“Il figlio dell'altra”, un film su Israeliani e Palestinesi da vedere e da proporre in classe

Il tema è di stringente attualità: il conflitto tra israeliani e palestinesi; difatti proprio in questi giorni sono ripresi i bombardamenti di Hamas e le repressioni israeliane; insomma, una questione internazionale che sembra non trovare un approdo pacifico e che continua a mietere vittime, soprattutto tra i civili.In tutto questo c’è un film che – almeno i film lo fanno! – entra nelle anime delle persone e ci racconta come le differenze possono trovare un punto di incontro; come, quando le grandi questioni lasciano spazio alle esistenze delle persone, le vie d’uscita sono possibili. La questione Israeliana e palestinese, insomma, vista non dai …

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La rabbia serva di Hamas. Un catalogo degli “utili idioti” al servizio dei terroristi

Dai collettivi studenteschi pro Pal. ai rettori che si arrendono alle loro richieste. Da quelli che fischiano gli ebrei in visita ad Auschwitz ai cattivi maestri. E poi le proteste mancate e le atrocità non riconosciute. Dieci figure sulla scena antisionista antisemita (più una perla di speranza e di coraggio)

Un arcipelago con dieci isolotti pro Pal., cripto-filo-Hamas, filo Hamas senza cripto. Dieci figure sulla scena antisionista antisemita. Dieci categorie molto agguerrite, e molto sguarnite di cultura e informazioni. Qualcuno, rozzamente, avrebbe detto dieci categorie di “utili idioti”, consapevoli e non consapevoli, al servizio di Hamas. Dieci variazioni sullo stesso tema. Il decathlon dell’antisionismo urlante. Il catalogo è questo. (Più una perla di speranza e di coraggio)   

1) La capra collettiva

Sono il 99,9 per cento dei collettivi, a essere generosi: tutte capre senza speranza. Ignoranti assoluti. Non sanno nulla, blaterano, ululano, eruttano, si esprimono con suoni gutturali ritmati su slogan di desolante inconsistenza. Gridano “Palestine will be free from the river to the sea”, ma Daniela Santus, che è puntuale e sin quasi pignola nell’analisi storica, ha scoperto attraverso un sondaggio che se chiedi loro quale sia questo benedetto fiume e quale questo benedetto mare, le risposte sembrano, pressoché la totalità, delle tristi parodie dello studente asino. C’è chi ha detto: “Dal fiume Eufrate al mar Rosso”. Altri: “Dal fiume Nilo al Mar Caspio”. Altri ancora: “Dal fiume Tigri al Mar Rosso”, ma anche: “Dal fiume Nilo al Mar Rosso”. Qualcuno, tra gli italiani, ha voluto esagerare e mostrarsi capra da premio Oscar: “Dal fiume Alcantara al mar Mediterraneo” o addirittura (e non ce ne eravamo neanche accorti) “dal fiume Tevere al mar Mediterraneo”. Gridano fino all’afonia che da decenni la striscia di Gaza è occupata da Israele. Ma se provi a riferire che no, guardate, scusate il disturbo, tuttavia grazie all’odiato Sharon tutti gli ebrei di Israele se ne sono andati da Gaza dal 2005 e dal 2006 Hamas esercita un potere dispotico assoluto dopo aver scaraventato dai tetti i rivali dell’Autorità nazionale palestinese e aver speso tutti i soldi in armi, missili e tunnel blindati anziché in cibo e ospedali per i civili, ti guardano sgomenti per tanta improntitudine dell’arrogante sionista. Non azzeccano una data. Pendono dalle labbra di notori pro Hamas come Francesca Albanese, degna rappresentante delle inutili e dannose Nazioni Unite. Provate a chiedergli chi sia stato il fondatore del sionismo Theodor Herzl e ne avrete in cambio solo un’occhiata offuscata dall’ebetudine, incapaci come sono di sostenere qualunque tesi o argomento. Fossi un leader del ’68 mi offenderei con chi paragona il ‘68 con questa Intifada de noantri: loro almeno erano brillanti e persino informati. Questi sembrano comparse di Cinecittà a cui viene chiesto di recitare la parte della folla ululante e senza un briciolo di cultura. Ci riescono benissimo. E si divertono pure, con il miraggio delle tende nei cortili universitari.

  

2) Rettori poco retti

Un capitolo a parte merita la categoria dei Rettori italiani, di alcuni Rettori italiani per meglio dire. A differenza di alcuni loro omologhi delle università americane, che si sono ribellati di fronte all’affollarsi violento degli accampamenti antisemiti, questa frazione di Rettori italiani ha fatto capire con evidenza plastica (ci sono i video: quindi se ci sono i video è dogmaticamente vero) in che stato versano le università italiane. Quello di Torino, insieme al Senato accademico con l’eccezione di un’unica eroica dissidente, ha firmato la resa e l’atto di sottomissione mentre i collettivi ululanti reclamavano il boicottaggio delle università israeliane: non fosse una tragedia sembrava una parodia sarcastica dei Monty Python delle Guardie rosse e dei professori umiliati nella Cina della Rivoluzione culturale con le orecchie d’asino e gli sputi e la bastonate dei bravi ragazzi. Per rendere la scelta pateticamente più accettabile si sono inventati a Torino la categoria farlocca del “dual use”, cioè delle ricerche che potrebbero avere ricadute militari, provocando la sollevazione sconcertata di tutti i ricercatori scientifici che fanno ricerca scientifica vera. A Pisa il Rettore ha boicottato ma non ha boicottato, ha detto sì ma anche no, ma insomma doveva dare un segnale di ascolto ai bravi ragazzi che gridavano “from the river to the sea”. Quello di Milano (che poi sarà insolentito dagli insaziabili pro Pal) ha compiuto un capolavoro: per impedire un convegno su Israele previsto nelle aule dell’Università si è inventato un allarme della Digos in cui si diceva che quel convegno avrebbe provocato non un rischio, e neanche un rischio abbastanza alto, ma proprio un “altissimo rischio”. Dopo due giorni la Digos ha smentito di aver intrecciato un dialogo con il Rettore sull’“altissimo rischio” contenuto nell’annunciata manifestazione dei “sionisti”, ma nel frattempo la decisione del Rettore di non rilasciare il permesso e di traslocare il convegno nello spazio virtuale del web era stata già giustamente rifiutata dagli organizzatori. E in Italia ancora non si è materializzato lo spettro di uno dei leader degli accampamenti antisemiti americani che ha esplicitamente dichiarato: dovreste considerarvi fortunati se abbiamo deciso di non ammazzare tutti i “sionisti” (gli ebrei) del campus.

P.S: non tutti i Rettori come quelli di Torino e di Pisa hanno compiuto atto di sottomissione. Quelli di Bologna, Bari e Padova (per ora) hanno tenuto alto l’onore delle università libere: resistere, resistere, resistere.

  

     

3) Carogne purissime

Quelli che fischiano gli ebrei in visita ad Auschwitz sventolando le bandiere pro Pal. e gridando slogan antisionisti all’indirizzo dei parenti dei sopravvissuti della Shoah. Quelli che espongono cartelli con Anna Frank munita di kefiah. Quelli che vogliono cacciare con la forza la cantante israeliana dall’Eurovision, con Greta, che non sa niente di niente, a far da capopopolo dopo essere passata dalla difesa delle balene a quella del capo Hamas Sinwar, la belva che ama seppellire i corpi smembrati dei “traditori”. A Bologna, mentre preparavano le tende per il campeggio Hamas, si è sentita una voce cantare, in arabo: “Gli uomini a Gaza continuano a scavare, torneranno a casa con buste piene di parti del corpo” (i corpi degli ostaggi del 7 ottobre, naturalmente). Quelli che alla Columbia University hanno circondato uno studente ebreo, minacciandolo con slogan feroci. Quelli che in tutta Europa attaccano le sinagoghe, senza che nessuno sollevi nemmeno un abbozzo di protesta, o un briciolo di indignazione, visto che solitamente l’indignazione è una merce così a buon mercato. Quelli che a Manhattan convincono con nodosi, molto nodosi argomenti un teatro a interrompere la rappresentazione di uno spettacolo tratto da uno scritto di Amos Oz, perché bisogna boicottare gli scrittori ebrei e israeliani, ancorché defunti. Quelli che in Australia issano un cartello con su scritto: “Gas the Jews” (ma neanche un comunicato di sia pur temperata dissociazione, nemmeno uno). Poi c’è quella signora che ha avuto a che fare con non si capisce bene quale carriera diplomatica in Italia (ma come fanno a sceglierli così?) e che senza pudore ha insolentito grevemente Liliana Segre, bambina sopravvissuta ad Auschwitz, e non in un giorno qualunque, ma esattamente nel Giorno della memoria, e tuttavia i custodi della memoria resi smemorati dal 7 ottobre hanno fatto passare la cosa come un eccesso di reazione. Quelli che hanno impedito a una ragazza ebrea di entrare nell’edificio di Sciences Po. Quelli che hanno impedito nelle aule universitarie di Roma e di Napoli di parlare a due giornalisti ebrei. Cioè “sionisti”, insomma ebrei.

  

4) Oscar dell’abiezione

L’Oscar dell’abiezione antisemita va, nonostante la fitta concorrenza, a Roger Waters, ottant’anni, ex Pink Floyd: “Hamas era giustificata a resistere all’occupazione del 1967”; “gli israeliani inventano storie, probabilmente i primi 400 israeliani uccisi erano militari e quello non è un crimine di guerra. L’intera cosa è stata poi gonfiata da Israele con l’invenzione di storie su bambini decapitati”.

   

5) Non una di meno, una ti meno

Anche se non si arriva al negazionismo dell’unico satiro al mondo che non fa ridere, cioè il simpatico Daniele Luttazzi che proclama la teoria secondo cui i “presunti” stupri del 7 ottobre sarebbero soltanto miserabili fake news, le donne del movimento autonominatosi “Non una di meno” hanno già decretato che le donne israeliane (ebree ma anche arabe) violentate dai predoni di Hamas sono donne di serie B. Non meritevoli di solidarietà, da ignorare, cancellare, inghiottire nel nulla mentre si esalta la resistenza degli stupratori in lotta contro l’oppressore sionista. Hanno fatto un corteo contro il femminicidio, ma sul femminicidio di massa del 7 ottobre nemmeno una parola, nemmeno un accenno, nemmeno un fiato e anzi a Firenze hanno cacciato con la forza dal corteo una ragazza che voleva ricordare quella strage di donne. C’è chi si stupisce, ma non c’è da stupirsi: loro stanno dalla parte degli jihadisti, e chi se ne importa delle donne ebree. Da loro neanche una parola, un accenno, un fiato persino sulle donne afghane che i talebani di nuovo al potere hanno nuovamente segregato, picchiandole, impedendo di studiare alle ragazze e alle bambine, imponendo alle donne oppresse con una crudeltà indicibile di indossare il burka dell’umiliazione e con la minaccia della fustigazione pubblica se solo osassero uscire di casa senza un maschio barbuto al comando. Non una parola, un alito, un accenno anche di sfuggita sulle donne iraniane che si fanno ammazzare sulle strade di Teheran per rivendicare il diritto di non seppellirsi nel buio del velo obbligatorio e insomma per il diritto di essere libere. Sì, il taglio di una ciocca di capelli ogni tanto da modelle e attrici non si nega a nessuno. Ma quando si scopre che Nika Shakarami, una ragazzina sedicenne nell’Iran degli ayatollah, è stata violentata dagli energumeni della “polizia morale” prima di essere assassinata nel mattatoio allestito dal regime è come se la notizia non esistesse. E nemmeno un pensiero, non uno di meno, di sapere come vengono trattate le donne dai tagliagole di Gaza, senza il barlume di una libertà, di una dignità pubblicamente riconosciuta, come accade invece nelle fetenti terre dell’“entità sionista”. Ma non c’è verso, non si fanno convincere. Sbadigliano. Eludono. Fanno finta di niente. Proponiamo una manifestazione di “Non una di meno” davanti all’ambasciata iraniana? Ma non esiste proprio, come si dice a Roma con la solita indolenza cinica e un po’ stracciona: quella non è nemmeno la “cultura patriarcale” che opprime le donne dell’occidente. Anzi, la notte in cui l’Iran ha attaccato Israele con missili e droni, da quelle parti non una di più ha evitato di tifare per i bombardieri di Teheran. E continueranno, eccome se continueranno.

6) Lo slogan più trucibaldo

Quello gridato dagli accampati di Harvard, un tempio della cultura e del sapere oggi diventato covo di nefandezze antisemite, e che recita così, testuale: “Goodbye Nazis, go back to Poland”. Gli ebrei che devono tornare in Polonia, cacciati dalla Palestina. Che accadde agli ebrei in Polonia? Chiedere dettagli ai professori universitari del Boycott Israele.

  

    

7) Profumo coloniale

Quelli che dicono che il sionismo è stato un progetto infame di infami e ricchi colonialisti venuti in Palestina per opprimere con le loro potenti armi e i loro imbattibili eserciti i palestinesi. A loro si potrebbe dedicare una citazione tratta da “Una storia di amore e di tenebra” di Amos Oz, alle pagine 160-161 dell’edizione italiana Feltrinelli, per la traduzione di Elena Loewenthal: a Gerusalemme, nel 1934, “nei cortili sorsero magazzini, piccoli capanni, tetti di lamiera, baracche montate alla bell’e meglio con assi ricavate dai bauli in cui i residenti avevano trasportato le proprie cose, come in virtù dell’ambizione di ricreare in questo posto copia perfetta dei borghi d’origine, in Polonia e Ucraina, in Ungheria e Lituania. (…) E intanto a Kerem Abraham abitavano piccoli impiegati dell’Agenzia ebraica, insegnanti, infermiere, scrittori, autisti, segretari, rivoluzionari, traduttori, commessi, pensatori, scribacchini, cassieri di banca o di cinema, ideologi, modesti negozianti, anziani soli che tiravano avanti con i loro risparmi in miniatura”. Colonialisti furiosi, davvero. Privilegiati come le infermiere e gli scribacchini che erano scappati dai pogrom: “Tutti cercavano di credere che i tempi brutti sarebbero passati, che lo stato ebraico sarebbe sorto quanto prima e tutto sarebbe cambiato in meglio: già, la misura delle disgrazie era ormai colma”. Disgrazie colonialiste. Pogrom antiebraici colonialisti.

  

8) Il fantasma dell’illibertà

Dovunque nel mondo c’è una tirannia, una qualunque forma di illibertà, lì senza alcun dubbio troverai Mein Kampus (copyright Giuliano Ferrara). E’ una legge inderogabile, che non conosce eccezioni. Se c’è da protestare per qualche dissidente cinese sparito nelle segrete di Pechino, lì certamente non troverai nessuno dei chiassosi collettivi. Se si è sgomenti per la sorte della popolazione musulmana degli Uiguri in Cina, questo sentimento non sarà condiviso da nessuno dei musulmani jhadisti che tanto attraggono il Movimento. Così attenti a quel che accade a Gaza, eppure non muoveranno mai un dito, men che meno alzeranno le loro possenti voci, per deplorare i bombardamenti dell’amico Putin su un ospedale pediatrico di Mariupol, per la strage di Bucha, per le pizzerie di Kramatorsk distrutte dai missili con tutti i civili bruciati dai potenti denazificatori di Mosca, per i condomini colpiti a Kyiv durante la notte per fare quanti più morti possibili, per il terrore sparso sulla cittadinanza di Odessa. Per la sorte di Navalny, poi, il silenzio è assoluto, senza increspature, ghiacciato come la Siberia in cui Putin aveva spedito il più famoso dei dissidenti. Non fanno rumore i dissidenti avvelenati, il ricordo di Grozny rasa al suolo, le migliaia di bambini ammazzati ad Aleppo e nel resto della Siria dal duo di tagliagole formato da Assad e Putin. Niente, sempre amici. E neanche un brivido solidale con i ragazzi di Tbilisi che portano le bandiere della Georgia e dell’Europa mentre i filo-russi vorrebbero bastonarli bestialmente come “agenti” di “influenze straniere”, cioè con la testa e con il cuore rivolto all’odiato occidente scomunicato dal Patriarca Kirill, la vera guida spirituale dei movimenti oscurantisti che si agitano nelle piazze e nelle università del mondo democratico. Lì il principio di autodeterminazione dei popoli non viene nemmeno menzionato. Quei coetanei della Georgia vogliono la libertà? Ma i seguaci dell’illibertà non hanno nulla da spartire con loro.

  

     

9) Cattivi maestrini

E poi ci sono gli insegnanti, i docenti, i professori, frutto dello sfascio della scuola, in tutta evidenza. Anche Jonathan Lethem, oltre a essere uno scrittore, è un professore. Non è figlio dello sfascio della scuola italiana, ma la superficialità del corpo insegnante oramai senza argini non conosce confine, barriera, frontiera, lingua. E Lethem questo insegna ai suoi allievi a proposito di Israele e antisemitismo: “Si tratta di combattere un governo sanguinario e corrotto. E’ una coerente e persistente critica rivolta allo Stato di Israele e alla sua politica di apartheid”. Ecco la parola chiave che unisce tutti i cattivi maestrini: apartheid. Anche gli insegnanti italiani, firmando il manifesto per il boicottaggio di Israele, fanno ricorso a quella parola: apartheid. Hanno scritto che i palestinesi combattono non contro il governo di Israele, ma contro 75 anni di oppressione, cioè contro lo Stato di Israele in quanto tale, secondo una risoluzione dell’Onu in cui si stabiliva il principio del “due popoli, due stati” (“due stati democratici”, specificava con la sua consueta pignoleria sanamente iper-liberale Marco Pannella). Poi in un altro manifesto è venuta fuori la cifra di 70 anni, che è una cifra un po’ casuale, tanto per dire un numero, tanto per sparacchiare una data così per dire, visto che non si ricorda negli annali della storia qualcosa di totalmente decisivo avvenuto nel 1954. Ma i professori italiani anti Israele e filo Intifada non arretrano di un millimetro: apartheid deve essere e apartheid sarà. E i parlamentari arabi alla Knesset? Non contano: apartheid. E la nuova Rettrice araba dell’Università di Haifa Mona Maroun? Non conta: apartheid. E il partito Raàm, arabo-israeliano, che nel 2021 aveva un suo esponente nel governo, addirittura viceministro degli Interni? Non conta: apartheid. E le donne arabe israeliano stuprate il 7 ottobre? Non conta: apartheid. Non contano i dati di fatto, le circostanze, l’inverosimiglianza di un popolo segregato che pure esprime un ministro del governo. Conta solo il mantra, la formuletta narcotizzante da ripetere all’infinito senza interlocuzione, senza confronto, senza amore per la cultura e per la storia. Come nel caso dell’insegnante di Torino, che dopo aver declamato una lezioncina contro l’orrore di Israele che opprime da sempre i palestinesi, ha preteso dai suoi sfortunati studenti un temino sull’argomento: con quale libertà per i poveretti costretti a ripetere le fesserie dell’insegnante per non essere bocciati è facile immaginare.

  

10) Intifada (anti)gay

Ecco il risultato di una ricerca indipendente pubblicata in Italia da Fanpage: “A Gaza essere omosessuale è un reato punibile con la morte. E’ infatti in vigore l’ordinanza del codice penale inglese del 1936, che criminalizza i rapporti omosessuali tra uomini adulti anche se consenzienti”. E ancora, e soprattutto: “Nel 2016, il braccio armato del gruppo militante palestinese Hamas ha giustiziato Mahmoud Ishtiwi, uno dei principali comandanti del gruppo, con l’accusa di sesso gay e furto. Molti palestinesi Lgbtq+ hanno cercato rifugio in Israele. Secondo l’avvocato Shaul Gannon, dell’organizzazione Lgbtq+ israeliana The Aguda – Israel’s LGBT Task Force- circa 2.000 omosessuali palestinesi vivono a Tel Aviv. Secondo Pew Research, il 93 per cento della popolazione palestinese è completamente contraria all’omosessualità, una percentuale tra le più alte al mondo. La Palestina è stata anche nominata da Forbes come uno dei paesi peggiori al mondo per i viaggiatori Lgbtq+”. Ma niente, la sorte degli omosessuali scaraventati dalle finestre nel regime dispotico di Hamas a Gaza non è in cima alle preoccupazioni delle truppe che nelle metropoli occidentali sventolano le bandiere dell’orgoglio gay insieme a quella dei predoni asserragliati nei tunnel di Gaza. Se avessero voglia di leggere (ma ne dubito) e avessero il coraggio di affrontare una storia che scardina tutte lo loro certezze, i gay occidentali che senza pudore e senza dignità buttano nella spazzatura i gay palestinesi trucidati potrebbero chinarsi sulle pagine del romanzo di Cinzia Leone, “Vieni tu giorno nella notte”, per comprendere il dramma, la tragedia degli omosessuali della Palestina perseguitati dal regime, ripudiati dalle loro famiglie, costretti a fuggire in Israele dove, tra le mille contraddizioni di qualunque società in bilico tra tradizione e modernità, si è tuttavia liberi di amare. O ricordare la storia di Ishtiwi, già dirigente di Hamas, scoperto come omosessuale nel 2016, malmenato e poi torturato, che scrisse in ceppi: “Mi hanno quasi ucciso”. Ma forse, diranno gli acuti protagonisti delle piazze d’Occidente, era una spia sionista che si è inventato tutto.

Però…

Poi ci sarebbe la categoria dei coraggiosi, e che non avrebbero nessun interesse, per mestiere e vocazione, a mettersi contro l’ondata mainstream post 7 ottobre. Uno per tutti: Vasco Rossi, che in un’intervista al Corriere della Sera ha detto: “’Free Palestine’ è un bello slogan, ma se implica la distruzione dello Stato di Israele, allora sarebbe più onesto dirlo. E alla distruzione di Israele io mi ribello. Leggo cose superficiali, in cui non mi riconosco. Mi hanno dato del sionista, ma io non so neppure cosa voglia dire. So che se mettessi il like a ‘Palestina libera’ mi amerebbero tutti; ma io non sono fatto così”. Menomale, grande Vasco.  

La gestione del conflitto

La gestione del conflitto

di Laura Bertocchi e Mario Maviglia

Premessa

In senso generale possiamo intendere il conflitto come “una situazione sociale in cui due o più individui apertamente si oppongono l’uno all’altro”[1] e questa opposizione può riguardare “pensieri, convincimenti, tendenze, desideri ecc. fra loro differenti.”[2] Da un punto di vista psicoevolutivo i comportamenti conflittuali si manifestano fin dalla più tenera età e costituiscono una tappa fondamentale nel processo di individuazione e di costruzione dell’identità del bambino (oltre che di sviluppo della sua autonomia). “È attraverso l’opposizione con l’altro [in modo particolare con le figure genitoriali] che il bambino sperimenta e afferma la sua indipendenza e individualità; una strategia questa che fa la sua prima ed emblematica comparsa nella crisi di opposizione dei 2 anni, in cui il bambino ricerca sistematicamente il conflitto con l’adulto.”[3] È interessante notare che questa crisi di opposizione ricompare in modo accentuato anche nella fase adolescenziale in cui la ragazza e il ragazzo sono alle prese con la ridefinizione della propria identità in un rapporto di ambivalenza e contrapposizione con le figure adulte di riferimento.

            Già da queste annotazioni si può notare che il conflitto è insito nella natura umana sia in senso intrapsichico (come quando una persona è “influenzata simultaneamente da due forze opposte di intensità approssimativamente uguale”[4], oppure nel caso della “dissonanza cognitiva” elaborata da Festinger[5]), sia in senso interpersonale come preannunciato sopra. Il problema, dunque, non dovrebbe essere quello di accettarne l’esistenza, ma di trovare forme adeguate per affrontarlo in modo positivo. In realtà spesso, in campo educativo, si tende a disconoscere la dimensione conflittuale per un malinteso senso dell’”essere buoni”. Sia in seno alla famiglia che all’interno della classe una delle frasi più ricorrenti delle figure adulte è “non bisogna litigare” ed anzi chi si rende responsabile di un conflitto viene inconsapevolmente sollecitato a sentirsi in colpa. Eppure, analizzando la letteratura specifica del settore si può facilmente scoprire che vi sono vari modi per affrontare il conflitto. S. Bonino[6] individua almeno quattro forme diverse di affrontamento del conflitto:

il primo – molto diffuso – è quello di evitarlo o sottacerlo. Vi possono essere diverse ragioni che portano a questa forma di comportamento: la paura di rimanere soli o di non essere in grado di affrontare il conflitto; il timore di non piacere a tutti; la paura di non riuscire a controllare la propria aggressività in una situazione conflittuale o di subire quella dell’interlocutore. Va però detto che sia in famiglia che a scuola l’espressione del conflitto dovrebbe costituire l’occasione per ragionare proprio sul conflitto e sulle possibilità di esplicitarlo in una dimensione sostenibile per tutti.

La seconda forma è l’inibizione, che si determina di solito quando il rapporto tra i contendenti è asimmetrico per ragioni di ruolo o status (insegnante e studenti, o genitori e figli) o comunque quando l’altro viene percepito come più forte, come nel caso di fratelli di diversa età.

Una terza forma riguarda l’aggressività che costituisce una modalità di soluzione del conflitto a proprio favore. Va sottolineato che ricerche empiriche hanno messo in luce che “il ricorso all’aggressività nel conflitto interpersonale è sollecitato dalla partecipazione a contesti competitivi, che portano a un’escalation del problema, oltre la causa originale del conflitto.”[7] L’aggressività può anche essere la risposta ad una situazione in cui il soggetto sperimenta continuamente la difficoltà a intercettare il consenso degli altri; questo determina una sorta di circolo perverso in quanto il soggetto “rifiutato” tende a mettere in atto condotte sempre più aggressive che però determinano negli altri un comportamento ancor più ostile.

Infine, una quarta forma riguarda la negoziazione, ossia la ricerca di una soluzione per quanto possibile condivisa e tale da non scontentare nessuno. L’affermazione di una modalità negoziale è influenzata da almeno tre fattori: da una parte lo sviluppo del linguaggio e delle capacità espressive che pone il bambino/a o lo studente/ssa nella condizione di poter esprimere e sostenere in modo più adeguato le proprie ragioni o di richiedere spiegazioni a quelle degli altri; dall’altra lo sviluppo delle capacità empatiche e quindi la possibilità di tener conto del punto di vista dell’altro soprattutto all’interno di un possibile conflitto; e infine un assetto cooperativo dell’organizzazione sollecita fortemente la ricerca di soluzioni condivise.

Le ragioni del conflitto

Ma a cosa serve il conflitto? Abbiamo già visto che nel processo evolutivo serve per costruire la propria identità, attraverso il meccanismo di individuazione e differenziazione dall’altro.

I conflitti, soprattutto tra bambini o ragazzi, sono spesso fonte di forte disagio nell’adulto che si trova a doverli gestire. In classe tale disagio è per certi aspetti comprensibile, perché può far sentire l’insegnante impreparato e impotente di fronte a bambini e ragazzi che manifestano comportamenti conflittuali che spesso diventano aggressivi, nelle parole e, talvolta, nei gesti.

Per affrontare queste situazioni serve lucidità ed è indispensabile, innanzitutto, eliminare il giudizio moralistico[8]. Infatti, come abbiamo precisato in precedenza, il conflitto non ha un senso esclusivamente negativo, ma è un aspetto imprescindibile di una sana interazione sociale.

Come può allora l’insegnante intervenire efficacemente durante un conflitto tra alunni?

Molto, chiaramente, dipende dalla fascia di età a cui si fa riferimento. Se in età prescolare non è possibile aspettarsi che i bambini siano autonomi nella gestione del conflitto, è auspicabile pensare che crescendo acquisiscano strategie di risoluzione sempre più autonome e maggiori abilità di gestione delle emozioni coinvolte. D’altro canto, l’esperienza ci insegna che non sempre la ragionevolezza domina il conflitto, nemmeno tra adulti. Ecco allora che mettere in campo delle strategie di gestione diventa essenziale.

Innanzitutto è importante identificare le ragioni del conflitto:

Difficoltà di comunicazione

Spesso il conflitto nasce da un malinteso, da un fraintendimento. Soprattutto quando la comunicazione non avviene vis-à-vis (pensiamo per esempio ai social) il contesto è estremamente limitato e non aiuta certo la corretta interpretazione di quanto viene scritto o detto. Per quanto l’uso degli emoticon cerchi di sopperire alla mancanza degli aspetti paraverbali, l’assenza di toni, modulazioni della voce, espressioni, sguardi, sorrisi e gesti può generare numerosi fraintendimenti. È allora importante risalire all’intenzione di ciò che è stato detto, prestando attenzione al mittente, alle sue motivazioni e ai suoi obiettivi, che non sono necessariamente quelli compresi dal destinatario. Altrettanta attenzione va posta anche su chi riceve il messaggio, su ciò che comprende e su quali reazioni suscitino in lui quelle parole.

Differenze di obiettivi

Gli attriti naturalmente non si innescano solo per questioni di forma, spesso il disaccordo riguarda la sostanza. Avere obiettivi diversi è certamente uno di questi casi. Due bambini vogliono giocare, uno a calcio, l’altro a basket. Trovare un punto di incontro è complesso, perché le due scelte si contrappongono: optare per una delle due significa escludere l’altra. Spostiamo ora il piano del confronto su temi caldi che possono toccare gli adulti: l’embargo, la guerra. Schierarsi a favore della pace significa necessariamente dire no al sostegno alla guerra. Sono due posizioni opposte, per le quali non è possibile trovare un punto di incontro. In questo caso diventa opportuno chiedersi quali sono le ragioni che spingono verso un determinato obiettivo e, sovente, le ragioni ultime e i grandi principi che muovono scelte e azioni sono identici. Divertirsi, potremmo immaginare nel caso dei bambini, ristabilire o trovare un equilibrio, possiamo azzardare nel secondo caso. Ecco allora, può capitare di scoprire che i fini non sono così diversi, sebbene le scelte iniziali possano apparire diametralmente opposte.

Stili non condivisi

In questo caso il risultato perseguito è il medesimo, ma il percorso che si desidera intraprendere per giungere alla meta può essere diverso. Molto dipende dal modo peculiare con cui ognuno di noi, anche sulla base delle esperienze pregresse, affronta un problema o una sfida. Si può essere più interventisti, quando si preferisce agire prontamente, oppure si può prediligere un approccio più riflessivo, analizzando tutte le possibili soluzioni, i vantaggi e gli inconvenienti. Quando due persone con attitudini così diverse devono collaborare, è ragionevole pensare che possa nascere un conflitto che, se mal gestito, può degenerare, tanto più quando il fine da raggiungere rappresenta un importante traguardo per le persone coinvolte.

Differenza di metodi e tempi di gestione delle azioni

Altrettanto importanti sono le differenti attitudini che ognuno di noi adotta nella gestione di un problema. Esistono persone che affrontano tutto di petto. Sembrano non temere niente e nessuno, si lanciano nelle imprese e affrontano le sfide con coraggio. Altre persone invece hanno bisogno di tempi più distesi per maturare la consapevolezza delle azioni da compiere e, anche una volta maturata tale consapevolezza, ritornano spesso sulle proprie decisioni. Il confronto tra due tipologie di caratteri così diversi può essere fonte di disaccordo e conflitto, a maggior ragione quando succede che questi debbano collaborare per portare a termine un progetto o raggiungere un traguardo.

Differenze nelle credenze e nelle opinioni di base

Le credenze di base sono idee profondamente radicate all’interno di ognuno e influenzano il modo in cui viviamo la vita. Possono avere origine nel background culturale ma anche essere determinate dalla storia personale, da esperienze negative o positive che influenzano convinzioni e percezioni.  Credere, per esempio, che le situazioni che affrontiamo avranno una conclusione positiva fa sì che anche le difficoltà vengano sostenute con un’energia diversa rispetto a chi teme l’insuccesso. Queste attitudini così diverse ovviamente cozzano quando si deve collaborare per un obiettivo.

Regole non chiare

Quando si lavora in gruppo è indispensabile, per una proficua collaborazione, che le regole siano chiare a tutti. Gli obiettivi che si perseguono, i tempi, i ruoli, ciò che si deve fare, ciò che si può fare e quanto, invece, non è consentito. Emblematiche sono in tal senso le competizioni di debate, originarie dei paesi anglosassoni ma ora molto diffuse anche in Italia. Si tratta di un confronto di opinioni tra interlocutori, divisi in due squadre che si affrontano per sostenere una tesi a favore e una contro su un tema loro assegnato. Conoscere le specifiche modalità di esecuzione e le regole che guidano la gara è indispensabile. La capacità di esprimere opinioni senza prevaricazioni, le scelte lessicali rispettose dell’altro, il rispetto dei tempi di parola e di ascolto devono essere conosciuti da tutti i partecipanti che, in caso di mancato rispetto di dette regole, vengono squalificati, compromettendo la possibilità di successo di tutta la squadra.

Mancanza di definizione dei ruoli

In ogni gruppo, in modo più o meno formale, ogni membro assume un ruolo[9]. L’equilibrio, o la mancanza di esso, regola le dinamiche che si sviluppano. Troviamo chi viene ascoltato, chi non è mai interpellato, chi decide e chi esegue, chi allenta le tensioni e chi le fomenta, chi è più concentrato sul raggiungimento degli obiettivi e chi sulle relazioni che si instaurano, troviamo leader e gregari. Non tutti i membri di un gruppo detengono la stessa importanza e centralità, lo stesso potere e la stessa capacità di consenso. Innegabilmente vi è chi è più ascoltato di altri, chi sa prendere decisioni coinvolgendo tutto il gruppo e prendendosene la responsabilità. L’importanza non è sul piano del valore, poiché tutti i ruoli sono indispensabili, basti immaginare che in un gruppo due leader spesso non possono convivere, quanto piuttosto della capacità di guidare gli altri verso il perseguimento di un obiettivo. È molto importante che questi ruoli siano chiari ad ogni membro ed è auspicabile che i ruoli che vengono a costituirsi informalmente – la leadership non si impone, ma ci viene riconosciuta dagli altri – corrispondano ai ruoli formalmente attribuiti. Diversamente possono generarsi attriti e caos che sono di da ostacolo al raggiungimento degli scopi prefissati.

Alcune regole di base

      Comprendere le ragioni del conflitto è importante perché consente innanzitutto di spostare lo sguardo da se stessi all’altro. Il passo successivo è infatti quello di accogliere. Accogliere significa[10] “ricevere, sentire, ammettere nel proprio gruppo” ed è dunque apertura all’altro, non necessariamente per condividerne le idee, le attitudini, gli scopi ma piuttosto per porsi in ascolto, per scoprirne l’alterità. Per fare ciò, è necessario:

Non sminuire il vissuto dell’altro

Non esistono emozioni sbagliate perché sono l’espressione della reazione alle esperienze che si vivono[11]. Possono essere più o meno piacevoli, ma non giuste o sbagliate e non è possibile pretendere di non provarle. Si può cercare di controllarne l’intensità, “regolando il volume” delle emozioni più intense ma, più di tutto, è necessario validarle, accettandole sia per quanto riguarda se stessi che gli altri. Ciò che è opportuno fare è invece riflettere sul pensiero associato alle emozioni, cercando di individuare la ragione profonda di tali reazioni. È su questa ragione che si può intervenire. Non possiamo chiedere di non provare rabbia, ma regolarne l’intensità, controllarne le manifestazioni e comprenderne le ragioni è possibile e auspicabile in ogni relazione.

Pensare in modalità win-win

Una trattativa si può concludere con un vincitore che ottiene un vantaggio e un perdente che si adegua alle condizioni imposte dall’altro, questo però rischia di rovinare relazioni già esistenti e possibili collaborazioni future. Meglio allora cercare un accordo cosiddetto win win[12], una soluzione che non faccia sentire sconfitto nessuno, attraverso negoziazioni che permettano di ottenere vantaggi reciproci, anche se le condizioni finali non corrispondono necessariamente a quelle inizialmente pensate. Per fare ciò è indispensabile evitare di condurre la trattativa come se fosse una prova di forza, uno scontro personale con l’interlocutore. Ogni parte ha le sue richieste, che devono essere considerate legittime da entrambe le parti. Partendo da questa consapevolezza, mantenendo la mente aperta e una certa flessibilità è possibile trovare soluzioni che non scontentino nessuno. Ricordiamo sempre che questo parziale cedere sulle proprie rivendicazioni consentirà collaborazioni future.  

Esprimere i bisogni in modo assertivo

L’assertività è la capacità di esprimere i propri bisogni, le proprie emozioni e i propri diritti in modo sereno anche se in disaccordo con gli altri e portare avanti le proprie idee rispettando quelle altrui.[13] Si contrappone alla passività, nella quale si antepongono i bisogni degli altri ai propri e all’aggressività, quando si antepongono i propri bisogni a quelli altrui. Comportarsi in modo assertivo significa bilanciare i bisogni degli altri con i propri, quando entrambi gli interlocutori tengono in considerazione le reciproche esigenze pur esprimendo con chiarezza le proprie necessità. Saper dire no e accettare il no sono abilità che possono essere acquisite e che permettono di vivere le relazioni e le collaborazioni con un certo equilibrio, senza sopraffare e senza lasciarsi sopraffare. Controllare le modalità di comunicazione, i toni e i gesti si rivela una tecnica molto importante per esprimersi con assertività.

Individuare un obiettivo chiaro, esplicito e comune verso cui tendere (e perseguirlo)

Per risolvere il conflitto è indispensabile individuare l’obiettivo a cui tendere e questo deve essere chiaro a tutti i membri del gruppo. Il fine va esplicitato ed è necessario tornarvi ogni qualvolta che il disaccordo sembra impedire il proseguimento del percorso. L’obiettivo deve guidare le azioni e le trattative come un faro ed è importante che non venga mai perso di vista.

Far circolare la comunicazione

Non interrompere la comunicazione è indispensabile. Lasciare questo canale di continuo confronto, chiarimento, ritrattazione è fondamentale per trovare una soluzione condivisa. Il silenzio impedisce all’altro di comprendere le nostre emozioni, i nostri ragionamenti, gli obiettivi ai quali tendiamo. Chiudersi in se stessi non consente all’altro di tentare una trattativa, di scendere a compromessi. Inoltre, esprimere ad alta voce o per iscritto ciò che si prova dà la giusta distanza che permette di valutare le proprie azioni e reazioni che, dunque, non vengono espresse sull’onda dell’emozione.

Attenzione ai comportamenti difensivi

Vengono messi in atto quando ci si sente minacciati[14]. Tra i comportamenti difensivi possiamo trovare, come accennato poco fa, il silenzio, ma anche il prendere ogni cosa sul personale, lo spostare la colpa sempre sugli altri, il sarcasmo e il cinismo, il procrastinare o l’essere evasivo. Tutti questi comportamenti sono espressione del rifiuto del confronto e possono essere agiti quando ci si sente in situazione di inferiorità rispetto all’interlocutore. Rafforzare l’autostima e praticare l’assertività possono essere strategie idonee a controllare questi atteggiamenti quando siamo noi a praticarli.

Allenarsi all’ascolto

Senza ascolto non può esserci comunicazione, intesa come scambio e partecipazione[15]. L’ascolto permette all’interlocutore di sentirsi preso in considerazione e ciò lo predispone favorevolmente alla negoziazione; inoltre ascoltare ci permette di raccogliere informazioni su chi abbiamo di fronte e quindi ci aiuta a predisporre una strategia di negoziazione. Ascoltare, è noto, è molto più che sentire. Ascoltare richiede un ruolo attivo, fatto di silenzi ma anche di domande tese a comprendere il punto di vista dell’altro. Si cerca di comprendere non solo le parole ma anche le ragioni che soggiacciono alla comunicazione. L’ascolto attivo non ha fretta e si astiene dal giudizio.

Follow up: importanza di tornare a distanza di tempo sulla gestione del conflitto

Il profilo della montagna si vede bene solo da lontano e questo vale anche per il conflitto. Una distanza troppo ravvicinata (fisica nel caso della montagna, di tempo nel caso del conflitto) impedisce una visione completa e chiara della situazione. Prendersi del tempo quando sembra impossibile risolvere un conflitto non solo è auspicabile, ma anche opportuno. Una certa distanza temporale permette di vedere con maggiore ragionevolezza le cause del disaccordo. Le emozioni e la ragione si ricompongono permettendo valutazioni più equilibrate e non intrise dell’emotività del momento che, talvolta, impedisce di prendere in considerazione l’altro e le sue istanze.

Le strategie

Il terzo e ultimo step riguarda il feed-back.

Anche nel conflitto “sbagliare è già imparare” e il riscontro dell’errore resta uno dei pilastri dell’apprendimento. Quando un conflitto degenera è indispensabile fermarsi per capire le ragioni che hanno portato a quella situazione. Ciò significa ripercorrere le tappe del disaccordo, rivedere gli obiettivi perseguiti, le modalità di comunicazione e individuare i punti di attrito rispetto ai quali non è stato possibile trovare un punto di incontro. Più accurato è il feedback, più puntuale sarà l’analisi volta all’individuazione degli snodi cruciali del processo. Tali consapevolezze permetteranno di correggere i comportamenti ostativi alla risoluzione positiva del conflitto qualora si ripresentasse.

Senza pretesa di esaustività, suggeriamo alcune strategie che gli insegnanti possono adottare per gestire i conflitti che ogni giorno si creano nelle nostre aule e per aiutare gli studenti  ad acquisire modalità d’azione che possono essere proficuamente applicate nei rapporti quotidiani:

Creare apertura verso le differenze, verso il punto di vista dell’altro, che non deve essere percepito come una minaccia quando diverso dal proprio.

Prestare attenzione al clima di classe, che deve promuovere il confronto, anche attraverso attività quali il circle time e il debate.

Rispettare l’opinione dell’altro, che può essere diversa dalla propria ma non per questo vale meno.

Creare un clima di apprendimento reciproco, anche attraverso l’osservazione e la valutazione tra pari.

Prestare attenzione al momento in cui sorge il conflitto e non rimandarne la gestione. I disaccordi vanno affrontati sul nascere, altrimenti rischiano di esacerbarsi.

Insegnare la negoziazione win win come strategia di risoluzione dei conflitti.

In conclusione, ribadiamo che il conflitto è insito in ogni relazione e, in quanto tale, va accolto e accettato per ciò che è: fisiologico. Naturalmente il conflitto è opportuno si mantenga sul piano del confronto civile, dello scambio di idee e della corretta difesa delle proprie opinioni poiché tanto l’atteggiamento aggressivo quanto quello passivo sono censurabili e fonte di problemi relazionali. Insegnare a controllare l’emotività eccessiva e le reazioni incontrollate è l’obiettivo che ogni insegnante dovrebbe porsi, ricordando che, prima ancora che studenti, la scuola cresce ed educa i cittadini di domani.

[1] S. Bonino, Dizionario di psicologia dello sviluppo, Einaudi, Torino, 1994, p. 164,

[2] P. Bertolini, Dizionario di pedagogia  e scienze dell’educazione, Zanichelli, Bologna, 1996, p. 99.

[3] S. Bonino, op. cit., p. 165

[4] R. Harrè, R. Lamb, L. Mecacci, Psicologia. Dizionario enciclopedico, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 194

[5] L. Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva, Franco Angeli, Milano, 1973

[6] S. Bonino, op. cit., pp. 166-167

[7] S. Bonino, op. cit., p. 167

[8] https://formazionecontinuainpsicologia.it/ruolo-delladulto-nei-conflitti-bambini/

[9]https://docs.univr.it/documenti/OccorrenzaIns/matdid/matdid949175.pptx#:~:text=I%20ruoli%20sono%20definiti%20dalla,una%20certa%20posizione%20nel%20gruppo

[10] https://www.treccani.it/vocabolario/accogliere/

[11] https://drcollevecchio.it/7-cose-che-non-sai-sulle-emozioni/

[12] https://www.softskills.site/win-win-negoziazione-a-vantaggio-reciproco/

[13]  https://www.stateofmind.it/2014/11/assertivita-stili-comportamento/

[14] https://carlobisio.com/comportamenti-difensivi-conoscerli-gestirli

[15] https://www.aleksandrabobic.com/blog/perche-ascolto-e-importante

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