Intervista a Doriana Bertolotto

Ho conosciuto Doriana grazie ad un suo progetto “Sento che Posso” trovato su FB. Laureata in psicologia ed esperta in formazione, ci parla di un problema molto sentito quello della dispersione scolastica. Credo che sia importante che nel nostro blog si affrontino tematiche anche scomode e di critica nei confronti del nostro “sistema scuola”.

1.Nella tua variegata esperienza di formatrice ed educatrice, cosa ha inciso di più, le esperienze sul campo o il confronto teorico con realtà diverse?

Lo stimolo è sicuramente partito dall’esperienza sul campo a cui si è aggiunta la disponibilità a rivedere convinzioni e credenze e a studiare e imparare. Quando mi sono avvicinata al mondo della formazione professionale (non aziendale) ci sono arrivata con l’approccio del professionista-insegnante cioè di un esperto in un ambito professionale incaricato di trasmettere delle competenze operative spendibili sul mercato del lavoro a ragazzi e ragazze che si aspettavano di imparare un “mestiere” e che dalla “scuola” (quella del nostro immaginario) erano già fuggiti tante volte e che di quella scuola non volevano sapere più nulla. Erano etichettati come “quelli che non hanno voglia di studiare” … nella migliore delle situazioni… ma molto più spesso come “studenti difficili” perché insofferenti alle regole, spesso ribelli, di difficile gestione… con competenze di base spesso inferiori ai ragazzi della loro età causate da una frequenza scolastica irregolare, difficoltosa… accompagnata da bocciature, assenze ingiustificate ecc. ecc. 

Generalmente la formazione professionale è considerata la scuola degli ultimi, quella di serie B e gli stessi studenti che la frequentano al di là dell’apparente sicurezza che ostentano anche con comportamenti di ribellione sono consapevoli di questa etichetta. In realtà questi ragazzi si portano dietro tutta l’insicurezza che deriva dall’aver collezionato solo insuccessi a scuola in una fase della vita in cui il ruolo che il mondo ti attribuisce è quello di studente. L’incontro con questi ragazzi però è stato folgorante. Se vai al di là dell’atteggiamento provocatorio, dell’apparente rifiuto… scopri menti brillanti, curiosità, capacità… Occupandomi poi di servizi al lavoro e di corsi per adulti ho ritrovato ragazzi che avevano interrotto gli studi divenuti adulti alla prese con un mondo del lavoro che richiedeva loro competenze e titoli che non possedevano pregiudicando nel concreto le loro effettive possibilità…Così ho cominciato a domandarmi cosa non avesse funzionato nel percorso scolastico di quei ragazzi… e ho ricominciato a studiare, a formarmi… per provare a capire quali elementi si potevano mettere in gioco. 

2. Come’è nata l’idea del tuo progetto “sento che posso…”

L’idea è maturata nel corso del tempo quando all’esperienza professionale di formatrice, orientatrice e responsabile dei corsi di un centro di formazione professionale, alla collaborazione con l’Università si è aggiunta la mia continua formazione. La possibilità di studiare e di sperimentare nel quotidiano con diversi interlocutori ha rafforzato la consapevolezza che se vogliamo contribuire alla lotta contro la dispersione scolastica e al malessere legato alla scuola occorre creare un’alleanza sinergica tra i protagonisti: le famiglie, gli studenti e gli insegnanti. E così nel 2020 in piena emergenza Covid ho cominciato a dare un nome a questo progetto ancora in fasce e ad approfittare di questo anno sabbatico per fornire del sostegno gratuito a studenti e famiglie in difficoltà… Con l’idea di definire in modo un po’ più chiaro i contorni concreti delle attività e delle iniziative che con sentocheposso vorrei realizzare con l’aiuto e la collaborazione di numerosi altri professionisti sensibili a queste tematiche. 

3. Il problema scabroso dell’abbandono scolastico si può sconfiggere?

Secondo me si possono fare passi avanti concreti superando innanzitutto la logica del “tutti contro tutti”. 

In questi anni ho avuto la sensazione che nel mondo della scuola si siano formate vere e proprie crepe che coinvolgono tutti gli attori. Gli insegnanti hanno perso il riconoscimento sociale, molti accusano il sistema di assorbire le loro energie più per questioni amministrative che non didattiche, temono i genitori dei loro alunni se non, in alcuni casi, gli alunni stessi, fanno fatica a superare la scuola delle conoscenze per abbracciare quella per competenze… l’ultimo periodo non ha certamente aiutato. I genitori in alcuni casi delegano alla scuola competenze educative che sarebbero loro, in altri casi si intromettono nel lavoro dei docenti o laddove emergano delle difficoltà dei figli accusano la scuola di non essere all’altezza del compito… gli studenti sono immersi spesso in realtà formative che propongono modelli e modalità in cui non si riconoscono, anacronistiche rispetto al mondo in cui vivono e che spesso chiedono loro di focalizzarsi sulla prestazione e di lasciare fuori le emozioni, la vita…

Quando la crepa si fa più profonda a cadere sono i più deboli cioè i ragazzi. Ecco perché credo che lavorando sui tre vertici del triangolo possiamo contribuire a lottare contro questo problema. Con la consapevolezza che il problema dell’abbandono e della dispersione scolastica ha delle ricadute che riguardano tutti noi anche se non direttamente coinvolti.

4. Parlaci del mondo che vorresti….

Come si sarà capito io penso veramente che è attraverso la formazione e l’educazione che possiamo essere comunità e creare una società migliore e credo fermamente che la scuola come luogo di benessere e di crescita possa avere un ruolo determinante per far maturare e condividere i valori che ne stanno alla base… mi riferisco ad una scuola non orientata esclusivamente al risultato, alla certificazione, ma alla scuola inclusiva, agente di cambiamento, che valorizzi la ricchezza della diversità in un clima aperto di scambi, incontri, collegamenti con attori e mondi diversi nella logica della valorizzazione dei talenti e delle risorse di cui ognuno è portatore. Per scuola non intendo solo l’istituzione ma la comunità scuola. Penso infatti che possano essere anche piccole iniziative, piccole realtà e la condivisione e diffusione di buone pratiche a dare avvio a circuiti virtuosi in una logica moltiplicativa e di contagio dagli esiti concreti. Quando ho potuto chiamare un ex-studente che oggi lavora in un’azienda con un ruolo importante e chiedere la sua disponibilità ad accogliere in stage un giovane allievo o quando gli ex-allievi mi mandano la foto del giorno della laurea… ho la certezza che qualcosa si può fare. 

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Vi racconto lo Spinario

È una scultura classica apparentemente ordinaria: un ragazzino seduto su un roccia che si sta togliendo una spina dal piede. Eppure lo Spinario – questo il nome con cui l’opera è conosciuta – ha una storia affascinante e per certi aspetti ancora misteriosa.

Tanto per cominciare: è una statua greca o romana?La versione bronzea conservata ai Musei Capitolini è considerata un’opera eclettica di origine greca perché creata unendo una testa del periodo severo (V sec. a.C.) a un corpo ellenistico del I secolo a.C.Questo spiegherebbe il motivo per cui i capelli non scendono verso il basso, come sarebbe ovvio per un capo chino, ma fluiscono elegantemente ai lati del volto.

Tuttavia lo Spinario era un’iconografia diffusa, tanto che oggi se ne possono osservare diversi esemplari, egualmente antichi, generalmente di età imperiale.

Ma andiamo al soggetto. È un giovane pastore greco? Sì, è possibile. Nell’età ellenistica (IV-I secolo a.C.) la scena di genere, cioè la rappresentazione di episodi ordinari, di momenti di vita quotidiana, era piuttosto comune. In questo caso il gesto del ragazzo non avrebbe alcun significato particolare, sebbene per i Greci la puntura di una spina fosse metafora del dolore procurato dall’innamoramento.
Nella cultura greca però potrebbe anche essere Podaleiros, figlio di Asklepios, guaritore dei piedi.

Presso i Romani invece lo Spinario rappresentava probabilmente Ascanio, il figlio di Enea e l’iniziatore della gens Iulia. Dunque non si tratterebbe di un semplice pastorello ma di una figura fondamentale all’interno del mito fondativo della civiltà romana.

Ma potrebbe essere anche il giovane Marzio, il messaggero che nel IV secolo a.C., nel corso della guerra contro Veio, corse fino a Roma per avvertire dell’imminente attacco da parte degli Etruschi. La spina, che si sarebbe conficcata nel piede durante il percorso, verrà tolta solo a missione ultimata, a sottolineare l’eroismo del giovane e il suo sprezzo del dolore.

Quale che sia l’identità del ragazzo, è indubbio che quel gesto banale di estrarre una spina dal piede abbia ispirato gli artisti per secoli.
È presente in tante chiese romaniche, soprattutto in quelle lungo le vie di pellegrinaggio, sotto forma di bassorilievo nei portali. In questo contesto la spina rappresenta il peccato o l’inganno della ricchezza: il fedele è chiamato quindi a fermare il cammino per liberarsi dal peccato e dalle tentazioni, prima di proseguire. Eccolo nella ghiera del portale della Basilica di Vézelay, in Francia.

Qui è in un rilievo dell’Abbazia di Cluny.

Mentre questo è a Milano, su uno dei portali della Basilica di Sant’Ambrogio.

Lo stesso significato religioso è presente anche nello spinario del mosaico pavimentale del Duomo di Otranto. In questo caso l’uomo che si toglie la spina corrisponde al mese di marzo nella parte dedicata al ciclo dei mesi.

È tutto enormemente più schematico e grezzo, ma il rimando è sempre al nostro antico ‘cavaspino‘. Stessa cosa nel mese di marzo della Fontana Maggiore di Perugia di Nicola e Giovanni Pisano del 1278.

Naturalmente ricompare nel Rinascimento, all’interno dell’ampia operazione di recupero della cultura classica. La prima apparizione si trova nientemeno che nella formella di Filippo Brunelleschi creata nel 1401 per il concorso per la porta Nord del Battistero di Firenze (competizione poi vinta da Lorenzo Ghiberti).Nella scena del Sacrificio di Isacco, nell’angolo in basso a sinistra, si può osservare un uomo seduto, intento a levarsi una spina dal piede.

Non si sa quale copia abbia visto Brunelleschi. Agli Uffizi se ne conserva una versione marmorea ma è certo che lo Spinario capitolino era conosciuto fin dalla fine del XII secolo, quando viene rinvenuto dal viaggiatore inglese Magister Gregorius da Oxford che lo cita nel suo De mirabilibus urbis Romae, anche se la vista dei testicoli che pendono tra le gambe hanno portato lo studioso a ritenere che si trattasse di una raffigurazione di Priapo.

Queste le parole con cui descrive lo Spinario:“De ridiculoso simulachro Priapi. Est etiam aliud aeneum simulacrum, valde ridiculosum, quod Priapum dicunt. Qui dimisso capite velut spinam calcatam educturus de pede, asperam lesionem patientis speciem representat. Cui si demisso capite velut quid agat exploraturus suspexeris, mirae magnitudinis virilia videbis.” 
Cioè: “La buffa statua di Priapo. C’è pure un’altra statua di bronzo, assai buffa, che si dice raffiguri Priapo. Egli, a capo chino, mentre sta per estrarre dal piede una spina appena calpestata, rappresenta l’immagine di chi sopporta un’acuta ferita. Se lo guardi con la testa chinata, come se tu cercassi di distinguere bene cosa vuol fare, potrai vedere le sue parti genitali di una misura notevole“.

Nel frattempo, nel 1471, papa Sisto IV sposta dal Laterano al Campidoglio la sua collezione di marmi e bronzi antichi per farne dono al popolo romano. Tra questi anche lo Spinario. Ed è qui che l’avrebbe visto Luca Signorelli, un altro artista rinascimentale, mentre era a Roma per disegnare statue e rovine. Affascinato da quel personaggio lo inserisce nelle scene sacre più diverse come un tondo con Madonna e Bambino del 1492 e un Battesimo di Cristo del 1508.

Un altro cavaspino è presente in un frammento della Pala Bichi, un’opera smembrata risalente al 1488-1489. Come quello del tondo, l’uomo in realtà non sta togliendo la spina ma sta compiendo l’operazione precedente e cioè togliersi la scarpa.

Non abbiamo più i disegni di Signorelli ma possiamo vedere simili studi sullo Spinario negli schizzi di Jan Gossaert (noto come Mabuse), il primo pittore fiammingo ad andare a Roma.Siamo nel 1509, l’epoca di papa Giulio II e dei grandi cantieri del Vaticano. Il corpo è più muscoloso dell’originale, ma è notevole il fatto che persino un artista del nord Europa, proveniente da tutt’altra cultura, sia stato attratto da quel bronzo.

Poco dopo cominciano a circolare le prime incisioni dello Spinario capitolino, come quella di Marco Dente del 1515-1527 con una vista laterale della statua (che improvvisamente ha sviluppato una schiena michelangiolesca).

… o quella più tarda di Diana Scultori Ghisi, datata 1581, conosciuta anche col titolo “Schiavo che rimuove una spina dal piede”. Grazie a queste opere, riprodotte in gran numero, la fama dello Spinario si diffonde a macchia d’olio.

Tante sono anche le copie tridimensionali della stessa epoca, come questa in avorio, di un autore tedesco.

La posa dello Spinario assume una tale forza visiva che gli artisti cominciano ad attribuirla anche a Venere. Eccola in due incisioni cinquecentesche mentre si asciuga un piede dopo il bagno e mentre si toglie una spina (secondo il mito, dalle gocce del suo sangue, cadute su una rosa bianca, nasceranno le rose rosse).

Con il Ritratto del cardinale Antonio Pucci di Pier Francesco Foschi del 1540, facciamo un salto di qualità. Lo Spinario infatti non è presente come iconografia, come gesto applicato a un personaggio, ma come citazione dell’opera originale, presente in miniatura sul tavolo del porporato a simboleggiarne la vasta cultura.

Lo Spinario non smette di affascinare gli artisti neanche in età barocca. Ecco gli schizzi di Peter Paul Rubens del 1608 in cui il ragazzo appare simile alla versione capitolina (ma con i capelli che scendono verso il basso) e anche con una posa differente, voltato a guardare l’osservatore mentre asciuga il piede con una pezza.

L’olandese Pieter Claesz, invece, lo inserisce in una natura morta del 1628. Stavolta si tratta di un gesso di grosse dimensioni posato su un tavolo assieme a tanti altri oggetti, a creare una splendida vanitas.Ci sono gli strumenti dell’artista: lo Spinario, la bacchetta reggipolso, la tavolozza con i pennelli e il quaderno dei disegni.  Ci sono strumenti musicali posati per terra, tra i quali un violino e un liuto capovolto. E poi libri, un’armatura e un bellissimo calice römer.Ma se tutto questo simboleggia la vita attiva del pittore, ecco che intervengono alcuni oggetti che alludono alla caducità della gloria e della vita stessa: il teschio, la lucerna appena spenta e l’orologio.

Nel passaggio al secolo successivo e con la crescita dell’interesse verso l’arte classica, lo Spinario non può che rivivere un nuovo momento di gloria. Il primo che lo ripropone è Giovanni Paolo Pannini nella sua celebre Galleria di vedute di Roma antica del 1758.Si tratta di una sorta di museo immaginario che raccoglie i monumenti romani in forma di dipinti e le sculture più famose: una sorta di raccolta di souvenir classici ideata per il conte Étienne François de Choiseul. Ovviamente non poteva mancare lo Spinario, collocato su un piedistallo nell’angolo in basso a destra.

Nel dipinto dell’inglese Johan Zoffany del 1772 che raffigura Gli accademici della Royal Academy, lo Spinario è citato invece nella posa del modello sulla destra, a suggerire l’importanza della cultura classica nella formazione degli artisti.

Pochi anni dopo, esattamente nel 1785, lo Spinario capitolino è raffigurato con grande precisione in un’incisione di Francesco Piranesi, figlio di Giovanni Battista. Nel testo che accompagna la stampa il ragazzo è presentato come un atleta vittorioso che potrebbe essersi punto il piede nel corso di una competizione.

Una statua così attraente non poteva che far venire l’acquolina in bocca anche a Napoleone. E così lo Spinario fu portato nel 1798 a Parigi, per arricchire il Museo Universale sognato dal futuro imperatore. Per fortuna, grazie all’interessamento di Antonio Canova, nel 1815 il bronzo è ritornato a Roma.
Da quel momento farà parte integrante dello studio di qualsiasi aspirante artista, tanto che nel 1839 ne uscirà pure una versione ‘a raggi X‘.

Non si tratta di un’immagine satirica ma di una tavola tratta da “Elementi di anatomia fisiologica applicata alle belle arti figurative” di Francesco Bertinatti (anatomista) e Mecco Leone (artista), un genere a metà strada tra scienza e arte diffuso nella metà del XIX secolo. Dello Spinario hanno realizzato addirittura due vedute, in modo da mostrare al meglio ogni articolazione.

Nel frattempo era diventato talmente comune da essere citato anche in tanti quadretti di genere.

Una delle ultime apparizioni del giovane cavaspino è di un insospettabile Gustav Klimt. Nella sua Allegoria della scultura del 1889, la scultura è personificata da una figura femminile nuda con gioielli vagamente grecizzanti. Dietro di lei statue e rilievi classici in marmo, mentre accanto spicca il piccolo bronzo, visto di fronte. Un omaggio allo Spinario capitolino di grandissima raffinatezza.

Sono pochissimi i casi in cui un personaggio del mondo antico riesce ad attraversare senza soluzione di continuità tutta la storia dell’arte. L’appartenenza a una civiltà pagana tendeva, infatti, a far scomparire questi soggetti nelle epoche in cui l’arte era più orientata verso i temi sacri, specialmente nel Medioevo.  Abbiamo osservato questo fenomeno, tra i tanti, con le Grazie, la Medusa.
Ma lo Spinario fa eccezione grazie forse alla giovane età e alla semplicità dell’atto che sta compiendo, un gesto che si è ammantato di volta in volta di nuovi significati, anche opposti, passando dall’allegoria di stoicismo al simbolo di fragilità e inesperienza.

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