Il libro di La Capria funziona di più a teatro, perché è diversa la sensibilità che vi si respira
“Ferito a morte” è abitato da uomini napoletani “sfessati”, un’ottica maschile di stare al mondo e di vedere le donne come oggetto. Ma è anche costruito con una lingua viva e onirica, un uso particolarissimo del flusso di coscienza
Più dei dongiovanni compulsivi di Vitaliano Brancati, più delle fissazioni erotiche di Alberto Moravia fino al machismo dichiarato di Francesco Piccolo tanto per arrivare ai nostri giorni, se c’è una bandiera letteraria di un’ottica tremendamente maschile di stare al mondo e vedere le donne come oggetto – di piacere o disperazione non importa – questa è Ferito a morte di Raffaele La Capria. Ho tentato di amare questo romanzo, consapevole della sua potenza narrativa, della sua lingua viva e onirica, dell’uso innovativo di un particolarissimo flusso di coscienza, ma i suoi maschi napoletani “sfessati”, divisi fra conquiste femminili e prodezze acquatiche alla ricerca di povere cernie da infilzare per il puro gusto di farlo, nemmeno per cucinarsele, mi ha sempre generato un’oscura diffidenza quando non un vero e proprio fastidio. Adesso, preparandomi ad assistere alla (notevolissima) versione teatrale che ne ha dato Roberto Andò al teatro Argentina di Roma ho provato a tornarci su anche con la curiosità di capire come due intellettuali maschi sessantenni di oggi (lo stesso Andò ed Emanuele Trevi che ne ha curato l’adattamento per il teatro) se la sono cavata rispetto a certi stereotipi imbarazzanti.
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