anche questa deve essere iscritta in qualche supporto fisico, il problema della sua eventuale perdita irreparabile è solo spostato più a monte.

È per questo motivo che, alla lunga, nessun organismo vivente che sia sottoposto all’azione dell’ambiente può durare all’infinito: ad un certo punto, i danni accumulati da un numero sufficiente di sue cellule, e quindi di suoi organi, saranno tali da non essere riparabili, e l’organismo diventerà sempre più fragile rispetto alla pressione esercitata dall’ambiente, fino a fallire in qualche funzione vitale e quindi a perire, così che la materia di cui è composto tornerà in uno stato ad alta entropia e l’informazione corrispondente a quell’individuo sarà perduta.

Perduta davvero? Se così fosse, l’evoluzione naturale dovrebbe consistere nella casuale emersione nel tempo di nuova informazione e di nuovi individui adatti a vivere; in realtà, la replicazione degli organismi biologici garantisce che, nonostante i singoli supporti – gli individui – siano deperibili, l’informazione meglio adatta a fronteggiare l’ambiente sia riscritta in nuovi individui, ovvero su supporti nuovi di zecca, e possa così passare la sfida del tempo attraverso il “trucco” della sua duplicazione di generazione in generazione.

  

La vita è quindi caratterizzata dall’immortalità dell’informazione che nei miliardi di anni di evoluzione si è riuscita a iscrivere in una moltitudine di supporti diversi, la cui varietà è garantita sia dal fatto che le copie non sono perfette, ma presentano differenze rispetto ai progenitori, sia da altri meccanismi ricombinatori e di rimescolamento. Nell’insieme, queste sorgenti di variazione hanno generato una stupefacente moltitudine di esseri viventi diversi, tutti corrispondenti a “pacchetti di informazioni” differenti ma ugualmente in grado di garantire la sopravvivenza dei supporti su cui sono iscritti e la propria trasmissione con variazioni in nuovi supporti nelle generazioni successive.

L’individuo, ovvero il supporto, perisce; l’informazione biologica, pur con cambiamenti, continua eterna, proprio come l’anima immortale a cui pensava Platone, e questo processo continuerà fintanto che vi sarà una fonte di energia utilizzabile per mantenere il processo.

Si potrebbe anzi argomentare che, data la finitezza delle risorse disponibili, la peribilità dei supporti sia necessaria ad esplorare nuove soluzioni nelle generazioni successive, a lasciare cioè lo spazio per organismi leggermente diversi dai propri progenitori, che potrebbero meglio rispondere all’ambiente e che potrebbero contenere quella variazione in grado di rivelarsi fondamentale in nuove condizioni ambientali. La morte dell’individuo, dal punto di vista della conservazione della specie, è ciò che serve a liberare spazio e risorse per nuovi esperimenti, e quindi alla lunga favorisce la continuazione delle specie, garantendo l’incessante esplorazione di nuova informazione biologica da sottoporre a selezione darwiniana.

Eppure, questa forma di eternità – quella dell’informazione biologica – non è quella cui aspiriamo; è sì garantita dalla discendenza (e spesso proprio in questa forma decantata letterariamente), ma comporta non solo la perdita del nostro supporto organico, quanto soprattutto la perdita della coscienza di noi stessi. Da un punto di vista cognitivo, dopo la morte noi non saremo più presenti a noi stessi, anche se quasi tutta l’informazione biologica di cui consistiamo sarà tramandata, o se il ricordo delle nostre gesta, come speravano gli antichi, diverrà eterno, o persino se la materia di cui siamo composti dovesse riorganizzarsi in infiniti altri esseri viventi; e questo è tutto ciò che conta, quando pensiamo alla nostra caducità.

Possiamo, almeno in linea teorica, aspirare ad una più piena immortalità?

In linea di principio, sono state individuate almeno due strade. La prima è quella di trovare un modo per non morire, o perlomeno di ritardare tantissimo la fine naturale della nostra esistenza. La seconda è quella di trasferire il nostro io cognitivo, spirito, anima – insomma la consapevolezza di noi stessi, con tutti i nostri ricordi e caratteristiche psicologiche – in un corpo nuovo, ogni volta che ce ne sia bisogno.

Per quanto tutto ciò sembri fantascienza, e nonostante l’incertezza nel risultato finale, la ricerca si sta muovendo in entrambe le direzioni, come vedremo qualche volta anticipata impropriamente dal mercato.

Bloccare l’invecchiamento

Cominciamo dal primo obiettivo: per quello che abbiamo sin qui discusso, impedire la morte naturale di un singolo individuo è un fatto che potrebbe ottenersi bloccandone l’invecchiamento, o ringiovanendo l’organismo di tanto in tanto. Il dilemma del regresso all’infinito che abbiamo visto potrebbe essere superato, se l’informazione necessaria alla riparazione dei danni da invecchiamento, il cui accumulo conduce alla morte, fosse conservabile altrimenti che nella struttura dello stesso organismo che intendiamo preservare, e se, sulla base di questa informazione, fosse possibile programmare degli interventi in grado di ripristinare un organismo danneggiato dal tempo, allo stesso modo in cui possiamo riparare la carrozzeria di un’automobile danneggiata dalla grandine.

Ovviamente, abbiamo bisogno, innanzitutto, di acquisire l’informazione necessaria; esiste per questo un florido settore di ricerca nelle scienze biologiche, che potremmo chiamare “scienza dell’invecchiamento”. Il suo primo obiettivo è caratterizzare nel dettaglio quali sono le modifiche di un organismo all’aumentare della sua età; poi di isolare, fra queste modifiche, quegli irreversibili insulti del tempo, il cui accumulo porta all’invecchiamento e alla morte; ed infine, quello di riuscire a manipolare la nostra struttura molecolare, in modo da riparare in maniera selettiva questi insulti, supplendo all’invecchiamento dello stesso sistema di riparazione dei danni intrinseco al nostro organismo.

È impossibile in questa sede ricapitolare in modo anche solo parziale l’enorme quantità di conoscenza acquisita in tutti e tre i filoni di ricerca appena elencati; non ho quindi altra alternativa che cercare di far comprendere almeno il livello di sofisticazione della conoscenza cui si è arrivati, attraverso la breve trattazione di tre esempi appropriati.

Per quel che riguarda il primo obiettivo, la comprensione a livello molecolare e cellulare dell’invecchiamento di un organismo, vorrei illustrare un solido risultato ottenuto per quel che riguarda l’invecchiamento del DNA contenuto all’interno di ogni nostra cellula. Come forse il lettore non esperto ricorderà dai tempi della scuola, il DNA umano è strutturato all’interna di ogni singola cellula del nostro corpo sotto forma di cromosomi. L’estremità di ciascun filamento di DNA, e quindi dei cromosomi, è denominata telomero. Ora, bisogna sapere che ad ogni replicazione cellulare, che ovviamente comporta la copia del DNA e la generazione di nuove copie dei cromosomi da dividere equamente fra due cellule figlie, i telomeri, per una ragione legata al meccanismo con cui avviene la replicazione (per i più curiosi, la ragione sta nell’impossibilità della DNA polimerasi di copiare un filamento di DNA sino al suo termine), sono letteralmente “smangiucchiati” e si accorciano un po’. Le cellule del nostro organismo devono essere continuamente rimpiazzate, e questo avviene attraverso la duplicazione e la generazione di nuove cellule; ma, per quel che abbiamo appena visto, andando avanti nel tempo i telomeri risulteranno via via più corti, man mano che le generazioni di cellule che ci compongono sono rimpiazzate. Quando i telomeri sono del tutto consumati, le cellule non possono più duplicarsi senza introdurre gravi danni nel proprio DNA; esiste quindi un limite fisico al numero di generazioni di cellule che si possono ottenere da un progenitore, e tale limite è determinato dalla lunghezza dei telomeri dei suoi cromosomi. Se le cellule non possono essere più efficientemente sostituite, naturalmente, i tessuti di un organismo cominciano a mostrare i danni dell’invecchiamento; questo è il modo in cui un meccanismo molecolare è stato legato al processo che porta alla morte. In particolare, l’accorciamento dei telomeri oltre una lunghezza critica innesca l’invecchiamento e riduce la durata della vita nei topi e nell’uomo mediante un meccanismo che prevede l’induzione di una risposta persistente al danno del DNA alle estremità del cromosoma con perdita di vitalità cellulare. È stato quindi dimostrato nel topo (Mus musculus), nella capra (Capra hircus), in una specie di gabbiano (Larus audouinii), nella renna (Rangifer tarandus), in un avvoltoio (Gyps fulvus), in un delfino (Tursiops truncatus), in un fenicottero (Phoenicopterus ruber) ed in un elefante (Elephas maximus sumatranus) che la velocità di accorciamento dei telomeri predice perfettamente la durata media della vita degli individui delle diverse specie considerate.

L’apparente contraddizione di questi fatti da parte di studi che mostravano come nell’uomo con l’avanzare dell’età si trovano in media telomeri più lunghi, è risultata essere invece una conferma: guardare agli individui più anziani, infatti, implica guardare a coloro che sono sopravvissuti, proprio a causa di un minore accorciamento dei telomeri rispetto agli altri individui periti.

Nell’insieme, i dati ottenuti sono una dimostrazione concreta di quanto si diceva all’inizio: quando, per vincoli inerenti al modo di funzionare di un organismo, il supporto che serve per contenere il pacchetto di informazioni biologiche vitale per un organismo non è più riparabile, l’individuo perisce.

Ora, il meccanismo che abbiamo illustrato è saldamente ancorato all’invecchiamento e alla morte; ma, nella maggior parte dei casi, la ricerca ha individuato semplici correlazioni fra determinate caratteristiche, osservate durante l’invecchiamento, e l’età di un soggetto. Arrivando al secondo degli obiettivi che la ricerca sull’invecchiamento si pone, potremmo chiederci: quante di queste correlazioni sono spurie, e quante sono invece robuste a sufficienza da poter sottintendere un nesso causale?

Per rispondere a queste domande, sono come sempre molto utili continue metanalisi dei risultati ottenuti, cioè studi che esaminano nel complesso tutti i risultati di decine e decine di altri lavori, verificandone la coerenza interna e la congruenza reciproca con strumenti statistici. A titolo di esempio, considereremo una metanalisi di 36 studi per un totale di 4676 individui. In metanalisi come questa, la correlazione tra invecchiamento e danno del DNA è risultata fortemente supportata, ma in grado di spiegare solo una parte del processo; inoltre, la forza della correlazione è risultata dipendere anche dal tipo di tessuti studiati, dalla tecnica sperimentale adoperata e dalle abitudini dei soggetti coinvolti, come il fumo. Più che il risultato della singola metanalisi, qui è fondamentale evidenziare un concetto: l’invecchiamento, e quindi la morte, risultano fortemente correlati non ad un solo, singolo fenomeno – come l’accorciamento dei telomeri, ad esempio – ma ad una moltitudine di diversi processi, dei quali è presumibile che al momento conosciamo solo una piccola parte, visto il flusso sempre crescente di nuovi studi che delucidano nuovi meccanismi. Solo la biologia dei sistemi complessi potrà forse far luce, visto che i meccanismi molecolari, cellulari e fisiologici che sono elucidati di volta in volta, risultano inestricabilmente connessi fra loro; questo fatto va tenuto sempre a mente, di fronte ai continui nuovi annunci di mirabolanti rimedi o ricerche, anche in Italia.

  

Prima di poter ottenere risultati concreti, dunque, sarà probabilmente necessario elucidare tutti o gran parte dei meccanismi potenzialmente implicati nell’invecchiamento, indi filtrare via rumore e false correlazioni, ed infine combinare in un solo quadro d’insieme tutti i processi molecolari identificati; forse ci arriveremo, ma per il momento non siamo nemmeno in vista della fine.

Nel mentre rendiamo più chiaro il quadro, siamo in grado di controllare a nostro piacimento quei processi che sono sicuramente risultati legati all’invecchiamento, magari invertendone il corso? Arriviamo quindi al terzo degli obiettivi della ricerca sull’invecchiamento e al terzo degli esempi che intendo illustrare in questo ambito.

In logica conseguenza di quanto abbiamo visto sin qui, potremmo chiederci se esiste un metodo per riallungare i telomeri prima che diventino troppo corti. Questo è proprio il risultato ottenuto nel 2015 da un gruppo di ricerca di Stanford. I ricercatori hanno somministrato un particolare tipo di RNA messaggero a cellule umane, codificante la sequenza di un enzima umano chiamato TERT, il quale ha la capacità di riallungare i telomeri umani. Nel loro studio, i ricercatori spiegano che un minimo di tre applicazioni dell’RNA modificato (chiamato TERT mRNA modificato) nelle cellule umane in pochi giorni ha aumentato la lunghezza dei telomeri fino al 10%. Cosa più importante, i ricercatori hanno dimostrato che, come atteso, le cellule della pelle umana trattate con l’mRNA TERT modificato si sono replicate in media 28 volte in più rispetto a quelle non trattate, mentre le cellule muscolari umane trattate si sono divise tre volte di più.

  

Dalle cellule, si è infine giunti agli organismi viventi: nel 2019, sono stati pubblicati i risultati di un gruppo di ricerca spagnolo, che è riuscito ad allungare i telomeri dei topi, generando embrioni modificati a partire da cellule speciali per vedere se telomeri più lunghi riuscissero in vivo a rallentare i fenomeni legati all’invecchiamento.

L’esperimento ha funzionato: i topi con i telomeri allungati vivevano in media il 24% in più, erano più magri e avevano meno probabilità di sviluppare il cancro. Anche i livelli di vari indicatori dell’invecchiamento metabolico si sono rivelati inferiori, hanno riferito i ricercatori. Per esempio, questi topi avevano meno colesterolo “cattivo” nei loro corpi e il loro DNA non era danneggiato tanto quanto gli animali di controllo. Inoltre, anche i loro mitocondri funzionavano meglio, rispetto ad animali di controllo di pari età.

Questi risultati dimostrano, nel caso di un singolo meccanismo che la ricerca di base ha solidamente ancorato al processo di invecchiamento, come sia possibile invertire quel meccanismo; non dimostrano ancora una strada per rallentare o eliminare l’invecchiamento negli esseri umani, perché, per esempio, per replicare il risultato ottenuto nei topi bisognerebbe generare embrioni umani modificati, con i telomeri allungati.

E però, l’obiettivo è chiaro, anche se per il momento non facilmente raggiungibile; soprattutto, la dimostrazione che alla fine il processo di invecchiamento e la conseguente morte risultano da un insieme di meccanismi molecolari non potrebbe essere più lampante, per cui diversi gruppi di ricerca stanno sviluppando, per ora in animale, diversi sistemi di interferire in maniera precisa con differenti meccanismi, come dimostrano anche altri recentissimi studi in topo con approcci non legati ai telomeri, ove si sono ottenuti risultati interessanti.

Un corpo nuovo

Se interferire a livello molecolare con l’invecchiamento e la morte vi sembra fantascienza, l’alternativa che sto per proporvi è ancora più incredibile. Consideriamo un settore attualmente in rapido sviluppo, ovvero quello delle cosiddette interfacce cervello-macchina. È attualmente possibile misurare l’attività elettrica di diverse parti del cervello, riconoscere modalità specifiche e ritmi di attivazione (spesso grazie all’intelligenza artificiale) e quindi tradurre l’attività elettrica del cervello in comandi per una macchina. Utilizzando questo tipo di approccio, è stato possibile comandare braccia robotiche, mani e anche appendici robotiche che non imitano alcun organo umano; è stato possibile scrivere a distanza su uno schermo parole di senso compiuto, ad un ritmo di quasi 90 lettere al minuto; è stato possibile conferire a pazienti nel cosiddetto stato “locked in” una limitata capacità di comunicazione con altri esseri umani. Connettendo poi la macchia ricevente ad un secondo cervello organico, è stato possibile trasmettere brevi parole da un cervello ad un altro, a distanza, ed è stato persino possibile, molto più sinistramente, controllare il movimento di ratti a partire da una mente umana.

  

In un ulteriore sviluppo, sono state prodotte alcune interfacce cervello-macchina di tipo bidirezionale: sono stati cioè integrati dei sensori sulle protesi controllate dal cervello, i quali, connessi a loro volta al cervello, riescono a riprodurre sensazioni tattili, cutanee e di propriocezione. Così, un cervello umano può sia comandare una macchina, che ricevere informazioni sensoriali dalla stessa ed elaborarle come farebbe con una parte del corpo.

Non si tratta di pura ricerca: aziende di vario genere sono attivamente impegnate in programmi di sviluppo di interfaccia cervello-macchina sempre più sofisticate. Ne è un esempio recente un’azienda fondata da Elon Musk, la Neuralink, che intende commercializzare un’interfaccia unica, molto avanzata, per comandare quante più macchine possibile in remoto, fra cui anche e soprattutto computer e telefonini, non solo creando così un ponte fra un cervello e una macchina, ma aprendo anche la possibilità di una comunicazione diretta fra un’intelligenza umana ed una artificiale.

  

Ora, rendere sempre più stretto e immediato il contatto tra un cervello umano e un corpo artificiale, ovvero una collezione di parti robotiche comandabili e da cui è possibile ricevere segnali sensoriali, potrebbe in linea di principio portare a rimpiazzare completamente il corpo umano con un corpo artificiale, estendendo di gran lunga la vita di un individuo, a patto di riuscire a mantenerne integro il cervello. Questa tecnologia oggi non esiste, e aziende nate promettendo di essere prossime al traguardo, come Humai nel 2015, si sono rivelate poco più che elaborate truffe verbali. Tuttavia, i bisogni metabolici dei cervelli dei vertebrati sono abbastanza semplici, e consistono principalmente in ossigeno e glucosio. Questi possono essere forniti alimentando i vasi sanguigni che riforniscono il cervello con un sostituto del sangue o immergendo il cervello in un liquido cerebrospinale artificiale e ossigenandolo direttamente. I cervelli di cavia, cane e scimmia sono stati tutti tenuti in vita per ore o addirittura giorni dopo essere stati espiantati.

  

Per quanto abbiamo detto, non è impossibile immaginare un futuro in cui un cervello umano possa essere espiantato e mantenuto indefinitamente in vita, connesso in remoto ad un corpo robotico della natura più variegata, riparabile a piacere molto meglio di un corpo biologico, dopo essere stato addestrato a comandarlo come avviene oggi e come avverrà sempre più in futuro. Se questo sia auspicabile e se vi si riuscirà, resta da vederlo; ma in una bizzarra anticipazione di una possibilità futura, esistono già aziende che studiano la criopreservazione sia dei cervelli che dei corpi interi e che sono riuscite a congelare e poi scongelare cervelli di mammifero in maniera perfetta, preservando nel processo la struttura a livello di singole sinapsi.

  

La nostra anima immortale, versione 2.0.

Da un punto di vista tecnologico, quindi, non sembrano esserci per ora barriere di principio perché, alla fine, il corpo umano non possa essere del tutto rimpiazzato da qualcosa di più duraturo, preservando al contempo l’identità cognitiva di una persona.

Allo stesso tempo, le ricerche condotte con successo in animale indicano che cominciamo a padroneggiare e a poter controllare l’invecchiamento del nostro corpo biologico; anche in questo caso, per ora non si vedono barriere insormontabili alla possibilità di prolungarne, e di molto, la durata.

In entrambi i casi, alla fine, la chiave sembra essere la stessa: il trasferimento dell’informazione necessaria a preservare la nostra identità dal livello chimico-molecolare, tipico degli organismi biologici, a quello cognitivo, maggiormente al riparo dagli insulti della termodinamica e quindi più duraturo.

Vi è però una considerazione cruciale da fare: oltre a mantenere in buona salute un corpo, biologico o artificiale che sia, accumulando anni senza risentire troppo del processo di naturale invecchiamento o riparando ciò che è necessario, dobbiamo trovare il modo di mantenere integra la mente. Finora, abbiamo dato per scontato che, a patto di evitare la decadenza di un corpo, la mente rimanesse vigile e presente a sé stessa, cioè il nostro io cognitivo fosse comunque in salvo; sappiamo tuttavia che la neurodegenerazione è un fenomeno che, al passare del tempo, aumenta le sue probabilità.

Contrariamente all’invecchiamento del corpo, di cui cominciamo a comprendere qualche elemento importante, per quel che riguarda la mente non abbiamo neppure un’idea sicura di cosa dovremmo preservare, per evitare il deterioramento cognitivo: basta, per esempio, mantenere intatta la struttura di ogni neurone e di ogni sinapsi, per evitarlo? Oppure è più onesto ammettere che, di fatto, noi non sappiamo ancora dove risieda la nostra mente, e quindi non abbiamo idea, in realtà, di cosa dovremmo mantenere, per evitarne la rovina?

Questo è l’obiettivo reale, la vera pietra filosofale non solo della ricerca nel settore dell’invecchiamento, ma di una parte importantissima della ricerca moderna: comprendere come e dove si forma la nostra mente, a partire da ciò che abbiamo già capito dei processi associati alla formazione della memoria, all’orientamento spaziale, alla percezione sensoriale.

Senza questa comprensione, l’immortalità è una chimera, e nel migliore dei casi dovremo “accontentarci” di vivere più a lungo in migliore salute; se riusciremo a raggiungere questo traguardo, forse davvero la nostra anima immortale risiederà nel mondo delle idee, come voleva Platone.

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