Dalle invasioni germaniche a Giustiniano
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Viste le lacune di molti e le difficoltà ad affrontare programmi completi con gli alunni del serale, ho pensato di sintetizzare in un unico file tutta la storia romana. Un’impresa ardua, ma ci ho provato! Molto spesso gli alunni dei percorsi serali sono persone che hanno frequentato i primi anni di scuola superiore e poi hanno interrotto gli studi; quando tornano a scuola sono passati anni, in alcuni casi anche decenni, per cui ricordarsi la storia antica è veramente difficile. Si trovano, così, a dover affrontare direttamente lo studio della storia medievale, se non addirittura quella contemporanea, senza ricordare o senza aver mai saputo nulla di quella precedente. Se consideriamo il fatto che la nostra storia è l’evoluzione di quella romana e che la nostra lingua e la nostra letteratura sono collegate alla latinità, allora è proprio un peccato restare con questo vuoto di conoscenza. Per questo motivo ho pensato di sintetizzare in poche pagine tutta la storia romana, sperando di lasciare qualche traccia in chi tempo per approfondire ne ha poco. Ovviamente è bene aiutare la comprensione del testo e accompagnare la lettura dello stesso con interruzioni verbali atte a puntualizzare ed esplicare argomenti accennati brevemente, in modo da fornire un quadro chiaro di oltre venti secoli di storia.
Tratti salienti di Storia Romana
La nascita di Roma fu la
conseguenza di un lungo processo, cui contribuirono non solo i latini, ma anche
molte altre popolazioni, tra cui gli etruschi, i sabini e i greci. Il
popolamento dell’Italia avviene attraverso varie sovrapposizioni di
popoli.
La fondazione di Roma è fissata
alla metà dell’VIII sec. a. C. , in quel periodo l’Italia
presenta una serie di popoli: etruschi, greci, fenici, umbri, siculi, sicani,
latini, ecc. E’ in un’ Italia dal popolamento eterogeneo, ma dominate da due
culture avanzate (etrusca e greca) che nasce Roma. Nei primi anni sono numerose
le lotte interne: Roma si espande sottomettendo i popoli che la contrastano,
primo tra tutti quello dei latini da cui i romani stessi discendono.
La leggenda della fondazione di Roma
Secondo la tradizione, Roma sarebbe stata fondata il 21 aprile del 753 a. C. I romani, diventati i padroni del mondo, attribuivano alla loro città origini divine. Partendo da antiche leggende, il poeta Virgilio ( 70-19 a. C.) ne raccontò la storia nel poema Eneide. Enea, figlio di Venere, fuggito da Troia in fiamme col vecchio padre Anchise e il figlio Ascanio chiamato anche Iulo, giunse, guidato dagli dei, presso la foce del Tevere. Accolto dal re Latino, sposò la figlia mentre suo figlio Iulo fondava Albalonga (sui colli Albani, nel Lazio). Qui finisce l’Eneide, ma il racconto continua, tramandato da grandi storici di Roma (Tito Livio il più autorevole e il greco Dionigi di Alicarnasso), che hanno raccolto altre leggende. Passarono gli anni. Re di Albalonga divenne Numitore, ma il fratello Amulio lo spodestò e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a diventare sacerdotessa della dea Vesta rinunciando quindi al matrimonio. Tuttavia il dio Marte, invaghitosi di lei, si unì alla fanciulla e nacquero due figli, Romolo e Remo. Temendo di perdere il trono Amulio li fece mettere in una cesta e gettare nel Tevere, ma la cesta, protetta dagli dei, s’impigliò nei rami di un fico e una lupa li allattò, consentendo loro di sopravvivere.
In realtà, alcuni storici, sostengono che Romolo altri non fosse che un pastore a capo di un gruppo dedito al brigantaggio.
Dalla monarchia alla Repubblica a Roma
Dal latino Senatvs PopvlvsQve Romanvs – il Senato e il Popolo Romano = il Senato e il popolo, cioè le due classi dei patrizi e dei plebei che erano a fondamento dello Stato romano.
Durante il periodo monarchico l’organizzazione politica è basata sulla monarchia costituzionale elettiva: il potere diviso tra re, senato e comizi curiati (assemblee di cittadini romani). Romolo (romano) fu il primo dei 7 re di Roma, gli altri furono: Numa Pompilio (sabino), Tullo Ostilio (romano), Anco Marzio (sabino), Tarquino Prisco (etrusco), Servio Tullio (etrusco), Tarquinio il Superbo (etrusco).
La cacciata dell’ultimo re espone Roma
alle mire dei popoli vicini, come Volsci, Sabini e la Confederazione latina.
La
rivolta dei patrizi, dei popoli italici, degli abitanti delle colonie della
Magna Grecia sono le ragioni che determinano l’avvento della repubblica.
I
romani si troveranno ad affrontare guerre contro i sanniti , guerre contro i
greci e contro i cartaginesi per governare in Italia, nell’Asia Minore e
nell’Africa del Nord.
Nell’VIII secolo la Grecia estendeva la sua
influenza nell’Italia meridionale; Magna Grecia viene denominata l’area
geografica colonizzata.
Dal 509 a.C. i patrizi decisero di
istituire un nuovo tipo di governo in cui le decisioni venissero prese non da
un re, ma da tutti gli abitanti di Roma: tale governo fu chiamato res
publica, ossia “cosa pubblica”. Al posto del re furono eletti due consoli,
che rimanevano in carica per un solo anno. Accanto a loro venivano eletti,
sempre ogni anno, altri magistrati che si occupavano di amministrare la città e
il suo territorio. In pratica però nei primi anni della repubblica il potere
rimase nelle mani dei patrizi, gli unici che potevano essere eletti consoli e
diventare magistrati o senatori. I plebei, ossia tutto il resto
della popolazione non appartenente alle famiglie dei patrizi, erano esclusi da
qualsiasi decisione politica.
I plebei volevano però partecipare alla vita
politica. Così nel 494 a.C. attuarono una sorta di sciopero: si riunirono su un
colle fuori dalle mura di Roma (secessione
sull’Aventino e sul monte Sacro), non svolgendo più alcun lavoro e non
partecipando al servizio militare. Sarebbero ritornati alla vita normale solo
se i patrizi avessero loro concesso di eleggere i propri rappresentanti
politici, i tribuni della plebe, e di riunirsi in assemblee formate
da soli plebei, i concili della plebe. I patrizi furono costretti ad
accettare le loro richieste. Dalla metà del V secolo i plebei ottennero altre
concessioni che permisero progressivamente la loro piena partecipazione alla
vita politica. Il conflitto tra patrizi e plebei finì nel 367 a.C.,
quando una legge stabilì che uno dei due consoli dovesse essere plebeo
(leggi licinie sestie). In questo
modo i plebei riuscirono ad avere libero accesso anche al Senato, dato che i
consoli, una volta terminato il loro anno di carica vi entravano di diritto.
Ricordiamo, però, che per accedere al consolato servivano mezzi economici che
solo una piccola parte della plebe possedeva.
Nel I secolo
a.C. fu eletto console Gaio Mario, a
lui si oppose Silla, portavoce delle
idee della nobiltà.
La guerra civile tra Mario e Silla e la dittatura di quest’ultimo avevano dimostrato che le istituzioni repubblicane (Senato, magistrature e comizi) avevano perso gran parte del loro valore e riuscivano a imporsi, sulla scena politica, generali che potevano contare sull’appoggio del proprio esercito. Morti Mario e Silla, infatti, fu la volta di altri tre generali: Marco Licinio Crasso, Gneo Pompeo e Caio Giulio Cesare.
Fattosi valere come generale di Silla nella guerra
civile contro Mario, Pompeo venne eletto console nel 70 a.C. insieme con
Crasso.
Il Senato preoccupato che Pompeo, divenuto troppo
potente, seguisse i passi di Silla e instaurasse una dittatura, non volle
riconoscere i provvedimenti da lui presi in Oriente e rifiutò di concedere le
terre che aveva promesso come premio ai suoi soldati. Pompeo, per ottenere
quanto gli spettava, cercò quindi l’appoggio degli uomini allora più influenti
a Roma: Marco Licinio Crasso e Caio Giulio Cesare,
un patrizio che era diventato il capo dei popolari
(sostenendo gli interessi dei plebei per ottenere l’allargamento
delle basi del potere favorendo allo stesso tempo i grandi commercianti, i
finanzieri e i cavalieri; a questa fazione si opponevano gli ottimati, “i migliori”: ristretto
gruppo di famiglie che rappresentavano la nobilitas,
alla quale facevano parte le antiche famiglie patrizie e quelle plebee più in
vista. Pompeo sosteneva questa fazione).
Nel 60 a.C. i tre strinsero un patto privato, noto
con il nome di primo triumvirato, in quanto indicava l’unione di tre (tres) uomini (viri)
a capo del governo.
La
guerra civile tra Cesare e Pompeo
Nel 53 a.C. Crasso era morto e si era quindi rotto
il triumvirato. Cesare, finita la sua campagna militare in Gallia, voleva
tornare a Roma e candidarsi al consolato. Il Senato, temendo che
Cesare portasse al potere i popolari, preferì sostenere Pompeo e lo elesse
unico console. Ordinò poi a Cesare di fare rientro a Roma come privato
cittadino, sciogliendo il suo esercito. Cesare rifiutò. Nel 49 a.C. si diresse
verso Roma e a capo delle sue truppe attraversò il fiume Rubicone,
che segnava il confine del territorio sacro di Roma. Era una vera e propria
dichiarazione di guerra contro il Senato e Pompeo. Questi, consapevole della
forza di Cesare, preferì lasciare Roma e fuggire prima nel Sud Italia e di lì
in Oriente, per avere il tempo di radunare un esercito. Cesare lo raggiunse e
lo affrontò a Farsalo, in Grecia. I pompeiani furono sconfitti e
Pompeo fuggì in Egitto, dove venne ucciso dal re Tolomeo XIII, che credeva così di farsi amico Cesare. Questi,
invece, lo punì per il suo atto, lo depose dal trono e consegnò il regno alla
sorella Cleopatra.
Nonostante la sua politica mirasse a non scontentare
nessuno, una parte della classe senatoria non accettò il suo enorme potere,
considerandolo un pericolo per la repubblica. Così alle Idi di marzo del 44 a.C.,
mentre entrava in Senato, Cesare fu ucciso a pugnalate da un gruppo di
senatori.
Nel calendario romano le Idi erano
il tredicesimo giorno di ogni mese, ad eccezione dei mesi di marzo, maggio,
luglio e ottobre nei quali cadevano il quindicesimo giorno.
I senatori che avevano ucciso Cesare avrebbero
voluto il ritorno della repubblica, ma troppe cose erano ormai
cambiate nella società e nell’organizzazione politica di Roma. Cesare aveva
nominato come erede nel suo testamento il figlio adottivo (nonché suo
pronipote) Gaio Ottavio. Questi prese il nome del padre Gaio Giulio
Cesare Ottaviano e, deciso prima di tutto a vendicare la morte del
padre, si alleò con Marco Antonio, luogotenente di Cesare, e con un
altro generale, Marco Emilio Lepido. Nel 43 a.C. i tre formarono il secondo triumvirato.
Marco Antonio si innamorò di Cleopatra, la sposò e
instaurò una monarchia di tipo orientale. La popolazione romana e
il Senato iniziarono a temere che Antonio volesse costituire un regno
indipendente, sottraendo a Roma le province orientali. Ottaviano capì che era
il momento di rompere il triumvirato per ottenere tutto il potere e, messo da
parte Lepido, dichiarò Antonio nemico di Roma. Radunò quindi un esercito,
raggiunse l’Egitto e si scontrò con Antonio ad Azio, nel 31 a.C. L’esercito egiziano,
nonostante fosse più numeroso, venne sconfitto. Antonio e Cleopatra fuggirono,
ma, inseguiti da Ottaviano, si tolsero la vita. Ottaviano rimaneva ormai
l’unico incontrastato dominatore di Roma. Con Cleopatra finì l’ultima delle
grandi monarchie ellenistiche, nate dalla spartizione dell’immenso impero di
Alessandro Magno.
L’Impero
a Roma
Tredici anni dopo la morte di Cesare, Ottaviano si
ritrovava unico erede del potere del padre adottivo e doveva scegliere quale
tipo di governo instaurare a Roma: la dittatura l’avrebbe portato
all’insuccesso, così come era capitato a Cesare, e anche il modello di monarca
orientale pensato da Marco Antonio non era ben visto dai Romani. Capì che
l’unico modo per non fallire era riproporre un governo basato sulle vecchie
istituzioni repubblicane, in modo da ottenere il consenso di tutte le
classi sociali. Il primo titolo che si fece attribuire fu infatti quello
di restitutor rei publicae, colui che restaura la repubblica.
In realtà ripristinò i comizi e i concili della plebe che, come in età
repubblicana, eleggevano tutti i magistrati. Le magistrature, però, diventarono
solo delle cariche onorifiche e persero del tutto i loro
poteri, che passarono nelle mani di Ottaviano. La scelta politica di Ottaviano
metteva quindi definitivamente fine alla repubblica, ma, per come
veniva proposta, appariva ai Romani una completa restaurazione delle
istituzioni repubblicane. Nel 27 a.C. il Senato attribuì a Ottaviano il titolo
di Augusto (cioè “degno di venerazione”). Con Ottaviano
comincia di fatto l’epoca imperiale.
Ottaviano abbellì Roma con nuovi templi e monumenti.
Uno tra i più importanti fu sicuramente l’Ara pacis, l’Altare
della pace, che Ottaviano fece costruire proprio al centro del Campo di Marte,
la piazza dedicata al dio della guerra. Con quest’opera ben visibile a tutti i
cittadini, Augusto si presentava come l’iniziatore di una nuova era di
pace dopo tanti anni di guerre.
Il sistema politico creato da Augusto rimase
invariato fino all’inizio del III secolo. Questo lungo periodo di stabilità
assicurò a tutta la popolazione dell’Impero pace e benessere. Un aspetto che,
però, Ottaviano non aveva curato e che diventò spesso motivo di tensione e di
conflitto era la successione. Come scegliere il successore di un’eredità così
importante? Augusto aveva capito che la successione dinastica,
ossia l’eredità di padre in figlio o tra membri della stessa famiglia, sarebbe
stato l’unico modo per evitare forti contrasti e garantire stabilità. Così dopo
di lui si succedettero imperatori della sua stessa famiglia, la dinastia
giulio-claudia, fino al 68 d.C., quando Nerone, l’ultimo
imperatore della dinastia, morì. La successione dinastica non rimase però una
regola fissa. Dopo un’altra dinastia, la dinastia flavia (69-96),
in cui l’Impero passò dal padre Vespasiano ai suoi due
figli, Tito e Domiziano, venne inaugurato, sotto
la spinta del Senato, che sperava così di controllare maggiormente la scelta
degli imperatori, il sistema dell’eredità per adozione: ogni
imperatore prima di morire aveva il compito di scegliere (e quindi di
“adottare”) il suo successore.
Durante l’Impero di Vespasiano fu progettato e
costruito l’Anfiteatro Flavio,
inaugurato nell’80 dal figlio Tito. Questo grandioso monumento, noto con il
nome di Colosseo per le sue
dimensioni enormi, poteva contenere 50 000 spettatori. Era destinato a ospitare
spettacoli per il popolo, come le lotte tra i gladiatori e le battaglie navali,
per le quali si riempiva di acqua il centro dell’anfiteatro.
Successore di Vespasiano fu il figlio Tito che
governò soli tre anni (morì per una forte febbre) con la stessa moderazione del
padre e si trovò costretto a fronteggiare disastri naturali quali l’incendio di
Roma e l’eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei, Ercolano e
Stabia; domò una grave rivolta a Gerusalemme a seguito della
quale fu distrutto il tempio e iniziò la diaspora degli Ebrei.
Alla fine del III secolo d.C., dopo un lungo periodo
di crisi, salì al potere Diocleziano, che cercò di porre lo stato
sotto il suo totale controllo.
Convinto che i cristiani
fossero un pericolo per il bene dello Stato, nel 303 scatenò contro di loro una
lunga e sanguinosa persecuzione: furono distrutti i templi,
confiscati i beni delle chiese, bruciati i libri sacri e molti subirono la
condanna a morte.
Nel 312, alla fine di lotte sanguinose, prese il potere Costantino.
Il primo provvedimento del nuovo imperatore fu l’editto di Milano del 313 d.
C., conosciuto anche con il nome di editto di tolleranza,
perché concedeva ai cristiani la libertà di praticare la loro fede. Il
cristianesimo fu posto sullo stesso piano del paganesimo e di tutte le altre
religioni dell’Impero. Tuttavia Costantino favorì in ogni modo i cristiani:
concesse loro privilegi, diede ai vescovi incarichi importanti nella cura
dell’amministrazione e della giustizia, dichiarò la domenica giorno di festa
obbligatorio e fece costruire numerose chiese. L’imperatore si era reso conto
che il cristianesimo era ormai molto diffuso, soprattutto nelle città, e
pensava che la fede in un unico Dio e una religione di grande forza potessero
rendere lo Stato più forte e stabile. Grazie alla libertà di culto il cristianesimo
si diffuse anche in zone molto lontane dell’Impero.
Alla morte di Diocleziano, inizialmente, l’impero
aveva due padroni, Costantino in Occidente e Licinio
in Oriente. Costantino aveva ottenuto la vittoria decisiva contro il
rivale Massenzio alle porte di Roma nel 312 d. C. , anno in
cui fece costruire l’arco di Costantino per commemorare la vittoria. Nel 324
d. C. riuscì a unificare l’impero ed essere unico
imperatore. La capitale non fu portata a Roma, ma fu costruita una nuova città
chiamata Costantinopoli che divenne la capitale; politica,
cultura ed economia gravitarono così a Oriente.
Negli anni successivi alla morte di Costantino il
numero dei cristiani aumentò rapidamente finché il cristianesimo divenne
la religione più diffusa tra gli abitanti delle città:
ovunque, soprattutto nelle regioni orientali dell’Impero, si formarono comunità
cristiane molto ben organizzate sotto la guida di un vescovo. La vittoria
definitiva del cristianesimo arrivò nel 379 d.C., quando divenne
imperatore Teodosio. Egli pensava che il cristianesimo e i vescovi
fossero un valido sostegno per rafforzare la propria autorità; per questo
motivo, con l’editto di Tessalonica del 380 d.C., stabilì che il cristianesimo
fosse la sola religione ammessa
nell’Impero: venivano così vietate tutte le altre religioni e gli antichi
riti pagani, definiti «insani e dementi». Era la fine del paganesimo.
La
divisione dell’Impero romano e il crollo dell’Impero romano d’Occidente
Alla morte di Teodosio, l’Impero romano fu diviso in
due: l’Impero romano d’Oriente e l’Impero romano d’Occidente. Soprattutto
quest’ultimo fu preso d’assalto dai popoli germanici (Franchi, Angli e Sassoni,
Vandali, Burgundi, Visigoti e Unni) che in alcune zone dell’Impero arrivarono a
formare dei veri e propri insediamenti.
Tra il 406 e il 407 d.C. numerose tribù
germaniche, spinte dal popolo degli Unni, varcarono il Reno e
si riversarono in Occidente alla ricerca di nuove terre da abitare. Ormai
caduto in una crisi profonda, l’Impero d’Occidente non si risollevò più.
Nel 476 il generale di stirpe germanica Odoacre,
comandante della guardia imperiale in Italia, fu acclamato re dai soldati e
depose l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo. Questa data segna
il crollo definitivo dell’Impero romano d’Occidente. Le invasioni barbariche determinarono,
così, la fine dell’Impero romano d’Occidente!
Da questo momento iniziano a formarsi i regni
romano-barbarici.
In Italia il re
degli ostrogoti venne, con il sostegno dell’imperatore d’Oriente, a
scacciare Odoacre (493). Teodorico era cresciuto nella corte
romana ed era grande ammiratore della civiltà imperiale. Non volle che goti e
romani si mescolassero, proibendo i matrimoni misti, ed ebbe cura di far vivere
pacificamente i due popoli, ciascuno con le proprie leggi. Lasciò ai romani l’amministrazione del regno
e riservò ai goti la difesa militare. La sede del re
ostrogoto era Ravenna che si
arricchì di monumenti, tra cui il Mausoleo
(tomba di Teodorico) , oggi patrimonio
mondiale dell’Umanità.
Alla morte di Teodorico in Europa troviamo in Oriente l’imperatore Giustino.
Suo successore, nel 527 d. C., fu il nipote, di bassa estrazione sociale, Giustiniano.
Il suo sogno è la restaurazione imperiale. Tale obiettivo si scontra
inevitabilmente con i goti in Italia, al termine di un continuo susseguirsi di
battaglie che frastagliano l’intera Europa troveremo una Roma completamente
distrutta e spopolata.
Giustiniano non seppe comprendere come, da un punto
di vista economico, l’impero si reggesse sull’Asia e sul Medio-Oriente,
piuttosto che sull’Italia. Alla sua morte il regno era parecchio indebolito.
Lasciò ai posteri la più completa e coerente
raccolta di diritto romana, il Codice, che trovò nell’Impero
d’Oriente e nell’Italia meridionale (sottoposta ai bizantini) una chiara
affermazione.
L’Impero romano d’Occidente era oramai crollato
sotto le spinte dei barbari, quello d’Oriente – l’impero bizantino – rimaneva ricco e forte. Costantinopoli, la capitale,
era la città più ricca e grande del Mediterraneo.
Distacco
tra Oriente e Occidente
Culturalmente tra bizantini e romani c’era un’enorme
distacco: i bizantini parlavano e scrivevano in greco, lingua che
l’Europa occidentale aveva completamente dimenticato. Inoltre, i bizantini si
consideravano gli unici continuatori della civiltà romana.
In campo religioso, nell’VIII secolo, i
vescovi di Roma si opposero alla distruzione delle sacre icone (immagini
sacre solitamente dipinte su tavola), ordinata dagli imperatori di
Costantinopoli che consideravano superstizioso il culto delle immagini. Questo
è l’inizio della rottura che avverrà tra le due Chiese nell’XI secolo.
L’Impero romano d’Oriente, separatosi
dall’occidente dopo la morte di Teodosio I nel 395 d.c. dovrebbe segnare la
fine dell’impero “romano” per sostituirlo con il termine
“bizantino”, da Bisanzio, l’antico nome della capitale Costantinopoli,
oggi Istambul.
L’Impero
bizantino, tra molte lotte, terminò nel 1453 con la conquista di
Costantinopoli da parte dei Turchi ottomani guidati da Maometto II. Non fu
solo un cambiamento di dominatori ma un cambiamento di civiltà, ovvero una
retrocessione di civiltà.
Prof.ssa E. Gurrieri
Di seguito trovate il pdf scaricabile
Tratti-salienti-di-Storia-Romana-convertito
La matematica dei Romani strumento di civiltà. La grande opera della matematizzazione del Diritto.
I Romani non sono trattati bene dagli storici della matematica.
Si è detto di Morris Kline, che li chiama «agenti distruttori» della matematica e di quanto tali giudizi siano ben radicati nella storiografia. Un Morris Kline del Settecento è, ad esempio, Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783) . Il breve excursus storico che egli traccia nella voce Matematica scritta per l’Encyclopédie (tradotta integralmente per Matmedia da Biagio Scognamiglio) è sufficientemente intriso di giudizi duri, estremi, come il fatto che il popolo dei Romani “pensava soltanto a soggiogare e governare il mondo intero”. Ed è indubbia la notevole influenza nell’orientare gli storici successivi che ha avuto questo excursus, sia per l’autorevolezza dell’autore, sia per il ruolo di riferimento culturale assunto dall’Encyclopédie.
Tra i Romani, a d’Alembert, non era simpatico neppure Cicerone.
Lo accusa di parlare con leggerezza perfino di Archimede. «Forse è fare qualche torto a un genio sublime come Archimede metterlo accanto a un bello spirito come quel Cicerone che nelle materie filosofiche da lui trattate non ha fatto altro se non esporre in lunghi e imbellettati discorsi le chimere pensate da altri». Un giudizio durissimo che Cicerone non meritava soprattutto per il suo “rapporto” con Archimede, come mette in evidenza Mario Geymonat nel suo lavoro sul siracusano.
Anche Tacito è preso di mira da d’Alembert.
«A Roma si era così ignoranti in Matematica che comunemente si dava il nome di matematici, come si vede in Tacito, a tutti quelli che si arrischiavano nella divinazione, sebbene le chimere della divinazione e dell’astrologia siano ancora più distanti dalla Matematica di quanto lo sia la pietra filosofale dalla Chimica. Lo stesso Tacito, uno dei più grandi spiriti fra gli scrittori di ogni tempo, ci dà con le sue opere una prova dell’ignoranza dei Romani nelle più elementari e semplici questioni di Geometria e Astronomia.
Tacito nella vita di Agricola, nel fare la descrizione dell’Inghilterra, scrive che verso l’estremità settentrionale di questa isola i giorni in piena estate non hanno quasi ore notturne; ed ecco la ragione che ne adduce: “scilicet extrema et plana terrarum humili umbra non erigunt tenebras, infraque coelum et sidera nox cadit”. Noi non ci cimenteremo come i commentatori di Tacito nel dare un senso a ciò che non ne ha affatto; ci accontenteremo di avere mostrato con questo esempio che la smania di diffondere una falsa conoscenza e di parlare di ciò che non si capisce è assai antica.
Un traduttore di Tacito asserisce che questo storico in questo passo considera la Terra come una sfera la cui base è circondata dall’acqua, e via dicendo. Noi non sappiamo che cosa sia la base di una sfera!»
Il verdetto di d’Alembert è senza appello!
Nel suo excursus cita naturalmente i matematici Tolomeo, Pappo di Alessandria, Eutocio di Ascalona, Proclo, ma per lui sono tutti “greci”. Lo è anche Diocle, “noto per la cissoide ma del quale non si conosce altro che il nome, non sapendo con precisione in quale epoca sia vissuto”. Diocle è, come gli altri, “greco”. Per d’Alembert e per gli storici successivi, chiunque si dedichi agli studi della geometria è un greco. Posizione decisamente estrema, che molti storici successivi hanno generalizzato in senso antropologico, attribuendo l’etichetta di matematica greca a tutta la matematica prodotta nel periodo dell’impero e oltre, a sottolineare la prosecuzione della tradizione della geometria e della aritmogeometria nate come specialità greche da Talete, Pitagora e Euclide e che cederanno il passo alla matematica araba.
Posizioni meno radicali di quelle di d’Alembert faticheranno a comparire sulla scena della storia della matematica.
Florjan Cajori nella sua History del 1893 segna però una discontinuità evidente: arriva addirittura a riconoscere qualcosa di buono al popolo romano. Loda ad esempio la “notazione romana”, anche se la dice di provenienza etrusca. Afferma che quel sistema di numerazione “è degno di nota per il fatto che in esso è implicato un principio che non trova riscontro in nessun altro; vale a dire, il principio di sottrazione. Se una lettera viene posta prima di un’altra di valore maggiore, il suo valore non deve essere aggiunto, ma sottratto a quello della maggiore”.
In più è rimarchevole il fatto che per indicare numeri grandi la matematica romana ha prodotto una barra orizzontale che posta sopra una lettera ne aumenta di mille volte il valore. Da lodare sono anche il sistema duodecimale usato per le frazioni e le tre diverse tecniche impiegate per i calcoli aritmetici: rendicontazione sulle dita, sull’abaco e su tavole preparate allo scopo. E nei calcoli i Romani è indubbio che siano stati molto bravi, altrimenti non avrebbero potuto realizzare le grandi opere che ci hanno lasciato. Florian precisa che le tavole dei calcoli preparate da Vittorio d’Aquitania rimasero in uso per tutto il Medioevo, ma che l’autore è meglio conosciuto per il suo canon paschalis, una regola per trovare la data corretta per la Pasqua, che pubblicò nel 457 d.C.
Florian Cajori riconosce altresì ai Romani una certa dimestichezza con i problemi economici, di pagamenti di interessi, fin dai primi anni della repubblica.
«Le leggi romane sull’eredità – egli scrive – hanno dato origine a numerosi esempi aritmetici. Particolarmente singolare è la seguente: un uomo morente vuole che, se sua moglie, essendo incinta, dà alla luce un figlio, questi riceverà i 2/3 e lei, come, ad esempio, 1/3 dei suoi beni; ma se nasce una figlia, ne riceverà 1/3 e sua moglie 2/3 . Succede che nascono due gemelli, un maschio e una femmina. Come saranno divisi i beni in modo da soddisfare la volontà dell’uomo? Il celebre giurista romano Salvianus Julianus decise che i beni fossero divisi in sette parti uguali, delle quali il figlio ne riceve quattro, la moglie due, la figlia una».
È qui certamente il riconoscimento più significativo. Anche altri esempi Florian ne ravvisa, come l’opera di Giulio Cesare che ordinò un’indagine sull’intero impero per garantire un’equa modalità di tassazione e riformò il calendario o come la destrezza particolare che i Romani avevano raggiunto nelle applicazioni della matematica, ad esempio nella geometria pratica impiegata dagli agrimensori o gromatici. Ma il riconoscimento decisamente più significativo è nell’ambito del Diritto. Florian con l’esempio sopra riportato lo accenna solamente.
Gli esperti giuristi riconoscono invece ai Romani di aver dato forma e struttura matematica al sistema delle leggi e del diritto.
Giustiniano, «ultimo» grande imperatore romano, “codificò” l’antico diritto romano, affermando di aver raccolto i cinquanta libri dei Digesta in sette parti (septem partes), non vanamente, né senza l’applicazione di una razionalità precisa (non perperam neque sine ratione), ma guardando alla natura e all’arte dei numeri (sed in numerorum naturam et artem respicientes) e procurando, quindi, alle diverse materie una conveniente divisione (et consentaneam eis divisionem partium conficientes).
«Questa affermazione di Giustiniano – scrive Luigi Labruna[1] – fondò una serie di interpretazioni per così dire “matematizzanti” del Corpus iuris civilis, che hanno avuto una parte non secondaria nella valutazione del diritto romano come ratio scripta e nella conseguente sua ampia e profonda diffusione (si parla di “recezione”) presso tutte le nationes della Res publica christiana medievale. E proprio tali letture di quell’ordinamento giuridico, pur astratto dal suo contesto storico di formazione ed applicazione, hanno fondato la tradizione giuridica europea in cui siamo ancora pienamente inseriti e della cui evoluzione siamo – dobbiamo essere – nell’attuale temperie storica e politica autori e protagonisti».
Un’opera di matematizzazione ovviamente impossibile senza una lunga tradizione di istruzione e di educazione alla sensibilità matematica. Cicerone e Tacito, i personaggi così duramente criticati da d’Alembert, lo testimoniano.
Scrive Tacito nel Dialogus de oratoribus:
«Vi è nota quell’opera di Cicerone chiamata Bruto, nella quale egli parla dei suoi inizi come oratore, dei suoi progressi, cioè della sua educazione oratoria. Egli ci dice che imparò da Quinto Muzio il diritto civile, dall’accademico Filone e da Diodoto tutte le parti in cui si presenta la filosofia, e poi, non contento di quei maestri che aveva avuto a Roma, viaggiò nell’Acaia e nell’Asia minore, per diventare esperto di tutte le varie discipline e di tutte le arti. E perciò a Cicerone non mancava la conoscenza né della geometria, né della musica, né della grammatica, né di qualsiasi altra arte liberale. Egli aveva appreso le finezze della dialettica, la utilità della filosofia morale, i princìpi del moto e delle cause dei fenomeni fisici.»
Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert aveva decisamente torto!
[1] In Atti del XVI Congresso UMI, Napoli 1999
Laureato in matematica, docente e preside e, per quasi un quarto di secolo, ispettore ministeriale. Responsabile, per il settore della matematica e della fisica, della Struttura Tecnica del Ministero dell’Istruzione. Segretario, Vice-Presidente e Presidente Nazionale della Mathesis dal 1980 in poi e dal 2009 al 2019, direttore del Periodico di Matematiche.
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