Dentro il quadro: la gita in barca in soggettiva

Tutti i dipinti figurativi sono rappresentazioni della realtà, più o meno fedeli, riprese dal punto di vista del pittore. Quando c’è la prospettiva questa è costruita proprio attorno all’occhio dell’artista ma, più in generale, ogni quadro è una sorta di finestra che presuppone la scelta di una posizione da cui guardare il mondo. Tuttavia la presenza dell’osservatore non è un elemento che salta subito all’occhio.
Poi ci sono scene che più di altre danno la sensazione dell’esistenza fisica di quel punto di osservazione: sono le immagini rese in soggettiva, per usare un termine cinematografico. Non sono distanti, oggettive, ma ci portano …

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Quando la firma dell’artista entra nella scena

Qualche giorno fa sono stata a Palazzo Roverella, Rovigo, a vedere la mostra “Hammorshøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia“. Una bella esposizione, che consiglio soprattutto a chi non conosce ancora questo suggestivo pittore danese (se però avete letto Il mondo alla finestra, lo avete già incontrato…).

Ma non è di lui che volevo parlarvi oggi, ma di un curioso dettaglio che ho notato in un dipinto di Giovanni Bellini (1430-1516) visto alla fine della mostra, che mi ha fatto scattare la curiosità di indagare su questo aspetto.

Si tratta di una Madonna col Bambino del 1470-1480 in cui la firma dell’artista è scritta su un pezzetto di carta che, con perfetto illusionismo, sembra incollato al parapetto di marmo dietro cui stanno i personaggi. “IOANNES BELLINUS” è il nome in latino del pittore, con l’aggiunta della P che sta per pinxit, cioè “ha dipinto”.

Bellini ha usato lo stesso dispositivo anche in altre opere, imitando in alcuni casi le pieghe della carta.

Questo cartiglio trompe-l’œil non è però un semplice vezzo ma una dimostrazione di virtuosismo in un’epoca, come il Rinascimento, nella quale la capacità di imitare la realtà era considerata una delle massime virtù pittoriche. Il cartiglio, inoltre, funge da “certificato di autenticità” ante litteram con cui l’artista rivendicava la paternità dell’opera in modo inequivocabile e permanente.
L’uso del cartiglio, infine, richiama la tradizione delle iscrizioni classiche, in linea con il gusto umanistico dell’età di Bellini. La firma in latino con l’aggiunta di pinxit o faciebat era un’ulteriore affermazione del legame con la cultura classica.

Ma quello che mi interessa di più è il fatto che, grazie al cartiglio, la firma diventa un elemento della composizione. L’autografo dell’artista non viene semplicemente giustapposto all’opera ma entra fisicamente nella scena diventando parte integrante della narrazione pittorica.Questo è ancora più evidente nel suo San Francesco nel deserto del 1480, in cui il cartiglio è impigliato a un ramo secco, in basso a sinistra.

Nello stesso periodo anche Antonello da Messina ha firmato alcune sue opere dentro un cartiglio realistico. Sappiamo che intorno al 1475 i due artisti si conoscono a Venezia, dove il pittore siciliano introdusse la lezione fiamminga della pittura a olio e della resa del dettaglio. Ma non si sa chi dei due abbia firmato per primo dentro un foglietto.
Antonello però aggiungeva anche la data così da permetterci di conoscere l’anno di realizzazione dell’opera (anche se a volte ritoccava il dipinto anni dopo). Nel cartiglio del suo Salvator Mundi, per esempio, c’è scritto all’incirca “Mille simo quatricentessimo sexstage/simo quinto viije Indi Antonellus Messaneus me pinxit”, cioè “Nell’anno 1465, Antonello da Messina mi ha dipinto”.Questo cartiglio non solo autentica l’opera, ma è anche uno stratagemma visivo che contribuisce alla profondità e alla spazialità della composizione, con pieghe e ombre che lo fanno balzare in rilievo sul parapetto.

Come Bellini era veneziano di nascita anche Carlo Crivelli (1435-1495) ma nei suoi dipinti non mostra evidenti influssi di Bellini o di Antonello. La sua pittura esibisce invece un gusto per il decorativismo tardogotico. E tuttavia era un appassionato degli effetti trompe l’oeil che applicava a fiori, frutti e cartigli, apparentemente sporgenti dai quadri, come in questa Madonna col Bambino del 1480. Il cartiglio recita “OPUS KAROLI CRIVELLI VENETI”, cioè “opera del veneto Carlo Crivelli”.
Qui, per altro, di illusionistico non c’è solo il cartiglio ma anche la mosca che, per dimensioni e posizione, non sembra far parte della scena ma pare quasi posata sul dipinto, tanto che un osservatore potrebbe essere tentato di cacciarla via.

Il cartiglio non era nel Quattrocento l’unico modo per firmare un’opera dentro un elemento della scena. Jan van Eyck, per esempio, ha siglato i suoi Coniugi Arnolfini del 1434 dipingendo sulla parete di fondo della stanza le parole “Johannes de Eyck fuit hic” (cioè “Johannes van Eyck è stato qui”).Quella scritta avrebbe anche un’altra valenza e cioè quella di dichiararsi testimone della promessa di matrimonio che avviene tra la coppia in primo piano.

Andrea Mantegna, invece, sceglie un modo particolarmente erudito di firmare il suo primo San Sebastiano, quello del 1457-1459 conservato a Vienna. Qui, sul pilastro a cui è legato il martire, incide in verticale le parole greche “ΤΟ ΕΡΓΟΝ ΤΟΥ ΑΝΔΡΕΟΥ” che significano “Opera di Andrea”.La scelta del greco al posto del latino è piuttosto rara e rivela la volontà del pittore di affermare la propria identità artistica con un richiamo colto all’antichità e il suo legame con l’ambiente umanistico e accademico di Padova, città dove l’opera fu realizzata.

Tuttavia la firma dell’opera – “ambientata” o meno che fosse – non era una pratica diffusa né sempre consentita, specialmente perché l’artista lavorava su commissione per un committente o un mecenate, che deteneva ogni diritto sull’opera. La paternità del dipinto era sancita già dal contratto di commissione, cosa che rendeva superflua la firma dell’artista sull’opera stessa.Inoltre, firmare l’opera poteva essere visto come un atto di vanità o di rottura con la concezione che l’arte fosse al servizio del potere e della committenza, non dell’individualità dell’artista. Questo è il motivo per cui a volte la firma veniva mimetizzata inserendola in modo discreto all’interno della scena.
È mimetizzata, per esempio, la firma di Michelangelo sulla sua Pietà del 1497-1499. Lo scultore la incise in un secondo momento sulla fascia che attraversa il petto della Madonna poiché, davanti a un’opera così straordinaria, alcuni contemporanei la attribuirono a un artista lombardo, non credendo che potesse essere stata concepita da uno scultore così giovane (Michelangelo aveva circa 23 anni). E dunque tracciò la scritta MICHAEL·ANGELUS·BONAROTUS·FLORENT[INUS]·FACIEBA[T], cioè “fatto dal fiorentino Michelangelo Buonarroti”). Quella fu la prima e ultima volta che Michelangelo firmò un’opera.

Un altro interessante esempio di firma ambientata (e camuffata) viene da Perugino e si trova nella sua Madonna in gloria e santi del 1500. La sua collocazione è piuttosto singolare: si trova sulla ruota di legno, simbolo del martirio di Santa Caterina d’Alessandria, posata per terra e recita “PETRUS PERRUSINUS PINXIT” (“Dipinto da Pietro Perugino”).L’artista comunque firmò con il proprio nome solo un numero limitato di opere, prevalentemente pubbliche, nelle quali era importante certificare l’autore per motivi di prestigio e garanzia artistica. 

Verso la fine del Quattrocento la figura del pittore stava emergendo definitivamente come creatore individuale e non più come semplice esecutore anonimo. Si stava compiendo il passaggio dall’artigiano all’intellettuale e la firma testimoniava questo nuovo status dell’artista. Questo è particolarmente evidente nella produzione di Albrecht Dürer, che di questo nuovo ruolo era particolarmente fiero.
Le sue opere, che si tratti di incisioni o dipinti, sono tutte firmate con il suo celebre monogramma formato da una grande A che contiene una piccola D. Ma la cosa interessante è che spesso la sua firma è inserita in modo molto originale all’interno di elementi della scena. Nel Cristo tra i dottori del 1506, è posta su un foglietto che, come un segnalibro, è inserito tra le pagine di un grosso tomo in basso a sinistra.

A maggior vanto accompagnò la firma con un’iscrizione latina che recita “opus quinque dierum“, cioè “opera fatta in cinque giorni”, sottolineando sia la paternità del dipinto sia la rapidità con cui fu eseguito.
Nella Festa del Rosario, dello stesso anno, Dürer ha fatto anche di più: ha inserito il proprio autoritratto in fondo a destra, nella scena sacra, con in mano un cartiglio su cui si legge “EXEGIT QUINQUE MESTRI SPATIO ALBERTUS DURER GERMANUS MDVI” (“Albrecht Dürer, il tedesco, eseguì [l’opera] nello spazio di cinque mesi, 1506”) seguito dal tipico monogramma. Anche in questo caso, dunque, l’artista ha tenuto a precisare di aver completato il dipinto in cinque mesi, un periodo che richiama simbolicamente le cinque decine del rosario. L’iscrizione funge dunque sia da firma sia da dichiarazione della devozione con cui l’artista ha realizzato l’opera.

Nell’Adorazione della Trinità (o Altare di Landauer) dipinta nel 1511 Dürer ripete lo stesso stratagemma con un autoritratto in basso a destra a figura intera, ma in proporzioni ridotte, nell’atto di sorreggere una grande iscrizione. Qui si può leggere “ALBERTUS DURER NORICUS FACIEBAT ANNO A VIRIGINIS PARTU 1511”, cioè “Albrecht Dürer di Norimberga ha fatto [questa opera] nell’anno 1511 dopo il parto della Vergine” (dunque dalla nascita di Cristo).

Gli abiti eleganti e lo sguardo diretto verso l’osservatore rivelano l’orgoglio di Dürer per quegli incarichi e per essere stato colui che ha iniziato il Rinascimento nel nord Europa. Tuttavia normalmente la sua firma era più discreta e spesso nascosta nella scena.In questo San Girolamo nello studio del 1514 ci sono solo data e mongramma su una tavoletta stesa sul pavimento e osservata in prospettiva.

In altre incisioni la firma si trova su rocce, cartigli e insegne, distribuiti in mezzo al paesaggio.

Quella di Dürer resta comunque un’eccezione. La maggior parte degli artisti del primo Cinquecento raramente autografava le opere usando una “firma ambientata”. Ma i pochi casi sono assolutamente degni di nota. Per esempio la firma di Raffaello (RAPHAEL URBINAS) sul bracciale della Fornarina del 1520.Questa iscrizione non starebbe però a certificare la paternità dell’opera bensì il presunto legame sentimentale tra la donna ritratta (Margherita Luti, la figlia di un fornaio) e il pittore stesso.

Più curioso è il caso della firma del ferrarese Dosso Dossi (al secolo Giovanni Francesco di Niccolò Luteri) nel suo San Girolamo del 1520-1525. Si tratta infatti di un piccolo rebus congegnato con una D attraversata da un osso posizionati in basso a destra, sul terreno, a formare il nome dell’artista: D-OSSO.

Ben più macabro è l’autografo che Caravaggio ha nascosto nella sua Decollazione di Giovanni Battista del 1607-1608, unica opera firmata del pittore. Il suo nome di battesimo (si chiamava Michelangelo Merisi) è infatti parzialmente tracciato sul terreno con il sangue che sgorga dalla gola del Battista.La F che precede il nome sarebbe da ricollegarsi alla nomina dell’artista nell’Ordine dei Cavalieri di Malta, dunque si leggerebbe come “f[ra] michelangelo”. Ma la scelta di scrivere il suo nome col sangue potrebbe anche significare il pentimento di Caravaggio per aver ucciso Ranuccio Tomassoni nel 1606, fatto che lo costrinse a fuggire da Roma e a rifugiarsi a Malta.

Tra i dipinti celebri firmati in un elemento della scena va ricordato anche il celebre Ritratto di papa Innocenzo X di Diego Velázquez. Il foglio che il pontefice tiene nella mano sinistra reca la seguente iscrizione: “alla Santà di N.ro Sign.re / Innocentiox/ per Diego de Silva / Velàzsquez de la Camera di S. M.tà Catt.ca”. Questa dedica, scritta in italiano seicentesco, si può tradurre come: “Alla Santità di Nostro Signore Innocenzo X, da Diego de Silva Velázquez, della Camera di Sua Maestà Cattolica”.Sotto questa iscrizione è riportato anche l’anno di esecuzione del dipinto, il 1650. La presenza di questa scritta, che funge da vera e propria firma, non solo attesta l’autore dell’opera ma sottolinea anche il prestigio dell’incarico ricevuto da Velázquez alla corte pontificia.

Col passare del tempo e con il passaggio a un’epoca – l’Ottocento – in cui il pittore inizia a dipingere anche senza commissione, l’abitudine a firmare l’opera diventa più diffusa, dato che la tela partecipa ai Salon e l’artista ha bisogno di promuovere il suo nome. Ma proprio per questo motivo la firma non viene più ambientata e nascosta nell’opera ma diventa una sigla ben visibile apposta sulla tela, spesso in un colore contrastante. Questo è particolarmente evidente nelle tele di Gustave Courbet…

… e in quelle di Claude Monet.

A fronte di questi autori, che siglavano tutte le loro tele, Vincent van Gogh ne firmò solo una trentina usando semplicemente il nome di battesimo. In genere la firma è in un angolo della tela, ma in qualche raro caso è integrata nell’opera, come nel vaso dei girasoli autografato sopra il vaso.

Tuttavia, cercando con attenzione, si trovano ancora alcuni esempi di firma ambientata e nascosta. Uno dei più eclatanti è nella Libertà che guida il popolo, il capolavoro di Eugène Delacroix. Qui, su due pezzi di legno delle barricate, a destra del ragazzo con le pistole, si legge in rosso “Eug. Delacroix” e “1830”.Firmare su quell’elemento può essere interpretato come un modo per legare il proprio nome direttamente all’evento storico e al luogo simbolico della lotta, sottolineando così il coinvolgimento artistico e ideale di Delacroix nella rivoluzione (sembra che anche l’uomo col cilindro sia un suo autoritratto), sebbene il pittore non abbia preso realmente parte alla sommossa.

Un altro esempio ottocentesco è quello del macchiaiolo Telemaco Signorini. In tante sue opere la firma è perfettamente visibile e collocata, come da consuetudine, nell’angolo in basso a destra o a sinistra. Tuttavia è spesso inclinata vistosamente in modo da apparire adagiata sul selciato secondo la prospettiva.

In altri casi sembra dipinta sul muro di una casa.

Tutte queste firme inserite nella scena, dal Quattrocento all’Ottocento, sono per me dei dettagli estremamente affascinanti perché raccontano storie anche attraverso ciò che non si vede immediatamente e rivelano quel profondo intreccio tra arte e società che si è dipanato nei secoli in forme sempre diverse. Ma parlano anche di un dialogo segreto che l’artista intrattiene con l’osservatore, sfidandolo in una piccola caccia al tesoro. Non si tratta dunque di semplici marchi di fabbrica ma di autentiche tracce d’identità che gli artisti hanno voluto lasciare senza alterare l’armonia visiva dell’opera.

Il mondo alla finestra, racconti di finestre nella storia dell’arte

Ho iniziato a collezionare immagini di finestre nei dipinti tanti anni fa. Mi incuriosivano soprattutto le vedute incorniciate dalle ante di una finestra aperta, come un quadro nel quadro. All’inizio non credevo che ne avrei trovate molte, mi sembrava un soggetto piuttosto marginale. Poi, dopo le finestre sul paesaggio, ho trovato decine di finestre dietro scene sacre, finestre accanto alla vita quotidiana, finestre cieche, finestre che riempiono di luce una stanza, finestre circondate da oggetti o completamente spoglie, finestre leziose o silenziose.
Così inizia l’introduzione del mio nuovo libro, Il mondo alla finestra, la storia dell’arte raccontata dalla cornice di una finestra, scritto per BUR Rizzoli.

Quello delle finestre nei dipinti è un tema solo apparentemente minore. La finestra, che sia protagonista o sfondo, è molto di più che la rappresentazione di un’apertura.È un elemento che separa due mondi: ce n’è uno esterno fatto di paesaggi naturali o urbani, di aria, di luce, di sole, di nuvole, di vento, di tepore; e uno interno fatto di persone, di piccoli rituali, di arredi, tende, pavimenti e pareti.Allo stesso tempo unisce quei due universi, travasandoli l’uno nell’altro in modo fluido. La finestra, dunque, è il punto di incontro tra lo spazio umano e la realtà esterna, tra cultura e natura, tra la misura e l’infinito.
Caspar David Friedrich, Donna alla finestra, 1822, olio su tela, cm 73×44, Alte Nationalgalerie, Berlino
Questo contatto avviene fondamentalmente attraverso la visione: la finestra consente all’immagine del reale di presentarsi all’occhio di chi sta dentro.Ma dal momento che si tratta di un ritaglio rettangolare nella parete, diventa anche uno strumento ottico, una cornice che rende unica quella porzione di mondo che inquadra al suo interno. Il risultato è una finestra-quadro, una sorta di dipinto nel dipinto.
Constant Moyaux, Vista di Roma dalla stanza dell’artista a Villa Medici, 1863, acquerello su carta, cm 29,4×22,7, Musée des Beaux-Arts, Valenciennes
Contemporaneamente, questo sfondamento illusionistico della parete aggiunge un’enorme profondità alla scena e lo spazio interno si prolunga fino all’orizzonte.
Andrea Mantegna, Morte della Vergine, 1462 ca., tempera e olio su tavola, cm 54,5×42, Museo del Prado, Madrid
In base alla posizione che la finestra assume nel dipinto – specialmente se laterale – il paesaggio esterno può anche non essere visibile. In questo caso non si manifesta l’effetto “veduta in cornice” e neanche la prospettiva infinita. Ma risulta evidente un’altra caratteristica delle finestre: quella di riversare luce nello spazio interno. Una luce che non è solo funzionale a mostrare quello che c’è dentro la stanza, ma che la rende possibile, la fa esistere, le dà corpo e spazio.
Jan Vermeer, Lattaia, 1660, olio su tela, cm 46×41, Rijksmuseum, Amsterdam
Quel riquadro luminoso, inoltre, è testimone silente di esistenze ordinarie, è il luogo della lettura e della contemplazione, del rammendo e del disegno.
Odoardo Borrani, 26 aprile 1859 a Firenze, 1861, olio su tela, cm 68×59, Statens Museum for Kunst, Copenaghen
È anche luogo di attese e di sorprese. Di gesti che possono essere osservati da dentro la stanza ma anche dall’esterno, come un voyeur che sbircia l’intimità delle case altrui.
Bartolomé Esteban Murillo, Due donne alla finestra, 1655-1660, olio su tela, cm 125,1×104,5, National Gallery of Art, Washington DC
La finestra, infine, è simbolo di libertà, luogo del desiderio, immagine del divino.
Eppure la finestra è sostanzialmente un vuoto, una mancanza di materia. Ma è proprio la sua inesistenza fisica a trasformarla in ricettacolo di senso. Quel varco nello spazio è un catalizzatore di storie e un attivatore dell’immaginazione.
Vilhelm Hammershøi, La danza della polvere al sole, 1900, olio su tela, cm 70×59, Ordrupgaard, Copenaghen
Per non disperdermi tra le centinaia di immagini che ho raccolto, ho scelto di descriverle per piccoli gruppi, in modo da far emergere di volta in volta un aspetto diverso, una sfaccettatura di una delle tante caratteristiche possedute dalle finestre.
Non volevo scrivere però un saggio di storia dell’arte, ma una raccolta di storie, una passeggiata attraverso le immagini e soprattutto tra i segreti che contengono, pittorici o storici, nella vita dell’artista e delle persone raffigurate.
René Magritte, La chiave dei campi, 1936, olio su tela, cm 80×60, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid
Queste, per esempio, è la storia della finestra di Goethe.

L’ordine che tiene assieme le storie è sostanzialmente cronologico, ma ogni racconto è indipendente dagli altri. Dunque si può iniziare la lettura da qualsiasi punto, lasciandosi guidare dalla suggestione delle figure.Si può scegliere tra Prospettive sul paesaggio e Letture illuminate, tra Luce imprigionata e Frammenti di Parigi, tra Davanzali abitati e Suggestioni giapponesi, per un totale di trentaquattro capitoli.
Edward Hopper, Scompartimento C, carrozza 293, 1938, olio su tela, cm 50,8×45,7, Collezione ibm Corporation, Armonk (ny)
La storia dell’arte, quella canonica, alla fine emerge comunque. Perché la differenza tra una finestra del Quattrocento, una del Seicento e una dell’Ottocento, è principalmente stilistica; ma quella storia resta sotto traccia, come fil rouge che tiene assieme persone e luoghi distanti, nel tempo e nello spazio.
I grandi artisti ci sono tutti: Leonardo, Raffaello, Tiziano, Caravaggio, Monet, van Gogh, Matisse, Chagall etc. Ma ci sono anche tanti altri autori meno noti, ma non per questo minori: il danese Vilhelm Hammershøi, la scozzese Alice Boyd, il norvegese Johan Christian Dahl, l’austriaca Marie Egner, giusto per fare qualche nome.  
Giovanni Bellini, Pala di Pesaro, 1475, olio e tempera su tavola, cm 262×240, Musei Civici, Pesaro
Naturalmente è stata indispensabile una selezione: impossibile raccontare tutte le finestre della mia raccolta. E forse non necessario. Al di là dei pezzi “obbligatori” ho scelto quelli che mi davano la possibilità di narrare un nuovo dettaglio, di svelare una piccola scoperta, un nuovo punto di vista.
La storia dell’arte dunque non è né il punto di partenza – perché questi racconti non richiedono di essere esperti di pittura – né il punto di arrivo: quello che si potrà scoprire è una storia tutta umana.
Albrecht Dürer, Autoritratto, 1498, olio su tavola, cm 52×41, Museo del Prado, Madrid
Quel che è certo è che quando si entra in questo mondo alla finestra, in questa moltitudine di sguardi, in questa infinità di significati, nessuna finestra può lasciare più indifferenti. È un piccolo regalo che sa donare l’arte: dare nuovi occhi per guardare in modo nuovo.Anche attraverso un vetro.
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In chiusura voglio ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile la nascita di questo libro. In particolare Lucio Lorenzi, il mio editor, che ha creduto fin dall’inizio in questo progetto e ha seguito il mio lavoro pagina dopo pagina con immensa cura.

Per info e acquisti: sito Rizzoli, Amazon, Ibs, Mondadori Store, laFeltrinelli, Libreria Universitaria

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