IL CORPO ESPRESSIVO

La scuola intesa come luogo del vivere deve aprirsi alla possibilità di incontrare e riconoscere emozioni e sentimenti e alla capacità di relazionarsi con l’altro da sé. Per questo è necessario rendere l’ambiente scolastico un luogo di aggregazione con relazioni, spazi, ruoli ben organizzati e diversificati. A un’immagine di bambino autonomo, responsabile, libero, capace di interagire con molteplici strumenti di apprendimento, dovrebbe corrispondere una nuova idea di spazio da vivere come centro di aggregazione e di contatto, di convivialità, di gioco, di danza, di espressione artistica, di dialogo; uno spazio che riconosca il valore del corpo in tutte le sue …

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Con gli occhi dei bambini

Con gli occhi dei bambini

Relazioni che insegnano fin dalla scuola primaria

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Ci sono stagioni della vita che lasciano un’impronta profonda, invisibile eppure duratura. Gli anni della scuola primaria, con i suoi primi passi nel mondo della scuola, è una di queste. È il tempo in cui i bambini incontrano per la prima volta la conoscenza come esperienza viva, emozionante, a tratti misteriosa. Ed è proprio in quegli anni che il ruolo della scuola assume un valore decisivo: non solo luogo di apprendimento, ma spazio relazionale, emotivo, identitario.

I maestri e le maestre non sono meri trasmettitori di nozioni, ma guide affettive, presenze significative che orientano, proteggono, incoraggiano. Se il loro sguardo sa riconoscere il potenziale racchiuso in ogni alunno, se la loro voce sa accogliere e motivare, allora l’amore per lo studio può diventare una pianta vigorosa, destinata a diventare maestosa nel tempo. La vera sfida educativa non risiede nel controllo o nella disciplina imposta, ma nella capacità di creare un clima di fiducia, entusiasmo e appartenenza, dove la classe si trasforma in una comunità che apprende insieme.

In questo contesto, il benessere relazionale si configura come fondamento imprescindibile di ogni processo educativo autentico. Un ambiente sereno, empatico e rispettoso stimola la curiosità, la motivazione e la partecipazione attiva. E in un tempo in cui anche i più piccoli affrontano stress, solitudini e fragilità emotive, la scuola ha il dovere di diventare un luogo di cura, di ascolto e di valorizzazione dell’unicità di ciascuno.

Tuttavia, è impossibile pensare al benessere relazionale della classe senza includere una riflessione sul clima organizzativo generale della scuola. Anche i bambini più piccoli, sebbene inconsapevoli dei meccanismi formali, respirano l’atmosfera relazionale dell’intero istituto. Quando chi occupa ruoli di coordinamento o direzione esercita il potere attraverso la pressione, la paura o la punizione verso i docenti, si genera un clima di sfiducia, silenzio e chiusura che si ripercuote inevitabilmente sulla classe. I bambini apprendono per imitazione e interiorizzano modelli relazionali impliciti e se gli adulti comunicano con freddezza, rigidità o disprezzo, anche loro tenderanno a riprodurre atteggiamenti simili tra pari.

Per questo motivo, è necessario pensare alla scuola come a un unico grande organismo vivente, in cui ogni relazione – tra colleghi, tra docenti e dirigente, tra scuola e famiglia – contribuisce a definire il tono affettivo che il bambino respira ogni giorno. L’amore e il rispetto dell’altro, in tutte le direzioni, devono essere il centro pulsante di ogni processo educativo. Non possiamo pretendere di educare al rispetto, alla pace e alla gentilezza se non ne offriamo un modello visibile e coerente nel nostro modo di lavorare insieme.

Riflettere sulle relazioni scolastiche significa, allora, riportare il cuore al centro della pedagogia. Significa riconoscere che educare non è solo formare la mente, ma toccare l’anima, accompagnando ogni bambino nella sua crescita con rispetto, empatia e consapevolezza.

Creare un ambiente di ascolto autentico

L’ascolto è la chiave per costruire relazioni autentiche e significative, ed è il primo segnale che trasmette al bambino il suo valore. I bambini della scuola primaria hanno un bisogno profondo di essere ascoltati, non solo nelle parole, ma anche nei silenzi, nei gesti, nei disegni, negli sguardi. Questo ascolto va oltre il semplice prestare attenzione: significa accogliere senza fretta, sospendere il giudizio e riconoscere la validità dell’esperienza soggettiva dell’altro. Per rispondere a questo bisogno, è utile introdurre nella routine quotidiana momenti rituali come il “cerchio della mattina”, in cui ognuno può condividere pensieri, emozioni o eventi vissuti. Questo spazio, se curato nel tempo, diventa un esercizio di democrazia emotiva e un allenamento all’empatia, stimolando la capacità di ascoltare gli altri e di raccontarsi senza timore.

Gli insegnanti, adottando un ascolto attivo, che si esprime con lo sguardo, con il corpo, con le domande di approfondimento, possono intercettare disagi latenti, favorire l’espressione di bisogni e valorizzare le differenze come risorse. L’ascolto autentico, dunque, non è solo un atteggiamento, ma una scelta educativa profonda, un’azione quotidiana che alimenta la fiducia reciproca, il senso di appartenenza e la costruzione di un clima scolastico sereno e accogliente. In questo contesto, anche gli alunni più timidi o fragili trovano la possibilità di esprimersi, di sentirsi accolti e di partecipare attivamente alla vita della classe.

Valorizzare le emozioni nella didattica quotidiana

Le emozioni attraversano ogni esperienza scolastica e, se riconosciute e valorizzate, diventano alleate potenti dell’apprendimento. La scuola deve diventare un luogo in cui le emozioni non sono solo tollerate, ma accolte come parte integrante della crescita. Introdurre strumenti come il diario emotivo, la ruota delle emozioni o i giochi di ruolo consente ai bambini di dare un nome a ciò che provano, di comprendere le emozioni altrui e di sentirsi meno soli. Tali strumenti, soprattutto se inseriti con regolarità nella pratica didattica, favoriscono l’introspezione e lo sviluppo di una maggiore consapevolezza emotiva. La competenza emotiva, così sviluppata, riduce la conflittualità, favorisce la cooperazione, migliora la capacità di concentrazione e aumenta il senso di autoefficacia nei bambini.

Insegnare a riconoscere le emozioni come normali e legittime significa anche educare alla gestione dei momenti difficili: un bambino che impara a esprimere la rabbia senza aggredire, o la tristezza senza vergognarsene, è un bambino che sta crescendo nella direzione giusta. Inoltre, lavorare sulle emozioni rafforza il senso di identità e di appartenenza, creando un clima in cui ogni alunno si sente libero di essere sé stesso. I docenti possono facilitare questo processo attraverso una didattica sensibile, che lasci spazio alla narrazione, all’arte, alla corporeità e al gioco simbolico, creando occasioni per canalizzare le emozioni in forme espressive e comunicative. È fondamentale che l’insegnante si ponga come modello emotivo, mostrando coerenza tra parole e atteggiamenti, accettando le proprie emozioni e accompagnando i bambini nell’esplorazione delle loro. Solo in un ambiente emotivamente competente l’apprendimento può davvero diventare significativo.

Costruire relazioni positive attraverso la cooperazione

Le relazioni tra pari sono un laboratorio di socializzazione insostituibile, in cui si costruiscono le prime forme di appartenenza, confronto e cooperazione. In questa fase evolutiva, il gruppo dei pari svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’identità e delle competenze sociali. Promuovere il lavoro cooperativo, strutturando gruppi eterogenei con obiettivi comuni e ruoli ben definiti, aiuta i bambini a sviluppare competenze relazionali fondamentali quali l’ascolto attivo, la collaborazione, la negoziazione, la responsabilità condivisa. Attraverso la cooperazione, ogni alunno ha la possibilità di sentirsi parte integrante del processo, di contribuire con le proprie risorse e di imparare a riconoscere il valore delle differenze.

Progetti condivisi come la creazione di cartelloni tematici, la preparazione di una recita teatrale, la cura di un orto scolastico o la realizzazione di un giornalino di classe, non solo potenziano le competenze trasversali, ma rafforzano la fiducia reciproca e il senso del “noi”. In questi contesti, il docente non è un semplice osservatore, ma un facilitatore consapevole delle dinamiche di gruppo con il compito di monitorare le interazioni, prevenire situazioni di esclusione, valorizzare i punti di forza di ciascuno e affrontare con tatto e fermezza eventuali difficoltà relazionali.

Iniziative come la “squadra della gentilezza”, incaricata di segnalare e promuovere comportamenti costruttivi tra pari, o i “tutor di classe”, ovvero compagni più esperti che aiutano quelli in difficoltà, incentivano comportamenti prosociali e responsabilizzano anche i bambini più fragili. Attraverso queste pratiche, la scuola diventa non solo luogo di istruzione, ma anche spazio di educazione alla cittadinanza, alla solidarietà e al rispetto reciproco, preparando gli alunni a vivere relazioni sane e significative anche al di fuori del contesto scolastico.

Gestire i conflitti in modo costruttivo

I conflitti, soprattutto tra bambini, sono fisiologici e spesso inevitabili. Tuttavia, possono diventare occasioni preziose di crescita personale e sociale se gestiti con competenza, calma e continuità. La gestione costruttiva dei conflitti è una delle competenze chiave che un docente può offrire al gruppo classe, educando i bambini non solo alla risoluzione, ma alla prevenzione stessa del conflitto. Insegnare a riconoscere i segnali del disaccordo, a verbalizzare il disagio, a nominare le emozioni coinvolte e a cercare soluzioni condivise significa fornire strumenti di cittadinanza e convivenza civile.

Strumenti come il “tavolo della pace”, il “diario del litigio” o il “mediatore di classe” possono diventare rituali significativi all’interno della giornata scolastica, favorendo la riflessione, la consapevolezza e la responsabilità. Il tavolo della pace può essere uno spazio fisico accogliente, con oggetti simbolici che facilitano la mediazione, mentre il diario del litigio aiuta i bambini a ricostruire con parole proprie quanto accaduto, aprendosi al punto di vista dell’altro.

Il docente, in questa fase, svolge il ruolo di facilitatore empatico, che guida senza imporre, offrendo modelli comunicativi efficaci e promuovendo un clima in cui l’errore relazionale non è stigmatizzato, ma compreso e superato. Il conflitto, affrontato con un atteggiamento dialogico e rispettoso, aiuta i bambini a sviluppare la capacità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni, a mettersi nei panni dell’altro e a scoprire che la diversità non è una minaccia, ma una risorsa che arricchisce l’intero gruppo. Promuovere una cultura della mediazione fin dalla scuola primaria significa gettare le basi per una società più pacifica, equa e solidale.

Il ruolo degli aspetti psicologici e pedagogici

Dal punto di vista psicologico, un ambiente scolastico sereno agisce come fattore protettivo per lo sviluppo emotivo e cognitivo del bambino, influenzando direttamente l’autoregolazione, la resilienza e la capacità di affrontare le sfide. Le neuroscienze ci insegnano che il cervello impara meglio quando si sente al sicuro, accolto e motivato; la sicurezza relazionale attiva l’area prefrontale, deputata alla pianificazione, al pensiero critico e alla memoria di lavoro, mentre lo stress cronico o un clima relazionale teso attivano l’amigdala, interferendo con l’apprendimento. Per questo motivo, la figura dell’insegnante come regolatore affettivo diventa centrale: una presenza empatica, coerente e contenitiva può modulare positivamente gli stati emotivi dei bambini, sostenendoli nei momenti critici e favorendo l’attivazione di circuiti cerebrali legati alla motivazione, alla memoria e alla creatività.

Sul piano pedagogico, il benessere relazionale va inteso come diritto educativo, base per la costruzione dell’autonomia, della fiducia in sé e della competenza sociale. Un ambiente relazionale positivo stimola nei bambini non solo il piacere dell’apprendere, ma anche la disponibilità all’ascolto, all’impegno e alla cooperazione. La pedagogia della cura, della lentezza, della reciprocità e dell’ascolto profondo, proposta da autori come, Gianfranco Zavalloni, Luigina Mortari, Daniele Novara o Mario Polito, offre modelli operativi preziosi per orientare la pratica didattica quotidiana verso un’educazione realmente centrata sulla persona. In questa prospettiva, l’insegnante non trasmette semplicemente contenuti, ma accompagna il bambino in un processo di crescita integrale, in cui la relazione diventa lo spazio primario dell’apprendimento.

Promuovere la corresponsabilità educativa

Il benessere in classe si costruisce anche attraverso una rete solida e dialogante di relazioni tra scuola e famiglia. Quando i genitori sono coinvolti in modo attivo, consapevole e continuativo, i bambini percepiscono coerenza e sostegno, aumentando la loro sicurezza affettiva, la motivazione allo studio e la partecipazione alla vita scolastica. Il coinvolgimento non deve limitarsi agli incontri formali, ma tradursi in un’autentica alleanza educativa basata su fiducia, comunicazione aperta e rispetto reciproco dei ruoli. È utile promuovere momenti di confronto informale, laboratori genitori-figli, giornate aperte, sportelli pedagogici e progetti condivisi, in cui il patto educativo scuola-famiglia si rinnova nella pratica, giorno dopo giorno.

In particolare, la corresponsabilità educativa può esprimersi attraverso gesti semplici ma significativi: il racconto delle emozioni anche a casa, la lettura condivisa di albi illustrati che affrontano temi relazionali, la partecipazione attiva dei genitori a iniziative simboliche come la “festa dei legami” o il “murale dei valori”. In queste occasioni, il bambino avverte che scuola e famiglia parlano la stessa lingua emotiva ed educativa. Inoltre, creare momenti di formazione dedicati anche ai genitori, ad esempio incontri sull’intelligenza emotiva, sulla comunicazione non violenta o sulla gestione dei conflitti, permette di estendere il benessere relazionale oltre le mura scolastiche, creando un terreno comune di valori e obiettivi. La sinergia tra adulti è un messaggio potente che trasmette ai bambini l’idea di una comunità coesa, accogliente e orientata al bene comune.

Educare alla gentilezza come pratica quotidiana

La gentilezza non è solo un valore da trasmettere, ma una pratica da vivere ogni giorno e da allenare con costanza, affinché diventi parte integrante del clima educativo. In una società spesso dominata dalla fretta, dalla competizione e dall’indifferenza, educare alla gentilezza equivale a costruire un’educazione controcorrente, orientata alla cura dell’altro e alla costruzione di legami significativi. Inserire gesti gentili nella routine scolastica, come il saluto mattutino, il grazie spontaneo, il prendersi cura dell’altro in momenti difficili, o semplicemente l’offerta di un sorriso, costruisce una cultura relazionale basata sul rispetto reciproco e sull’attenzione autentica.

Il “barattolo della gentilezza”, dove si raccolgono bigliettini con azioni positive compiute durante la giornata, è uno strumento semplice e coinvolgente per allenare l’attenzione al bene e stimolare una riflessione collettiva sul valore delle piccole azioni quotidiane. Ma possono essere utili anche i “diari della gentilezza”, brevi pagine su cui ogni bambino scrive, a fine giornata, un gesto gentile compiuto o ricevuto. Educare alla gentilezza significa anche riconoscere le emozioni positive, celebrare i successi, valorizzare gli sforzi più che i risultati, contrastando la logica della prestazione e dell’eccellenza a tutti i costi.

Il docente, in questo processo, assume un ruolo cruciale poichè è il primo modello di comportamento, colui che insegna con l’esempio più che con le parole. Solo attraverso una presenza coerente e autentica, capace di coltivare la gentilezza anche nei momenti difficili, è possibile educare a una forma di rispetto profonda e duratura. In questo modo, ogni bambino si sente parte di un ambiente in cui è bello stare, crescere, imparare e costruire insieme una comunità scolastica accogliente, solidale e consapevole.

Materiali e percorsi di autoformazione per i docenti

La formazione continua è uno strumento imprescindibile per chi vuole essere un docente capace di educare attraverso le relazioni. Esistono numerosi testi che possono guidare i maestri e le maestre nella comprensione e nel potenziamento del clima relazionale. Tra questi, Litigare fa bene. Il conflitto gestito dai bambini di Daniele Novara propone strategie concrete per aiutare gli alunni a sviluppare autonomia e competenze emotive attraverso la gestione positiva del conflitto. Benessere in classe e apprendimento di Mario Polito esplora invece la dimensione trasformativa del legame insegnante-alunno, offrendo strumenti pratici per costruire un ambiente sereno e stimolante. Gli studi di Daniel Goleman sull’intelligenza emotiva, come nel celebre Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, rappresentano una risorsa preziosa per integrare la dimensione emotiva nella didattica. Anche le pubblicazioni del Centro Psicopedagogico per l’Educazione e la Gestione dei Conflitti, come Litigare con metodo di Novara, offrono spunti metodologici per affrontare le dinamiche complesse della classe. Inoltre, le piattaforme INDIRE e Scuola Futura propongono percorsi online gratuiti per l’autoformazione dei docenti su tematiche come la gestione della classe, l’inclusione e la didattica relazionale. Creare gruppi di lettura pedagogica o di confronto tra colleghi può infine attivare un circolo virtuoso di crescita professionale condivisa, utile per rafforzare l’identità docente e migliorare il benessere scolastico.

Conclusione: prendersi cura delle relazioni per costruire futuro

Investire nel clima relazionale significa agire in profondità sul senso stesso dell’educazione, coltivando quotidianamente i legami che rendono la scuola uno spazio di vita autentico. La serenità, la fiducia e il rispetto che si respirano in una classe non fioriscono spontaneamente: sono il risultato di gesti intenzionali, di attenzioni costanti, di parole scelte con cura e di tempi generosamente offerti all’ascolto e alla presenza. Maestri e maestre, con il loro sguardo vigile e il loro cuore aperto, hanno il privilegio e la responsabilità di accogliere i bambini nei primi passi della loro esperienza sociale, aiutandoli a costruire visioni del mondo fondate sul rispetto, sulla collaborazione e sulla gentilezza.

Coltivare relazioni sane, autentiche e inclusive non è un’azione accessoria, ma rappresenta il fondamento di ogni apprendimento realmente significativo. Quando la classe si trasforma in un luogo in cui ogni bambino si sente accolto nella propria unicità, valorizzato per le sue risorse e sostenuto nelle sue fragilità, allora l’educazione assume il volto della cura e della comunità. In questa prospettiva, la scuola smette di essere un semplice spazio di istruzione per diventare un vero laboratorio di umanità, di intercultura e d’inclusione, un ambiente in cui si impara a vivere insieme, a riconoscere sé stessi attraverso gli altri, tutti, nessuno escluso, e a costruire giorno dopo giorno un futuro più giusto, empatico e consapevole. 

La glottodidattica ludica nella prima infanzia

La glottodidattica ludica nella prima infanzia

di Caterina Fabrucci [1]

La società è sempre più multietnica e per farne parte attivamente è necessario avere competenze linguistiche e plurilinguistiche, per rispondere a questa esigenza la politica del Consiglio Europeo è orientata alla promozione di un processo trasversale volto a formare futuri cittadini in grado non solo di comunicare ed esprimersi in più lingue in modo efficace e adeguato ma anche fare esperienze in più culture, quindi, imparare a imparare.

È lo stesso Consiglio che definisce l’educazione plurilingue nel Quadro Comune Europeo di Riferimento concetto di competenza plurilingue e pluriculturale tende: 

a uscire dalla tradizionale dicotomia, apparentemente equilibrata, rappresentata dalla coppia LI/L2 e a mettere in evidenza il plurilinguismo di cui il bilinguismo non rappresenta che un caso particolare. 

a considerare che l’individuo non dispone di un repertorio di competenze comunicative distinte e separate nelle lingue che conosce, ma di una competenza plurilingue e pluriculturale che le ingloba tutte. 

a mettere in evidenza le dimensioni pluriculturali di questa competenza multipla, senza necessariamente sostenere che la capacità di entrare in rapporto con altre culture si sviluppi insieme alla competenza linguistico-comunicativa. 

(Consiglio d’Europa, Quadro Europeo di Riferimento per le lingue: apprendimento, insegnamento, valutazione p. 205 2002) 

La conoscenza di diversi codici linguistici non è la capacità di utilizzare e comunicare utilizzando le lingue in modo isolato rispetto alla competenza comunicativa nella lingua madre, ma l’abilità che permette ai parlanti competenti di muoversi tra più lingue e culture.

La competenza plurilingue e pluriculturale fornisce ai parlanti competenti “gli strumenti necessari per vivere in un mondo di genti, lingue e culture diverse” (New Zealand Ministry of Education, 2007). La cultura, perciò, non è un elemento di secondaria importanza nell’acquisizione di un linguaggio, ma una presenza fondamentale nella costruzione dell’identità del parlante.

La diffusione del multilinguismo auspicata dal Consiglio d’Europa è alla base del processo di alfabetizzazione avviato negli Stati membri inserendo una lingua straniera nei primi anni di scolarizzazione si basa sull’ipotesi secondo cui l’acquisizione di una lingua diversa dalla lingua madre avvengano nel bambino più facilmente, più velocemente e meglio degli adulti.

I processi naturali di acquisizione della lingua madre, spontanei ed efficaci nel bambino fino all’”età critica”, vengono applicati alla fruizione degli elementi  strutturali e funzionali/comunicativi della lingua seconda, ossia interazione affettiva tra adulto e bambino, imitazione dei modelli linguistici, ripetitività delle situazioni educative, motricità e coinvolgimento dei sensi (Total Physical Response), approccio ludico, nel pieno rispetto delle proposte definite nell’ Indicazioni Nazionali, secondo cui: 

L’apprendimento avviene attraverso l’azione, l’esplorazione, il contatto con gli oggetti, la natura, l’arte, il territorio, in una dimensione ludica, da intendersi come forma tipica di relazione e di conoscenza. Nel gioco, particolarmente in quello simbolico, i bambini si esprimono, raccontano, rielaborano in modo creativo le esperienze personali e sociali. Nella reazione educativa, gli insegnanti svolgono una funzione di mediazione e di facilitazione e, nel fare propria la ricerca dei bambini, li aiutano aa pensare e a riflettere meglio, sollecitandoli a osservare, descrivere, narrare, fare ipotesi, dare e chiedere spiegazioni in contesti operativi e di confronto diffuso. (Indicazioni nazionali 2012, p. 18)

L’apprendimento significativo  

Per trattare di glottodidattica ludica è bene fare cenno al concetto di “apprendimento significativo” che si delinea un processo “globale” in quanto coinvolge la sfera cognitiva, emotiva, affettiva, sociale e costruttivo di integrazione di nuove informazioni su concetti già acquisiti (Rogers C. 1973, Ausubel, D. 1987, Novak J. D.  2001). Anche il gioco è esperienza globale costruttiva ed olistica in cui si integrano componenti affettive come il divertimento, sociali come il rispetto delle regole e lavorare in gruppo, motorie e psicomotorie come la coordinazione e il movimento, cognitive come la definizione di strategie di gioco, apprendere e rispettare le regole, emotive   percepire la tensione, la sfida e infine culturali come le regole specifiche del gioco.

Il gioco premette al discente di partecipare, di essere protagonista, di apprendere attraverso la pratica, accrescendo le proprie conoscenze e competenze impegnandolo divertendosi.

Il gioco per l’apprendimento della lingua

Prima di introdurre la glottodidattica ludica bisogna chiarire, seppur in modo sommario, la distinzione tra il gioco libero (praticato in un ambiente extrascolastico e non controllato) e gioco didattico (proposto dall’educatrice in contesti di apprendimento). Facendo riferimento al pedagogista Aldo Visalberghi citiamo due termini da lui introdotti attività ludica (corrispondente al gioco libero) e attività ludiforme (corrispondente al gioco didattico).  

Per Visalberghi, l’attività ludica:

è impegnativa: prevede un coinvolgimento psico-fisico, cognitivo e affettivo,  

è continuativa: è una costante sia nella vita del bambino e che dell’adulto,  

è progressiva: in quanto si rinnova, è mediatore di crescita cognitiva, relazionale, affettiva, amplia le conoscenze e le competenze,  

non è funzionale: è autotelica, cioè ha scopo in sé stessa.  

L’ attività ludiforme, invece, pur presentando le caratteristiche di impegno, continuità e progressività, non è autotelica, la finalità del gioco didattico si trova al di là del gioco stesso. Il fine che si persegue rimane esterno al gioco e, normalmente, esso è deciso dal docente. 

Le esperienze ludiformi, dunque, “costruite intenzionalmente per dare una forma divertente e piacevole a determinati apprendimenti” (Staccioli, 1998). 

L’attività ludiforme (progettata e gestita dal docente con finalità didattiche, educative e non solo ricreative) può rivelarsi un efficace “mediatore” lo sviluppo sia di competenze linguistico-cognitive che sociali ed educative tramite cui il discente possa appropriarsi di strutture e di lessico attraverso un’esperienza globale e intrinsecamente motivata che lo coinvolga dal punto di vista cognitivo( l’elaborazione di strategie di gioco, l’apprendimento di regole), ma anche affettivo (divertimento e piacere), sociale (la squadra, il gruppo, il rispetto delle regole) motorio e psicomotorie (il movimento, la coordinazione, l’equilibrio) e culturali (le regole specifiche e le modalità di relazione) .

L’apprendimento della L2 nella fascia d’età 0-6

I bambini, pur avendo capacità cognitive non paragonabili a quelle degli adulti (area del ragionamento e dell’astrazione ad esempio) dispongono di caratteristiche neurobiologiche e cognitive che li predispongono all’apprendimento delle lingue.

A livello neurobiologico il cervello del bambino è particolarmente plastico ossia predisposto a interiorizzare con facilità gli input esterni. Inoltre, nei primi anni di vita, è attiva la memoria implicita che consente si imparare a muovere i primi passi, afferrare e manipolare attraverso l’acquisizione di schemi procedurali. imparare una lingua, a ben guardare, si basa sull’apprendimento di schemi procedurali (articolari suoni, mettere in sequenza parole, concordare parole tra di loro). 

È durante la fascia d’età che va dai 0 ai 7 anni e in particolare i primissimi anni di vita (the Age Factor) che l’acquisizione di una lingua straniera avviene con modalità non replicabili successivamente (Penfield 1959; Johnson, Newport 1989; Hyltenstam, Abrahmsson 2003, Knudsen 2004 e Meisel 2010), soprattutto per quanto riguarda le componenti della fonetica per impostare una corretta pronuncia e della morfosintassi (Fabbro 2004 e Daloiso 2009b 88 Favaro).

La scuola dell’infanzia: un contesto favorevole

Ad oggi nella scuola (servizi educativi: nido e infanzia cosa metto??) italiana i bambini vengono esposti alla LS per pochissime ore la settimana (da 1 a 3). Per rendere veramente efficace un progetto di avvicinamento a una LS è necessario che la quantità di esposizione sia ampia e continuativa.

È preferibile fare piccoli interventi quotidiani piuttosto che lunghi interventi una o due volte alla settimana. Attualmente, in Italia, l’unico contesto in cui sono potenzialmente realizzabili interventi quotidiani frequenti e continuativi è la scuola dell’infanzia e nei nidi.

Le attività del nido e scuola dell’infanzia sono scandite da routine. La possibilità di coinvolgere i bambini in situazioni frequenti in cui la lingua viene usata in modo ricorrente e contestualizzato è fondamentale per attivare i meccanismi neurobiologici di acquisizione di una lingua. Ci sono molti momenti che scandiscono la giornata educativa, durante i quali anche in italiano tendiamo a utilizzare in modo ricorrente certe espressioni linguistiche (, accompagnante da comportamenti e gesti esplicativi. I bambini osservano i comportamenti e le azioni degli adulti e dei pari per poi riprodurli. Nei più piccoli i comportamenti ripetitivi sono spesso riflessi, non volontari. Crescendo i bambini utilizzano l’imitazione come strumento di apprendimento in modo più consapevole. Il contatto con la lingua straniera deve essere un’esperienza ricorrente, collocata all’interno di situazioni ben definite, concrete e reiterate nell’arco della settimana educativa. Da rimarcare la differenza fra ricorrenza e ripetizione: una situazione ricorrente non è uguale e sé stessa, non è una replica di un evento già avvenuto: ogni volta puoi variare il tono della voce, modificare alcune espressioni e introdurre elementi nuovi. In questo senso, una situazione è ricorrente non ripetitiva.   La , invece, è una replica delle stesse esperienze quali ascoltare una filastrocca o una fiaba ripetutamente. Anche se solitamente i bambini amano ripetere le attività come quelle indicate, ogni bambino ha preferenze e gusti diversi, in questo senso, più che ripetere la stessa attività è efficace riproporla con varianti (ricorrenza). 

Le routine ricorrenti, dunque, sembrano essere fondamentali per massimizzare gli effetti dell’esposizione linguistica, dato che l’input è associato a esperienze concrete. Il bambino riesce così a collegare il contesto a cui si riferiscono le parole che sente. Crescendo il bambino procede autonomamente a processare l’input ricevuto fino alla produzione spontanea in LS che infatti ha luogo, generalmente, in contesti routinari (Daloiso e Favaro 2012).  

Classificazione e tipologie di giochi  

Affinché la glottodidattica ludica non sia intesa solo come attività autotelica, libera e disinteressata o come solo gioco didattico è necessario chiarire il concetto di ludicità.

Per ludicità si intende “la carica vitale in cui si integrano forti spinte motivazionali intrinseche con aspetti affettivo-emotivi, cognitivi e sociali dell’apprendere” (Caon, Rutka, 2004).  Tutte le attività che, pur non palesemente ludiche, sono sostenute da motivazione intrinseca poiché stimolano curiosità, interesse, desiderio di conoscere e concentrazione mentale possono rientrare in una proposta di didattica ludica in quanto permettono un apprendimento mirato e contemporaneamente incidentale della lingua.

La glottodidattica individua nella ludicità il principio per promuovere lo sviluppo globale del bambino.

Da quanto detto finora emerge chiaramente quanto il concetto di gioco sia complesso e abbracci diverse tipologie e molteplici funzioni.

Coerentemente con la teoria che vede il gioco come un fattore di sviluppo e maturazione dell’allievo, si propone di seguito un elenco, ovviamente non esaustivo, di giochi basato sulla classificazione ontogenetica di attività ludiche per l’apprendimento della lingua di Claparède (1909) ripresa da Piaget (1945), in cui il gioco sottolinea e informa di sé le tappe evolutive del bambino nella sua crescita psico-affettiva, cognitiva e sociale.

Piaget definisce tre tipi di giochi secondo le varie fasi dello sviluppo: i giochi di esercizio, i giochi simbolici e i giochi di regole. 

Giochi di esercizio 

Correlati all’intelligenza senso-motoria, si presentano, generalmente, nei primi 18 mesi di vita. Il bambino, attraverso l’afferrare, il dondolare, il portare alla bocca gli oggetti, l’aprire e chiudere le mani o gli occhi, impara a controllare i movimenti e a coordinare i gesti esplora e sperimenta la realtà circostante: ogni oggetto che scopre lo getta per terra in tutte le direzioni per analizzarne le cadute e le traiettorie, assume e controlla la realtà che lo circonda.

Attraverso l’esplorazione il bambino passa dalla conoscenza sensoriale, percettiva – manipolativa delle cose alla formazione dei concetti. Non appena il bambino comincia ad emettere dei suoni gioca con la lingua così come prima giocava con gli oggetti.

In ottica glottodidattica ludica non c’è contraddizione tra gioco ed esercizio perché la motivazione, l’interesse e il piacere che sostengono l’allievo durante queste attività sono le stesse che si hanno in una situazione di gioco libero. (Cfr. Freddi, 1990)  

Ai giochi-esercizi appartengono tutte le attività che esercitano e fissano le strutture della lingua e il lessico quali ripetizioni (di parole, frasi, testi, canzoni, ecc.); composizioni, scomposizioni, ricomposizioni, associazioni di parole-immagini; incastri di battute in un dialogo; catene di parole, e di frasi; giochi di movimento; interviste e questionari; giochi di natura insiemistica; giochi epistemici legati al problem solving; giochi di enigmistica.

Giochi simbolici

Fanno la loro comparsa verso il secondo anno di vita in cui il bambino entra nel mondo del “come se”, attribuendo agli oggetti significati simbolici, personali, (intelligenza rappresentativa). Con i giochi simbolici aggiunge ai giochi di esercizio la dimensione della simbolizzazione e della funzione, la capacità di rappresentare attraverso gesti una realtà non attuale. Il gioco simbolico si manifesta nella capacità di rappresentare qualcosa attraverso tutti i mezzi espressivi a disposizione, di cui il linguaggio verbale è solo uno, anche se molto importante (funzione semiotica di Piaget). Il gioco simbolico al pari delle altre tipologie dei giochi, pur modificandosi, è presente in tutta la vita dell’individuo.

A questa categoria appartengono tutti i giochi creativi e di libero reimpiego, che coinvolgono lingua verbale e linguaggi non verbali in un’ampia gamma di: drammatizzazione di scenette e storie, simulazioni, Role play; interviste impossibili; completamenti di fumetti; attività di immaginazione; attività espressive, ritmiche, musicali, teatrali; attività di mimo; attività di canto abbinato alla gestualità; filastrocche abbinate a ritmo e gestualità; attività di transcodificazione, di passaggio da codice verbale ad iconico o motorio; creazione di cartelloni, collage, ecc.

Giochi di regole:  

Si presentano circa dall’età di 2 anni e vanno completando la loro strutturazione verso il settimo anno di vita. I giochi di regole introducono il bambino nel mondo ludico dell’immaginazione, del «come se», che è tipicamente umano e prende origine dall’azione.

La stessa lingua è “gioco di regole”, regole sociali di uso, come il rispetto del turno di parola, la comprensibilità degli enunciati, la corretta interpretazione dei ruoli comunicativi, i registri, ecc. Il gioco di regole è destinato a durare tutta l’esistenza. I giochi di regole (giochi games) sono quelli più diffusi a scuola.

Dapprima sono imitazioni dei giochi dei bambini più grandi per poi organizzarsi spontaneamente caratterizzando la socializzazione del bambino. Attraverso i giochi di regole i bambini scoprono le regole sociali di uso della lingua, l’importanza e la funzione dei ruoli dei parlanti: giochi di ruolo (es. amico/amico, barista/cliente, insegnante/allievo, madre /figlio); giochi comunicativi basati sul vuoto di informazione (information gap) e sulla differenza di opinione (opinion gap); giochi tradizionali, le cui regole possono essere oggetto di analisi interculturale: es. Caccia al tesoro (gioco di problem solving), Campana; giochi che utilizzano griglie grafiche, schemi, percorsi, ecc.,(con le opportune modifiche come ad esempio: si procede solo rispondendo correttamente a dei quesiti linguistici): es. Gioco dell’Oca, Snakes and Ladders Battaglia navale; domino di sillabe, di parole di immagine parola/frase; giochi di carte: in cui si usano le regole di giochi noti, applicandole all’apprendimento della lingua;Tria/Tris/Filetto: in cui si deve fare tris risolvendo quesiti linguistici. Giochi creativi e di libero reimpiego, che coinvolgono lingua verbale e linguaggi non verbali: attività espressive, ritmiche, musicali, teatrali – attività di mimo; attività di canto abbinato alla gestualità; filastrocche abbinate a ritmo e gestualità; attività di transcodificazione, di passaggio da codice verbale ad iconico o motorio; creazione di cartelloni, collage, ecc. fumetti; giochi di memoria: memory classico, indovinelli/giochi a indovinare, ecc; drammatizzazione di scenette e storie; giochi di simulazione, del “far finta che”, del “se fossi”;  role-play.

Glottodidattica ludica, intercultura e inclusione

 L’attività ludica è lo strumento principe per veicolare anche concetti e valori propri dell’educazione interculturale (oltre che, ovviamente, per far esercitare la lingua) come riconosciuto nella Circolare Ministeriale 205/90: “L’educazione interculturale (…) comporta non solo l’accettazione ed il rispetto del diverso, ma anche il riconoscimento della sua identità culturale nella quotidiana ricerca di dialogo, di comprensione, di collaborazione, in una prospettiva di reciproco arricchimento”. Ora, il gioco presenta due caratteristiche che possono favorire proposte didattiche interculturali. Il gioco è transculturale: tutti i bambini, indipendentemente dalla loro origine geografica e culturale, giocano e condividono alcuni aspetti appartenenti ad una “grammatica universale ludica”, come, ad esempio, il rispetto delle regole. Il gioco, quindi, come approccio paritetico tra le diverse conoscenze e competenze; il gioco è culturalmente determinato; “un gioco, scrive G. Staccioli (1998), è specchio/immagine della società nella quale si sviluppa ed ogni giocatore “gioca” (consapevolmente o meno) anche regole, simboli, aspirazioni, fantasie che sono proprie della cultura nella quale vive.” 

L’insegnante, consapevole dell’aspetto relazionale e culturale delle attività ludiche che, adeguate all’età dei bambini, risponde alla prospettiva del legislatore sviluppando “la propria azione educativa in coerenza con i principi dell’inclusione delle persone e dell’integrazione delle culture, considerando l’accoglienza delle diversità un valore irrinunciabile” (Indicazioni nazionali del 2012 pag. 14). La nuova scuola dell’infanzia, pertanto, risponde ai bisogni educativi e ai diritti alla cura dei bambini e delle bambine dai tre ai sei anni “in coerenza con i principi del pluralismo culturale e istituzionale presenti nella Costituzione della Repubblica, nella Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e nei documenti dell’Unione Europea. […] Essa si pone la finalità di promuovere nei bambini lo sviluppo dell’identità, dell’autonomia, della competenza e li avvia alla cittadinanza” (Indicazioni nazionali del 2012, p.16). L’introduzione di una seconda lingua aiuta pertanto a “porre le fondamenta di un comportamento eticamente orientato, rispettoso degli altri, dell’ambiente e della natura” poiché espande “il primo esercizio del dialogo che è fondato sulla reciprocità dell’ascolto, l’attenzione al punto di vista dell’altro e alle diversità di genere, il primo riconoscimento di diritti e doveri uguali per tutti”. (Ibidem)

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[1] Tutor organizzatore presso il CdL in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Roma Tre.

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