Ambra

Ambra è un nome femminile di origine araba, che significa “ambra” (una resina fossile commerciata sin dall’antichità come gioiello).

Ambra è un nome di origine araba. Deriva dalla parola anbar, con cui in lingua araba si indica l’ambra grigia. Anticamente, con il nome di ambra si indicava una sostanza pregiata prodotta dai capodogli durante la digestione ed espulsa con le feci. Le masse di ambra grigia, portate a riva dalla corrente ed essiccate dal Sole, sprigionavano un profumo particolarmente gradevole ed erano bruciate come incenso. L’ambra grigia è stata usata per la produzione di profumi sino a tempi recenti. La stessa …

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I clan dei capodogli sono “esclusivi”

C’è una specie al mondo, divisa in clan, che conta migliaia d’individui, con un proprio dialetto e comportamenti culturalmente appresi. Una specie senza gambe né mani, che non vive nelle città o nelle foreste, ma in uno sconfinato spazio acqueo. E che con noi umani ha in comune un grande cervello (in proporzione al corpo), l’istinto di cooperazione e la mobilità.
Stiamo parlando del capodoglio (Physeter macrocephalus), oggetto di studi dalle rivoluzionarie implicazioni antropologiche, riassunti su Royal Society Open Science dal biologo Hal Whitehead, della Dalhousien University (Canada).

Famiglia allargata. I clan di capodogli sono composti da diverse famiglie matrilineari di circa 10 femmine adulte con i loro figli. Cacciano cefalopodi a grandi profondità, per cui qualche femmina adulta resta sempre in superficie con i piccoli di tutte, che può anche allattare senza distinzioni. I capodogli praticano la caccia organizzata e la difesa collettiva contro le orche. Hanno vari momenti ludici, come inseguirsi per gioco o nuotare affiancati, dandosi colpetti con i loro dorsi, una specie di grooming per rafforzare i legami sociali (quello che nelle scimmie riguarda la pulizia reciproca del pelo). Non avendo mani dal pollice opponibile e presa di precisione, ma pinne, il capodoglio non ha sviluppato il cervello a causa della manipolazione di oggetti, ma in virtù dei rapporti sociali, della memorizzazione dei compagni, dei luoghi e delle tecniche di caccia. E soprattutto grazie al suo sistema di eco localizzazione, con cui anche comunica.

Evitare gli stranieri. Nei capodogli la cultura si fonda sui dialetti, come principali marcatori di appartenenza a un clan e ha una importanza tale che se in uno spazio di mare s’incontrano due clan diversi questi non si capiscono, non interagiscono fra di loro evitandosi del tutto. Come se fossero due specie distinte. Questo nonostante siano geneticamente della stessa specie.

Così vicini, così lontani. In ogni clan di capodogli vengono tramandate per tradizione culturale le rotte e l’attaccamento ad aree a ridosso di coste e isole. Ma i clan che si ritrovano confinanti, anziché assomigliarsi nella comunicazione, si differenziano ancora di più rispetto a quelli che vivono lontani, in modo da enfatizzare la loro appartenenza ai diversi gruppi.

Comunità su scala tribale. Comparando il capodoglio ad altre specie che presentano un alto livello cognitivo, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che è l’uomo la specie più simile a questo cetaceo dal punto di vista sociale.

Gli umani, infatti, sono tradizionalmente divisi in gruppi etnici che parlano lingue diverse anche nelle medesime condizioni ecologiche. Per esempio, gli aborigeni australiani o i nativi della Nuova Guinea, pur vivendo in habitat simili parlano centinaia di lingue differenti e hanno usanze diverse. Le tribù della Valle dell’Omo, in Etiopia, fanno di tutto per distinguersi fra di loro con particolari acconciature, piattelli alle labbra, pitture corporali, scarificazioni…

Diversi, ma non geneticamente. Ma se fra un eschimese e un cittadino dell’Europa mediterranea esistono differenze genetiche intraspecifiche in parallelo a quelle linguistiche, fra i capodogli di un clan del Pacifico e quelli per esempio di un clan dell’Atlantico, le differenze genetiche sono poco rivelanti.

Pendolari del sesso. I maschi si allontanano dal clan originale da adolescenti, per stazionare nell’emisfero settentrionale e poi ridiscendere a Sud e accoppiarsi con le femmine di altri clan, senza tuttavia entrare nel loro gruppo. I capodogli sono il caso più eclatante di segregazione di genere fra i mammiferi, ma questi accoppiamenti “una volta e via” assicurano l’unita genetica della specie.

Comunità numerosa. I ricercatori hanno seguito una decina di clan, nelle acque dei Caraibi, di Brasile e Giappone, dell’Ecuador, delle isole Mauritius e del Mediterraneo. Soltanto nel Pacifico vengono stimati 300mila capodogli, un singolo clan va dalle dimensioni di alcune centinaia a 20mila individui. Un numero paragonabile solo ai gruppi etno-linguistici umani. Ma come comunicano questi cetacei?

Suoni d’identità. Per orientarsi e catturare le prede nel buio degli abissi utilizzano l’eco localizzazione, ovvero emettono dei suoni (click) e, raccogliendone gli echi, ricavano mappe mentali. Diversi dei loro potenti click vengono invece destinati alla comunicazione e sono veri e propri marcatori culturali del clan di appartenenza.

Linguaggio in codice. La “parola d’ordine” di ciascun clan è composta da un determinato numero di click e la spaziatura temporale fa questi. Per esempio, il clan dei Regular del Pacifico emette 5 click egualmente distanziati. Il vicino clan dei Four-plus, 4 click distanziati brevemente e 2 dopo una pausa più lunga. Molto sintetici sono quelli dello Short clan, grandi viaggiatori che usano spostarsi per 10mila km, dal Giappone al Cile: fanno solo 3 click brevi. Gli EC1 dell’Atlantico emettono 3 click piuttosto distanziati e 2 in breve successione. Gli EC3 invece 9 click di uguale e minima spaziatura.

Pulsioni “tribali”. In campo umano si sono a lungo considerate le differenze etniche come il risultato di pressioni ambientali, in base al clima e alle risorse disponibili, all’isolamento geografico, alla territorialità e alle specifiche attività produttive.

Questi parametri non sono applicabili ai capodogli perché vivono tutti nello stesso ambiente oceanico senza barriere geografiche, spostandosi liberamente. Diversamente dalle orche (e dagli umani) hanno tutti la stessa dieta: reperire cefalopodi nelle profondità oceaniche non crea competizione fra clan.
Perché allora si sono costruiti delle barriere mentali fra loro? L’ipotesi è che vi sia a priori nelle specie viventi più encefalizzate un impulso a definirsi socialmente, distinguendosi in modo chiaro e netto da altri gruppi della stessa specie.

Una decisione femminile. Nell’uomo, a livello di studi antropologici, si dice che siano di solito i maschi a inventarsi riti e segnali estetici distintivi per marcare l’appartenenza tribale ribadita dalle lingue. Nelle comunità dei capodogli, fondate sulla cooperazione delle femmine e l’estraneità dei maschi adulti, le promotrici divisive (in clan) sarebbero le femmine.

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Cetacei del Mediterraneo

Che cos’è lo schwa?

Contro un nuovo segno grafico e suono vocalico. Che cos’è questo schwa?
Lo schwa
In Italia nella questione della lingua si inserisce una proposta scriteriata in nome della lotta contro il sessismo.
Così è definito il sessismo nel Vocabolario Treccani:
“Termine coniato nell’ambito dei movimenti femministi degli anni Sessanta del Novecento per indicare l’atteggiamento di chi (uomo o donna) tende a giustificare, promuovere o difendere l’idea dell’inferiorità del sesso femminile rispetto a quello maschile e la conseguente discriminazione operata nei confronti delle donne in campo sociopolitico, culturale, professionale, o semplicemente interpersonale; anche, con significato più generale, tendenza a discriminare qualcuno in base al sesso di appartenenza.”
In nome della lotta contro il sessismo c’è chi vorrebbe sostituire  le distinte desinenze grammaticali e fonetiche del maschile e del femminile con il solo schwa, il cui segno grafico è ə e la cui pronuncia secondo la descrizione di Luciano Romito in Enciclopedia dell’italiano è un “suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità”. Quindi una “non vocale”, che ricorre peraltro in ambiti dialettali italiani. In proposito assistiamo a uno scontro tra chi caldeggia  lo schwa in nome di rivendicazioni identitarie  e chi rigetta una simile innovazione perché ritenuta suscettibile di adulterare la lingua italiana.
Le prese di posizione contro lo schwa non sono mancate.
Un autorevole intervento nella questione proviene da una donna. Sul sito di MicroMega la docente universitaria Cecilia Robustelli, Ordinaria di Linguistica italiana, che esprime la forte contrarietà dell’Accademia della Crusca all’innovazione, così definisce lo schwa:“Lo schwa non è una marca di genere, non è un grafema della lingua italiana, non corrisponde neanche a un suono con valore distintivo, e servirebbe per questo a eliminare il riferimento all’opposizione di genere binaria, cioè maschile femminile, legata all’uso delle desinenze tradizionali, permettendo invece il riferimento al più ampio spettro delle identità di genere […]”
La linguista mette in guardia da rischiose sperimentazioni linguistiche:
“È pericoloso sperimentare sul sistema della lingua se non si prevedono i contraccolpi che tale intervento può determinare e le sue conseguenze sul piano della comunicazione.”
Secondo la linguista il femminismo dovrebbe difendere l’identità femminile sui piani grammaticale e fonetico piuttosto che relegarla nell’indistinto dello schwa:“Dopo il lungo percorso socioculturale compiuto dalle donne, per tacere di tutte le misure istituzionali varate per la loro valorizzazione, sarebbe opportuno cercare con tutti i mezzi di rappresentarle nella lingua in modo da riconoscerne la presenza anziché cancellarle.”
In margine all’intervento della linguista  riteniamo doveroso specificare che lo schwa occulterebbe sul piano espressivo un aspetto essenziale dell’identità della donna, come delineata nel Manifesto di rivolta femminile diffuso a Roma  nel 1970:“La trasmissione della vita, il rispetto della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della donna e valori che lei rivendica.”
Diciamo pure che la donna, quale generatrice degli esseri umani, merita che nella lingua originata  da Dante la sua femminilità sia evidenziata sui piani grammaticale e fonetico, non confusa e occultata  nell’indistinto dello schwa.
Un’altra linguista, Cristiana De Santis, ammonisce che accettando lo schwa “non solo avalleremmo una soluzione semplicistica, ma ci sottrarremmo alle regole grammaticali della nostra lingua, acquisite in modo libero e spontaneo da ogni parlante madrelingua”.
Si è attivata intanto una diffusa forma di protesta intellettuale contro il pericolo di snaturamento della lingua italiana.
È d’accordo con Cecilia Robustelli  e Cristiana De Santis il docente universitario Massimo Arcangeli, Ordinario di Linguistica italiana, promotore di un’iniziativa contro lo  schwa: la sua petizione per rigettarlo, sottoscritta da decine di migliaia di intellettuali, sta riscuotendo notevole successo.
Intervistato da Roberto Vivaldelli su Il Giornale del 17 febbraio, Massimo Arcangeli ha definito “inaccettabile” il fatto che in Italia lo schwa sia finito “in ben sei verbali prodotti da una commissione per l’abilitazione nazionale alla professione universitaria”. In Francia e in Spagna, ha ricordato il linguista, si è imposto il divieto di usare “simboli inclusivi […] nei documenti prodotti dalla pubblica amministrazione”.
Così dovrebbe essere anche da noi. Osserviamo infatti che l’introduzione del simbolo inclusivo nella nostra lingua genererebbe confusioni irrimediabili. Eccone un solo esempio, che basta però a dare un’idea del caos linguistico che sarebbe prodotto dallo schwa. In uno dei verbali  di cui sopra ricorre l’espressione “funzioni di professorə universitario”: si noti come l’aggettivo “universitario” sia restato al maschile, nonostante lo schwa asessuato sostituito alla –e finale di “professore”.
Sul Corriere della Sera Gian Antonio Stella, nell’annunciare la novità libraria La lingua scə ma. Contro lo schwa (e altri animali), Castelvecchi, 2022 di Massimo Arcangeli, ci ricorda fra l’altro che Claudio Marazzini, Presidente dell’Accademia della Crusca, già nel 2018 metteva in guardia dalla “oscurità comunicativa” incombente sul linguaggio a causa di espressioni come student@ in luogo di studenti o studentesse. Da allora in nome dell’inclusione sono state avanzate altre proposte oltre a quella dello schwa. Il giornalista ne ricorda alcune, fra le quali:  “Car*collega, Carx collega, Car’ collega, Caro/a collega, Caro(a) collega, Caro.a collega”.
Non possiamo nascondere che a questo punto la memoria corre spontanea a Dante: “Diverse lingue, orribili favelle” (Inferno, III, 25).
A favore dello schwa si registrano interventi che generano sconcerto e perplessità.
Eliana Cocca, che si fregia del titolo di bioeticista, su Il fatto quotidiano del 9 febbraio 2022 nell’articolo Lo schwa è una minaccia alla lingua italiana? Forse non avete capito il problema alla base presenta il tentativo di deformare la lingua italiana mediante lo schwa come “un esperimento”.  A dire il vero, se c’è qualcuno che forse non ha capito qualcosa, è proprio l’autrice, dal momento che con una sorta di ironia unita a un certa supponenza fra l’altro scrive:
“Come si fa a impedire che le persone scrivano e parlino come ritengono? Si chiama il 112? E questo vale in ogni caso, non fraintendetemi: chi sono io per obbligare qualcunə a usare lo schwa?”
Le persone definite libere di scrivere e parlare come meglio ritengono sconfinano in realtà nell’arbitrio. Scrivere e parlare in quanto atti illocutori vanno incontro a un limite, che coincide col rispetto del sistema linguistico istituzionalizzato.
Il gusto pretende di  imporsi contro la norma.
Dispiace che la scrittrice Michela Murgia abbia definito la petizione promossa da Massimo Arcangeli “insensata, disperata, reazionaria e senza destinatario pretendendo che il mio gusto sia norma […]”: sorvolando sulla sconclusionata sintassi, notiamo che la definizione offensiva si ritorce contro di lei, perché insensata, disperata, reazionaria risulta piuttosto la sua pretesa esibizionistica che si risolve in un vezzo come può esserlo un piercing o un tatuaggio. Secondo lei sarebbero gli intellettuali firmatari a pretendere di imporre il loro “gusto” linguistico come “norma” linguistica. Ebbene, è strano che la pregiata scrittrice mostri in tal modo di ignorare che la lingua storicamente si configura come un sistema in cui il capriccio del “gusto” trova il suo limite nella “norma”. In questo caso il capriccio del “gusto”  che vuole prevaricare sulla “norma” è il suo.
Non solo il femminismo, ma anche il transfemminismo se la prende con la grammatica.
Il Laboratorio transfemminista Smaschieramenti si schiera contro il “maschile sovraesteso”, osteggiandolo a colpi di cambiamento di desinenze. Il filosofo Federico Zappino, autore fra l’altro di Comunismo queer. Note per una sovversione dell’eterosessualità, Meltemi, 2019, approva simili prese di posizione contro la presunta discriminazione linguistica. Sennonché si tratta di comprendere il reale significato della parola “uomo”. Lo si veda, ad esempio, sul sito seguente:www.etimoitaliano.it
Sul sito citato si legge:
“La parola uomo deriva dalla radice sanscrita bhu– che successivamente divenne hu– (da cui anche humus = terra). Uomo significa quindi “creatura generata dalla terra”.”
Vale a dire che “uomo” significa non  “maschio”, ma “essere umano”. Quando nell’Heautontimorumenos di Publio Terenzio Afro la frase “homo sum, humani nihil a me alienum puto” viene pronunciata  da Cremete nel rivolgersi a Menedemo per soddisfare una sua curiosità, la parola homo non si riferisce al sesso maschile, ma segnala l’appartenenza al genere umano. E le desinenze al maschile rimandano a questa appartenenza.  Paradossalmente, chi appartiene alla comunità LGBT (acronimo di Lesbica, Gay, Bisessuale e Transgender), nel momento in cui rivendica la sua differenza sessuale, giunge a rinunciare alla propria identità, in quanto occulta la propria inclusione nella categoria degli esseri umani, di cui invece fa parte a pieno titolo.
È da ritenere che la comunità LGBT in Italia dovrebbe cimentarsi ben più energicamente contro gli ostacoli alle identità di genere sul campo giuridico, tenendo presente quanto accade in altri paesi, come il Belgio, a proposito della non menzione del sesso nelle carte d’identità, secondo quanto riportato sul seguente sito: europa.today.it/attualita/Ma è in ambito internazionale che il dibattito sull’identità anagrafica si è andato svolgendo e continua a svolgersi,  come documentato sul sito seguente: www.swissinfo.ch/ita
Diverse sono le esigenze in campo linguistico –  letterario.
In campo linguistico l’uso indiscriminato dello schwa impoverirebbe la poesia.
Per i poeti  nominare le differenze uomo-donna è indispensabile. Si dirà che ci sono poesie come quelle in lingua napoletana in cui il suono vocalico neutro è presente. Ciò non toglie che la differenza di genere vi resti necessaria. Consideriamo, ad esempio, i corrispettivi di “quello” e “quella”, ovvero “chillə”
e “chellə”: nonostante lo schwa finale, gli accenti tonici su – i – ed – e – continuano a distinguere  il maschile dal femminile.
Prendiamo ora in esame i primi versi di una lirica di Federico Garcia Lorca:
Federico Garcia Lorca (1898 – 1936)
Paisaje de la multitud que orina (Nocturno de Battery Place)
Se quedaron solos:aguardaban la velocidad de las ultimas bicicletas.Se quedaron solas:esperaban la muerte de un nino en el velero japonés.
Restarono soli:controllavano la velocità delle ultime biciclette.Restarono sole:aspettavano la morte di un bambino sul veliero giapponese.(Federico Garcia Lorca, Poeta en Nueva York, in Poesie, introduzione e traduzione di Carlo Bo, volume secondo, Guanda, 1962)Senza le differenze di genere indicate da “solos” e “solas” in spagnolo  e da “soli” e “sole”  in italiano, la poesia sarebbe venuta meno. La linguista Vera Gheno plaude a una scrittrice che ha inventato il plurale soles al posto di solos  e solas. Naturalmente quella scrittrice è libera di sperimentare nuove modalità espressive: ciò non significa che il suo soles possa costituire una norma linguistica per i poeti.
Lo schwa può essere considerato un’arma di distrazione di massa.
Fra gli interventi sull’argomento ricordiamo anche quello del filosofo Diego Fusaro, che su Il fatto quotidiano del 17 febbraio 2022 nell’articolo Schwa, le ragioni per cui ritengo questa battaglia linguistica regressiva e conformista ha definito “la lotta per lo schwa … un’arma di distrazione di massa” e non solo:“è  anche  un  elemento  coessenziale   alla  logica di sviluppo della civiltà relativista e  merciforme, la quale procede distruggendo ogni identità – compresa quella linguistica – affinché nulla possa più opporre resistenza al nichilismo della forma merce.”Secondo Fusaro, infatti, quanti combattono la “battaglia […] per imporre lo schwa nella lingua italiana” lo fanno “essenzialmente per fingere di avere ancora qualche vaga istanza oppositiva e nascondere il proprio osceno adattamento all’asimmetrica civiltà dei mercati.”La provocazione di Fusaro, che potrebbe sembrare per certi aspetti stravagante, contiene comunque un nucleo di verità: la lingua italiana, costruita da Dante ed evolutasi attraverso i tempi, aprendosi a variazioni utili ma tali da non distruggerla come sistema condiviso, è un patrimonio culturale da difendere contro ogni tentativo di inficiare la sua specificità. Oggi il tentativo proviene da individualismi che si esibiscono in forma di movimenti e non dalla comunità coesa di chi, parlando e scrivendo, si serve del linguaggio istituzionalizzato a fini comunicativi.
Pertanto è opportuno prendere conoscenza del testo della petizione:
“Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della “e” rovesciata non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche. I fautori dello schwa, proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi, esortano a sostituire i pronomi personali “lui” e “lei” con “ləi”, e sostengono che le forme inclusive di “direttore” o “pittore, “autore” o “lettore” debbano essere “direttorə” e “pittorə”, autorə” e “lettorə”, sancendo di fatto la morte di “direttrice” e “pittrice”, “autrice” e “lettrice”.
Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili.
Nel latino classico “pictrix”, come femminile di “pictor”, non esisteva. Una donna che facesse la pittrice, nell’antica Roma, doveva accontentarsi di perifrasi come “pingendi artifex” (‘artista in campo pittorico’). C’è anche chi va ben oltre. Gli articoli determinativi “il”, “lo”, “la”, poiché l’italiano antico, in usi che oggi richiedono “il”, poteva prevedere al maschile singolare la variante “lo”, si pretende che convergano sull’unica forma “lə”, e i rispettivi plurali (“i”, “gli”, “le”) che confluiscano in “l3”, col secondo carattere che non è un 3 ma uno schwa lungo. Entrambi i segni, lo schwa e lo schwa lungo, sono perfino finiti in ben 6 verbali redatti da una Commissione per l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia. Lo schwa e altri simboli (slash, asterischi, chioccioline, ecc.), oppure specifici suoni (come la “u” in “Caru tuttu”, per “Cari tutti, care tutte”), che si vorrebbe introdurre a modificare l’uso linguistico italiano corrente, non sono motivati da reali richieste di cambiamento.
Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività. Lo schwa, secondo i sostenitori della sua causa, avrebbe anche il vantaggio di essere pronunciabile. Il suono è quello di una vocale intermedia, e gli effetti, se non fossero drammatici, apparirebbero involontariamente comici. Peculiare di diversi dialetti italiani, e molto familiare alla lingua inglese, lo schwa, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), trasformerebbe l’intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell’area di Cosenza.”
Ed ecco il link per chi intenda sottoscrivere la petizione:  www.change.org/p/
Intanto i veri problemi da affrontare si impongono con sconvolgente drammaticità.
Ben altri rispetto all’uso dello schwa sono i problemi da risolvere in questi difficili tempi, contrassegnati nuovamente dal ricorso alle armi per soddisfare  deliranti ambizioni di sopraffazione, contrastate con cautela in nome di preponderanti interessi economici e finanziari e per timore di una distruttiva escalation militare nell’era degli armamenti nucleari: l’urgenza dell’uso della lingua comune si impone con riguardo non già a tentativi individuali di secessione, bensì a situazioni tragiche come questa, in cui la minaccia del ricorso agli armamenti nucleari diventa arma di ricatto facile da impugnare per menti criminali.

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