Addio al Progresso nella Pubblicità: resta solo il commercio?

Da sempre non amo parlare male del lavoro dei colleghi. Non farò eccezione neanche questa volta. Non commenterò idea ed esecuzione dell’agenzia che ha confezionato il nuovo spot di Fondazione Pubblicità Progresso, intitolato programmaticamente “Più volume alla tua vita”. Quello che lascia stupiti, anche nelle reazioni di altri operatori del settore, dunque non è l’esecutore, ma la scelta del tema.

Pubblicità Progresso, che da oltre 40 anni offre un contributo etico al ricco e discusso mercato della pubblicità, da sempre si è caratterizzata per attività di comunicazione profondamente innovative: dalla prima campagna antifumo, rivoluzionaria in quanto i produttori di tabacco erano tra i più redditizi clienti delle agenzie, fino a quelle contro il razzismo, a favore della donazione degli organi, del sangue o della modifica del Salary Gap femminile.

Ora, una campagna con vocazione sociale, che neanche tanto implicitamente invita all’acquisto di un apparecchio acustico, rischia di rappresentare un clamoroso passo indietro sui fondamenti di quella che resta una istituzione, formata da tutti gli attori del mercato: Agenzie, Committenti, Editori.

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Dispiace anche che questa sia uno dei primi passi pubblici del presidente Andrea Farinet. Dispiace perché, dall’uscita del Past President Contri, la Fondazione ha registrato un appannamento nella visibilità delle sue iniziative. E poi si scivola su quella che sembra una campagna Category Building, come potrebbe promuoverla un’associazione di produttori – come la famosa campagna per la Birra con Arbore, che invitava al maggiore consumo con il claim “chi beve birra, campa cent’anni”. Ma quella la pagavano i produttori. Qui invece risulta solo una non meglio specificata “collaborazione con Confindustria Dispositivi Medici”.

L’amarezza resta perché quelle di Pubblicità Progresso sono campagne che normalmente godono di spazi gratuiti, generosamente donati dai maggiori editori, su tutti gli strumenti di diffusione mediatica. Quindi sono azioni che possono davvero portare risultati di pubblica utilità, misurabili e rilevanti.

La differenza tra la pubblicità commerciale e quella di pubblica utilità – che dovrebbe modificare i comportamenti dei cittadini, favorendo quelli che portano ad un miglioramento di tutta la società – sembra perdersi in questo spot che, anche se mostra una specie di telecomando azzurro che non rimanda ad una specifica marca (e ci mancherebbe), in realtà suona proprio come un invito a dotarsi di un apparecchio acustico e sembra dire: “Cari anziani, scegliete voi la marca, ma compratene uno: darete più volume alla vostra vita”.

E qui, senza considerare l’idea o la sua esecuzione, scatta la preoccupazione: ha senso dedicare spazi gratuiti, offerti dagli editori, per un’azione così classica nel marketing? Qual è l’utilità sociale, e non commerciale, legata al consiglio all’acquisto di un apparecchio acustico?  E la separazione tra Commercio e Utilità Sociale resta  una delle ragioni per cui un gruppo di visionari colleghi, tanti anni fa, fondò questa grande e nobile istituzione. Ma pare che il CdA della Fondazione si sia dimenticato i basics.

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