Autoefficacia

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Continua la lettura su: https://www.blogdidattico.it/blog/2021/11/14/autoefficacia/ Autore del post: Blog Fonte: https://www.blogdidattico.it
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Il growth mindset
Coltivare la mentalità di crescita a scuola
di Bruno Lorenzo Castrovinci
Nel contesto educativo italiano, segnato dalla sfida della dispersione scolastica, dell’inclusione e del recupero degli apprendimenti, il concetto di growth mindset può rappresentare una risposta strategica, in grado di promuovere un nuovo paradigma culturale dell’apprendimento fondato su fiducia, plasticità e valorizzazione dell’errore.
Negli ultimi anni, il concetto di growth mindset ha acquisito una crescente diffusione nel panorama educativo internazionale, configurandosi come uno degli approcci pedagogici più dibattuti e promossi a livello globale. Nato dagli studi della psicologa statunitense Carol Dweck negli anni Novanta presso l’Università di Stanford, questo approccio si fonda sull’idea che l’intelligenza e le capacità non siano doti innate e immutabili, bensì competenze dinamiche che possono essere sviluppate nel tempo attraverso l’impegno, la perseveranza e l’apprendimento dagli errori. A differenza della mentalità fissa, che tende a cristallizzare i limiti e a scoraggiare il miglioramento, il growth mindset favorisce negli studenti un atteggiamento positivo verso le sfide, una maggiore capacità di resilienza e una visione dell’errore come parte integrante e costruttiva del processo formativo. Questo approccio ha attirato l’attenzione non solo degli insegnanti, ma anche di genitori, dirigenti scolastici, formatori e ricercatori, divenendo punto di riferimento in numerose iniziative scolastiche sia negli Stati Uniti sia in Europa.
La diffusione nelle scuole e le criticità emerse
L’entusiasmo con cui molte scuole, soprattutto nel Regno Unito e negli Stati Uniti, hanno accolto la teoria del growth mindset testimonia la sua attrattiva pedagogica. Si tratta di un’idea semplice, intuitiva e carica di positività, capace di valorizzare la soggettività dello studente e di orientare l’insegnamento verso la costruzione dell’autoefficacia. Tuttavia, nonostante la popolarità del concetto, il corpus di evidenze scientifiche a supporto della sua efficacia come strumento per il miglioramento dei risultati scolastici è ancora oggetto di discussione.
Una ricerca condotta nel Regno Unito dalla Education Endowment Foundation (EEF), in collaborazione con il National Institute for Economic and Social Research (NIESR), ha valutato l’impatto del programma Changing Mindsets, ideato per promuovere la growth mindset tra gli studenti dell’ultimo anno della scuola primaria. I risultati, misurati tramite i test nazionali di literacy e numeracy, non hanno mostrato miglioramenti significativi nei livelli di apprendimento rispetto al gruppo di controllo. È interessante notare che anche molti insegnanti delle scuole oggetto di rilevazione, pur non adottando formalmente il programma, utilizzavano già spontaneamente pratiche riconducibili al growth mindset, come l’enfasi sullo sforzo e sull’autovalutazione. Questa sovrapposizione rende difficile l’isolamento degli effetti specifici dell’intervento. La ricerca sottolinea, quindi, la necessità di un’implementazione strutturata, coerente e monitorata, che non si limiti a slogan motivazionali o interventi frammentari, ma che coinvolga in modo organico l’intero impianto pedagogico e l’identità professionale del docente.
Tra intuizione pedagogica e fondamento empirico
La distanza tra il successo intuitivo del modello e i risultati talvolta contraddittori della ricerca solleva interrogativi sull’efficacia reale del growth mindset. La teoria ha il merito di porre l’accento su aspetti cruciali dell’educazione, come la motivazione, la percezione di sé e l’atteggiamento verso l’errore, ma da sola non garantisce il miglioramento degli apprendimenti. È essenziale integrare il growth mindset in un contesto educativo complesso e coerente, che includa pratiche strutturate, valutazioni formative e un ambiente scolastico favorevole alla sperimentazione.
Il genetista britannico Robert Plomin ha criticato l’adozione acritica del growth mindset, considerandolo una “moda” educativa priva di basi scientifiche solide, se non adeguatamente contestualizzato. Per evitare una banalizzazione del concetto, è fondamentale che i docenti siano formati criticamente, in modo da comprendere le opportunità offerte dal modello e valutarne con consapevolezza limiti e potenzialità. Il growth mindset può fiorire solo se incorporata in una visione sistemica che promuova la motivazione, l’autoefficacia e la gestione dell’errore come strumento di crescita.
Declinazioni operative in aula: rendere visibile il processo
Carol Dweck ha più volte ribadito che il growth mindset non deve essere trasmesso in modo astratto, ma reso visibile attraverso pratiche concrete e quotidiane da parte degli insegnanti. Si tratta di un lavoro pedagogico profondo, che investe il modo di valutare, incoraggiare, ascoltare e comunicare. L’obiettivo è quello di spostare l’attenzione dal risultato all’impegno, dalla risposta corretta alla qualità del ragionamento, dalla prestazione alla riflessione sul processo. Questo implica anche una riconsiderazione dei criteri di successo, allontanandosi da una visione prestazionale e classificatoria per abbracciare un’idea di crescita continua e personalizzata.
Le attività didattiche devono essere autentiche, motivanti e orientate al problem solving. Compiti sfidanti, ma accessibili, aiutano gli studenti a sviluppare la flessibilità cognitiva e l’autoregolazione, due competenze chiave nella società della conoscenza. Il feedback deve essere costruttivo, orientato al miglioramento e focalizzato sulle strategie adottate, piuttosto che sul risultato ottenuto. È attraverso il dialogo riflessivo che si promuove l’apprendimento metacognitivo e si rafforza la consapevolezza di sé.
L’ambiente scolastico, sia fisico che relazionale, deve favorire la collaborazione, l’ascolto e la fiducia reciproca. Un’aula in cui gli errori sono accolti come opportunità, in cui ogni voce è valorizzata e in cui il docente si pone come guida empatica, rappresenta il contesto ideale per far attecchire il growth mindset. Solo in un clima coeso e coerente, gli studenti potranno interiorizzare davvero questo approccio e sviluppare un’identità scolastica fondata sulla resilienza e sulla possibilità del cambiamento.
Aspetti pedagogici della growth mindset
Il growth mindset si inserisce nella cornice della pedagogia attiva e costruttivista, che valorizza l’alunno come soggetto protagonista dell’apprendimento. Il docente assume il ruolo di facilitatore dei processi cognitivi, relazionali e metacognitivi, accompagnando l’evoluzione dell’identità dello studente. L’errore viene riconosciuto come elemento prezioso del percorso educativo e il processo diventa più importante del prodotto finale, in linea con il pensiero di John Dewey, secondo cui si impara facendo, riflettendo e rielaborando.
Approcci come il learning by doing, la didattica laboratoriale e la valutazione formativa trovano nel growth mindset un naturale alleato. Il contributo di Jerome Bruner e Lev Vygotskij appare fondamentale per comprendere come la zona di sviluppo prossimale e il supporto docente favoriscano la progressiva autonomia del discente. L’obiettivo non è soltanto acquisire competenze, ma formare cittadini consapevoli, resilienti e autonomi. In questa prospettiva, l’educazione alla resilienza, all’autodisciplina e all’autoefficacia, come sottolineato anche da Albert Bandura, diventa parte integrante della quotidianità scolastica e dell’interazione educativa.
Aspetti neuroscientifici e implicazioni cognitive
Le neuroscienze confermano la plasticità cerebrale come elemento centrale nell’apprendimento. Studi condotti in Europa e negli Stati Uniti, attraverso avanzate tecniche di neuroimaging come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e l’elettroencefalografia (EEG), mostrano come l’attività ripetuta, l’impegno intenzionale e l’emozione positiva rafforzino le connessioni neurali e favoriscano la memoria a lungo termine. In particolare, le ricerche statunitensi dell’Università di Stanford e britanniche dell’Università di Cambridge hanno evidenziato come i processi metacognitivi e motivazionali attivino regioni cerebrali legate all’autoregolazione e al rinforzo dopaminergico, facilitando l’apprendimento profondo.
Il growth mindset, stimolando la motivazione intrinseca e la fiducia nelle proprie capacità, attiva i circuiti dopaminergici del cervello, in particolare il sistema mesolimbico, promuovendo l’adattamento flessibile alle nuove informazioni. L’idea che l’intelligenza sia modificabile nel tempo rispecchia il concetto di plasticità sinaptica, su cui convergono numerose evidenze neuroscientifiche.
Daniela Lucangeli, psicologa dello sviluppo e docente presso l’Università di Padova, ha introdotto il concetto di “didattica delle emozioni”, evidenziando l’importanza di un clima scolastico che riduca l’ansia e favorisca l’autoefficacia. Le sue ricerche condotte in Italia, con il gruppo di ricerca Mind4Children, dimostrano che un contesto emotivamente sicuro promuove lo sviluppo cognitivo e la capacità di affrontare sfide complesse. L’attivazione positiva del sistema limbico favorisce una più efficace elaborazione delle informazioni, confermando come emozione e cognizione siano profondamente interconnesse. Il growth mindset, dunque, non è solo una teoria motivazionale, ma una strategia fondata su robuste evidenze neurobiologiche e psicopedagogiche, capace di incidere sul benessere e sul rendimento scolastico degli studenti.
Buone pratiche per ogni ordine di scuola
L’applicazione del growth mindset va calibrato in base all’età degli studenti e alle loro esigenze evolutive, nella consapevolezza che ogni fase dello sviluppo richiede strumenti e approcci specifici, capaci di accompagnare i giovani lungo il percorso di costruzione dell’identità personale e cognitiva.
Nella scuola dell’infanzia, l’apprendimento passa attraverso il gioco simbolico, l’esplorazione sensoriale e l’esperienza corporea: contesti che, secondo Jean Piaget, rappresentano forme privilegiate di assimilazione e accomodamento. Valorizzare l’errore, in questo primo ciclo di vita, significa creare un clima di fiducia in cui ogni tentativo, anche fallimentare, diventa occasione per apprendere e per strutturare una relazione positiva con sé e con l’ambiente.
Nella scuola primaria, l’ingresso nei saperi formali richiede un accompagnamento metacognitivo costante: strumenti come rubriche valutative, mappe concettuali, diari di bordo o portfolio permettono ai bambini di rappresentare il proprio percorso e di comprendere che l’apprendimento è un processo evolutivo e non un’etichetta immutabile. Come sottolineato da John Hattie, è fondamentale che il feedback sia formativo, chiaro e costruttivo, per sostenere l’autoefficacia e la motivazione intrinseca.
Nella scuola secondaria di primo grado, la costruzione dell’identità, messa alla prova da nuovi interrogativi esistenziali e relazionali, rende centrale il tema della narrazione di sé. In questa fase, come osserva Jerome Bruner, la dimensione narrativa dell’apprendimento consente di organizzare le esperienze in forma di racconto, favorendo la consapevolezza delle proprie risorse e la rielaborazione degli insuccessi. Promuovere il growth mindset significa, qui, sostenere la riflessione, il confronto e l’accettazione del limite.
Nella scuola secondaria di secondo grado, l’adolescente si affaccia all’età adulta e ha bisogno di spazi di autonomia, progettualità e pensiero critico. L’insegnante diventa mentore, guida capace di stimolare la responsabilità, la resilienza e la capacità di auto-valutarsi. In linea con le riflessioni di Albert Bandura sull’autoefficacia, è importante offrire sfide cognitive equilibrate e occasioni per esercitare il pensiero divergente, affinché la crescita non sia solo accademica ma anche personale e sociale.
Manuali e letture per approfondire
Per approfondire la teoria del growth mindset e comprenderne le sue applicazioni in ambito educativo, si possono consultare diversi testi fondamentali disponibili in lingua italiana. Uno dei riferimenti principali è l’opera di Carol Dweck, Mindset. Cambiare forma mentis per raggiungere il successo (Franco Angeli, 2023), in cui l’autrice, pioniera della teoria, illustra come l’atteggiamento mentale influenzi profondamente i risultati scolastici, le dinamiche familiari e l’ambiente professionale. Il libro rappresenta una guida essenziale per chiunque desideri comprendere i meccanismi psicologici alla base dell’apprendimento e della motivazione.
In linea con questo approccio, Elena Malaguti in Educarsi alla resilienza (Erickson, 2005) indaga la stretta connessione tra resilienza, emozioni e crescita personale, offrendo una prospettiva educativa incentrata sul rafforzamento del mindset positivo, soprattutto nei contesti più fragili.
Un contributo importante è dato anche da Daniela Lucangeli, che in A mente accesa. Crescere e far crescere (Mondadori, 2024) unisce i risultati delle neuroscienze alla riflessione pedagogica, ponendo al centro il ruolo della curiosità, della motivazione e dell’intelligenza emotiva nei processi di apprendimento.
Tutti questi testi condividono un orientamento educativo che riconosce il potenziale trasformativo della mente, sottolineando l’importanza dell’atteggiamento con cui si affrontano le sfide, e forniscono strumenti teorici e operativi per costruire ambienti di apprendimento più consapevoli, resilienti e orientati alla crescita.
Conclusioni
Il growth mindset non è soltanto una teoria educativa, ma rappresenta una visione trasformativa e profondamente etica dell’apprendimento e dello sviluppo umano. In un’epoca caratterizzata da incertezze e mutamenti rapidi, adottare un growth mindset significa restituire centralità al potenziale dell’individuo, promuovendo un approccio inclusivo, empatico e orientato alla valorizzazione della persona nella sua unicità. Quando tale paradigma viene integrato in modo consapevole nella quotidianità scolastica, non si limita a influenzare i risultati didattici, ma contribuisce alla creazione di ambienti relazionali fondati sulla fiducia, sul riconoscimento reciproco e sulla possibilità di apprendere anche dagli errori. La crescita, dunque, non si configura come traguardo statico, ma come processo continuo che si nutre di motivazione intrinseca, apertura mentale e riflessione critica. Come ricorda Carol Dweck, “La convinzione di poter migliorare è già l’inizio del cambiamento”. Questa affermazione, se assunta in profondità, invita tutta la comunità scolastica a rinnovare la propria cultura pedagogica, investendo in pratiche che alimentino il senso di autoefficacia e la possibilità concreta di trasformazione.
L’OrientamentoStrade e segnavia
di Maria Grazia Carnazzola
1. Lo stato dell’arte.
Con il D.M. n. 328/22.12.2022, sono state adottate dal MIM le Linee Guida per l’orientamento collegate alla missione 4 del PNRR; con D.M. pari data, sono stati individuati i criteri per la ripartizione delle risorse finalizzate alla valorizzazione del personale, con particolare riferimento alle attività di orientamento, di inclusione e di contrasto alla dispersione scolastica e con la nota n. 958, sempre del 5 aprile, si sono fornite le prime indicazioni per l’avvio delle iniziative propedeutiche all’attuazione. Scadenza per la presentazione delle autocandidature al ruolo di docente tutor (per gruppi da 30 a 50 alunni) e docente orientatore (uno per ogni istituzione scolastica), fissata al 2 maggio, poi posticipata al 31 maggio 2023. Le due figure non sono propriamente una novità: il docente tutor era previsto dalla L.53/2003 – per la scuola primaria- passando dal modulo all’équipe pedagogica- e per la secondaria di primo grado. Negli istituti professionali il docente tutor è previsto dal D. L.vo n. 61/13.4.2017, attuativo della legge 107/2015 “…per motivare, orientare e costruire progressivamente il percorso formativo…” di ciascun alunno. L’insegnante orientatore, per le funzioni che dovrà svolgere, può essere sovrapposto alla funzione strumentale (prima funzione obiettivo) per l’orientamento, da anni inserito nell’organigramma funzionale delle istituzioni scolastiche di secondo grado. Non è facile comprendere appieno, e precisamente, quali saranno i compiti che i docenti tutor e il docente orientatore saranno chiamati ad assolvere, anche per una certa divaricazione tra ciò che è indicato nelle Linee Guida del dicembre 2022, le prime indicazioni contenute nella nota del 5 aprile 2023, o -ancora- nei messaggi /spot diffusi dai media che possono creare fraintendimenti sul significato dell’orientamento scolastico, spostando l’attenzione sulla valorizzazione dei docenti che può essere percepita come il fine di tutta l’operazione. Non hanno senso, rispetto a qualsiasi proposta di cambiamento, né l’accettazione passiva né la critica lamentosa e l’ostilità ideologica, ma più di qualche elemento di confusione è presente in tutta l’operazione. Quando un cambiamento è destinato a diventare progetto professionale, il passo deve essere lasciato alla ricerca collegiale di soluzioni condivise ai problemi che ogni cambiamento inevitabilmente porta con sé nel concreto di ogni prassi: cambiare la scuola non è sinonimo di cambiare il fare scuola. Non saranno le retoriche enunciazioni enfatizzate, gli stiracchiamenti concettuali, gli accanimenti lessicali, gli slogan confusivi (che possono sconcertare docenti, famiglie
e senso comune) a produrre innovazione. E non saranno neanche gli esperti che si propongono alle scuole, a titolo gratuito per le scuole ma non per il proprio staff, a migliorare la situazione. Se al centro deve essere posto l’apprendimento di ogni studente, la differenza non la fa il solo sapere disciplinare dell’esperto: servono competenze didattico-operative e metodologiche, calate sul gruppo di apprendimento e sui singoli, dove garantire uguaglianza di opportunità ha un prima e un dopo ed è innanzitutto garantire uguaglianza di risultati, nel limite del possibile. Così come la documentazione didattica dei percorsi di insegnamento/apprendimento (e-portfolio) e la valutazione-autovalutazione dei prodotti (capolavori) degli allievi non possono essere considerati solo strumenti da integrare in una prassi di lavoro già data. Molti sembrano convinti di poter argomentare sull’educazione scolastica come su altri aspetti della vita sociale (ad esempio l’organizzazione delle attività produttive o il marketing), delegittimando la cultura della scuola in modo a volte non facilmente rilevabile. La cultura sottostante a questa operazione è orientata ai risultati in tempi brevi ed è spiegabile con la linearità delle relazioni causa-effetto che non è, però, in grado di spiegare e interpretare i problemi dell’educazione: la rapidità del risultato non è di per sé un valore positivo se il fine è quello di qualificare- secondo un certo progetto politico- il profilo di una popolazione. Se l’intento invece è il solo trasferimento agli allievi-in tempi brevi- di saperi e abilità utili al sistema produttivo, la Scuola deve chiedersi con forza cosa avverrà dopo quel breve periodo, quando ciò che al momento è necessario e utile non lo sarà più. Quale identità assumeranno i ragazzi quando- a seguito dei processi di ammodernamento- le loro competenze saranno valutate come risorse strumentali in rapido declino di valore sul mercato? Si sostiene che occorre ridare dignità al lavoro; al netto degli aspetti superati e del tempo trascorso, qualche suggestione potrebbe venire ancora da Kerschensteiner: se non collochiamo storicamente e spazialmente i saperi pratici e teorici, si perdono il significato e il senso abilitante dell’esperienza concreta (che poi diventa teoria) per il vivere sociale. Ciò che accade nella società si riverbera sulla scuola, sui comportamenti di studenti e docenti, sulla qualità delle narrazioni che si fanno di ciò che accade, sull’attribuzione di funzioni che dovrebbero riguardare altri settori. Un esempio: la virtualizzazione della vita e delle relazioni ha portato a una regressione del controllo dei comportamenti e delle emozioni, che sfociano nella mancanza di rispetto della persona, prima ancora che dei ruoli e delle funzioni. La pandemia ha accelerato, non innescato, dinamiche sociali che erano già in atto: del disagio (e della maleducazione) dei ragazzi si parlava da tempo, come dell’inadeguatezza della scuola e della famiglia, come pure dell’urgenza di un cambio di paradigma…
2. Sostenere per orientare: norme, vincoli, approcci.
Cosa significa orientare nella scuola dell’infanzia, primaria, secondaria di primo o di secondo grado, all’università? Quali sono le teorie e gli approcci di riferimento? Quale livello di autonomia organizzativa e gestionale nella realizzazione dei percorsi è riservata alle scuole? Questo dovrebbe essere il punto di partenza per una riflessione condivisa, tenendo conto che le scuole non sono tutte nelle stesse condizioni e che le riflessioni possono essere diverse ma dovranno essere collegiali e riguardare: i fondamenti storici e teorici dell’orientamento; la progettazione; la continuità/discontinuità degli interventi tra scuola ed extrascuola; il gruppo di apprendimento; la disciplinarità cioè l’alfabetizzazione primaria; la trasversalità ossia l’alfabetizzazione secondaria; la valutazione, quando misurare è necessario ma non basta per garantire il minimo comune necessario e il massimo individualmente possibile; le decisioni e le responsabilità tra docenti del Consiglio di classe e tutor e tra scuola, extrascuola e mondo del lavoro; la condivisione con le famiglie; il monitoraggio dei processi e gli indicatori di prodotto… per fare qualche esempio.
a) Approccio tecnico-speculativo.
– Teoria dei modelli evolutivi. Lo sviluppo professionale avviene per stadi di maturazione progressiva (Super D.E.1984); ne deriva che l’attività di orientamento dovrebbe enfatizzare l’analisi dei momenti di transizione tra scuola/scuole, scuola /lavoro, lavoro/lavori per favorire il miglior adattamento possibile dell’individuo ai vari contesti.
– Teoria dell’adattamento persona-ambiente. La scelta professionale correla con il profilo personologico: ogni individuo cerca i contesti lavorativi che meglio soddisfano le sue aspettative e rispondono alle sue competenze (Holland J.L.,1992).
– Modelli centrati sulla scelta e sullo sviluppo professionale, tra cui
+ la prospettiva socio-cognitiva che sottolinea la rilevanza dei processi cognitivi al momento della scelta, ad esempio il livello di credenza di autoefficacia può influenzare l’orientamento verso un certo tipo di attività Nota-Soresi).
– Teoria dell’elaborazione delle informazioni si interessa delle persone che, al momento della scelta, manifestano ansia e insicurezza per cui si propongono attività di problem solving professionale con rinforzo delle capacità di pianificazione (Peterson et al.,1996).
– Teoria della costruzione della carriera assegna particolare importanza ai modi con cui gli individui danno senso alla vita quotidiana; anche allo sviluppo professionale si fonda sul significato che ciascuno attribuisce alle esperienze lavorative che incidono sui livelli di autostima e di iniziativa personali (Richardson, 1993).
– Il paradigma del Life-design che privilegia le modalità individualizzate di consulenza che non si limitano alla fase di transizione, ma che in modo continuativo implementano categorie formative riguardanti l’autoprogettualità, la resilienza, la speranza, il pensiero positivo, anche in risposta alle continue trasformazioni sociali (Savickas, Nota et al.2009).
b) Approccio scolastico.
Non è immediatamente rintracciabile la matrice concettuale che sottende all’idea di orientamento, nei documenti ministeriali sia del MIM sia del MUR, sia delle diverse istituzioni scolastiche, per cui si riportano le modalità che, in genere, le scuole utilizzano per accostarsi alla tematica dell’orientamento.
-Il modello informativo- modalità largamente utilizzata dalle scuole, ora anche dal ministero, caratterizzata da una vasta gamma di informazioni, fornite a studenti e genitori, sugli indirizzi di studio e sui possibili sbocchi occupazionali presenti.
–il modello psicoattitudinale o diagnostico attitudinale mette a fuoco il rapporto tra attitudini individuali (intese come una soggettiva disposizione naturale) e requisiti di un corso di studi o di una professione;
– il modello narrativo-di matrice costruttivista, fondato sulla convinzione che le narrazioni autobiografiche costruiscano le identità personali e professionali, facilitano le dinamiche relazionali e le competenze autorientative dell’individuo che costruisce modelli mentali e un sistema di significati per comprendere la realtà in cui vive, competenze chiave e quindi life skill.
Proprio sull’epistemologia del costruzionismo sociale si fonda l’innovativo approccio al processo di orientamento denominato Life design- in italiano “disegno-progetto di vita”-, che si interessa alle modalità/stili di vita con cui le persone costruiscono progressivamente tutta la loro vita, non solo quella professionale “dietro ogni autobiografia c’è sempre una persona che dà importanza e priorità a certe cose rispetto ad altre. Alcune di queste sono…beni essenziali con i quali il soggetto vive…che possono riguardare degli ideali di autorealizzazione, di giustizia sociale, di uguaglianza, di rispetto e di cura per gli altri…e sono inevitabilmente le cose che il soggetto racconta quando progetta il futuro” (Parker D.).
Il modello intercetta – per aspetti diversi- alcuni focus dei diversi modelli di orientamento e le diverse pratiche. Ma quali sono i presupposti formativi e sociali che legittimano il paradigma del Life design come elemento di cambiamento?
c) Il Life design.
Un gruppo internazionale di docenti ha lavorato- dal 2006- a questo approccio innovativo al tema dell’orientamento (per l’Italia Soresi S. e Nota L.), partendo dal presupposto che ogni individuo dà senso alla propria esperienza e agisce nelle relazioni con gli altri a partire da un insieme di credenze e di convinzioni personali, derivanti dai vissuti e dai modi in cui li rappresenta nella vita di tutti i giorni. La conoscenza e l’identità sono frutto dell’interazione sociale situata storicamente e mediata simbolicamente dal linguaggio.
I costrutti che vanno presidiati nel Life design, in quanto categorie formative, sono i seguenti:
Adattabilità– l’azione di orientamento deve aiutare le persone ad avere un pensiero sul futuro, a sviluppare il senso del controllo, atteggiamenti di fiducia, di curiosità e di impegno.
Narrabilità– gli interventi di orientamento devono aiutare a costruire e a narrare le proprie storie di vita e il progetto formativo e/o professionale, una mappatura delle azioni intraprese per una consapevole costruzione di sé e del sé.
Operatività– rappresentano dimensioni irrinunciabili il fare, l’impegno, il lavoro, le diverse attività che contribuiscono all’esercizio delle capacità e a coltivare interessi per una migliore conoscenza di sé.
Intenzionalità- nella attuale situazione di incertezza, l’approccio orientativo più efficace è quello imperniato su una progettazione continua, sulla revisione/rivisitazione delle esperienze, delle scelte, dei significati; nella scuola non si tratta di accompagnare gli allievi passo-passo in tutte le esperienze, ma di proporre un’educazione, istruzione, formazione che spinga a fare scelte autonome, generative e responsabili, per rispondere alle domande fondamentali che ciascuno si pone: che cosa voglio fare nel corso della mia vita; come posso progettare il mio percorso in questa società in cui vivo; che cosa dovrei fare per realizzare questo o un altro progetto; quale contributo posso dare in questo contesto a cui appartengo… richiedono interventi per tutto l’arco della vita, olistici e sistemici, che vedano cioè la persona in molti ruoli esistenziali: come studente, cittadino, membro di una famiglia, portatore di interessi personali, di diritti, di doveri.
Ne conseguono interventi curvati sul contesto, interventi di valorizzazione /negoziazione delle relazioni passate e presenti, l’inclusività degli approcci, la riflessione sulle rappresentazioni che la persona elabora sulle esperienze che compie e sui fatti. Tutto questo in ottica di prevenzione, misurando l’efficacia degli interventi sulla capacità di produrre modificazioni negli esiti, favorendo come già detto le categorie formative che rimandano a costrutti quali speranza, ottimismo, resilienza intesi come stati di motivazione positiva più che tratti di personalità. La speranza nel dizionario Merriam-Webster viene definita “avere un desiderio che si caratterizza per aspettative di risultato” che- nell’incertezza odierna- porta, oltre che affidarsi alle personali credenze di autoefficacia, a pianificare percorsi e azioni specifiche da valutare su evidenze empiriche. Saper approcciare la complessità della vita nei suoi aspetti positivi e negativi, con ottimismo ma senza ingenuità o dogmatismi, significa imparare a rapportarsi con la realtà accogliendo l’inevitabile, con resilienza e cercando di fronteggiare anche gli eventi traumatici riorientando e riorganizzando i piani di azione. Nello specifico dell’orientamento, si sottolinea la capacità di affrontare e gestire forme di disagio scolastico, per reagire allo stress emotivo e all’ansia di prestazione, nel ricercare corretti stili attributivi, attivando processi cognitivi e comportamentali di autoefficacia e strategie di coping per controllare gli eventi e le proprie emozioni (Lazarus). Gli approcci tradizionali all’orientamento hanno enfatizzato la relazione tra interessi, attitudini, talenti disciplinari e il futuro sviluppo scolastico e lavorativo di una persona. L’evidenza empirica ha dimostrato spesso che questo nesso non si realizza, per cui è necessario passare dalla logica lineare al paradigma della complessità, attivando percorsi flessibili a sostegno di progetti di vita soggetti ad alto tasso di imprevedibilità, puntando su competenze trasversali ad alto grado di trasferibilità (competenze chiave e life skills).
Al di là del ruolo e delle funzioni che saranno assunte dalle figure del docente orientatore e dal docente tutor, la scuola è chiamata a riflettere su una diversa connotazione dell’imparare (imparare con le discipline e non le discipline) che si realizza attraverso i contenuti, le procedure e i metodi delle discipline viste anche nella loro spendibilità sociale, coniugando formazione culturale ( che ha per fine l’umanizzazione) e formazione professionale che mira all’acquisizione di conoscenze, abilità, competenze e atteggiamenti- flessibili e aperti al cambiamento- necessari per partecipare attivamente al mondo del lavoro (Quaglino). Nel discorso pedagogico attuale i due aspetti sono legati e distinti, in relazione dialettica e antinomica (Baldacci), difficilmente riconducibili a sintesi ma che è necessario non opporre concettualmente in culturale/professionale, disinteressata/utilitaristica, generale/specialistica, riducendo la formazione a un solo polo dell’antinomia. Il problema è quello di un disegno unitario che da una parte consideri il sistema integrato di formazione e dall’altra la questione dell’educazione permanente. Per la scuola tutto questo significa cercare pragmaticamente, sul piano culturale, didattico e organizzativo, una ri-significazione e selezione dei contenuti disciplinari, la costruzione di nuovi e diversi contesti di apprendimento, con vincoli trasversali agli insegnamenti disciplinari e un diverso approccio alla contemporaneità, cercando una conferma empirica delle pratiche progettate e attuate, ri-coniugando formazione e apprendimento e componendo le diversità dei modelli di riferimento, considerati criticamente, anche tenendo conto dei danni che l’estremizzazione dei valori dell’una o dell’altra matrice può produrre.
Le criticità che la transizione dalla Scuola Secondaria di 2° grado all’Università e al mondo del lavoro continuano a comportare, manifestandosi nella difficoltà di tenere il ritmo di studio, nel livello delle prestazioni e nell’atteggiamento verso il fare, chiamano in causa categorie psicologiche e formative quali il locus of control, le credenze di autoefficacia, la comprensione e l’elaborazione delle informazioni, le abilità sociali. L’occupabilità oggi richiede- più che livelli statici di expertise- competenze sociali, di problem solving e di pianificazione (che rimandano a strategie di coping), di adattabilità, operatività e intenzionalità per poter essere narrate a sé stessi e agli altri: un lavoro per essere davvero ben fatto deve soddisfare anche chi lo fa.
Quale scuola, quale lavoro, quali competenze… sono aspetti che le persone riconsiderano anche sul piano della vita quotidiana. Mondo del lavoro e mercato del lavoro vanno perciò mostrati insieme, nei percorsi curricolari e PCTO, per dare ai giovani una visione dell’apprendimento e della formazione come dimensioni sistemiche e permanenti della vita di ciascuno. Si sostiene che occorre ridare dignità al lavoro: vero. Ma questo è un problema sociale prima che scolastico: se il mio lavoro conta ed è importante per gli altri, io conto, sono importante. La dignità e la consapevolezza di meritare lo stipendio o il salario per cui si occupa un posto non deve essere sottovalutato (Sennet).
3. Per una prospettiva che non sia riduttiva o banale.
Se intendiamo l’orientamento come un processo che sviluppa capacità decisionali, strategie di coping, abilità di problem solving nelle dimensioni individuale e di reciproca interazione con l’ambiente, viene in primo piano l’importanza che assume l’apprendimento delle abilità del cittadino per i peculiari tratti costitutivi: sono comportamenti appresi, orientati all’obiettivo, governati da regole, basati su elementi cognitivi e affettivi, orientanti per il potenziale (aspettative). La necessità di potenziare e generalizzare comportamenti prosociali risulta evidente nella gestione delle pressioni sociali, nei processi di autodeterminazione, di decision making, nella difesa delle proprie ragioni e nel riconoscimento dei propri limiti. Scuola e vita quotidiana- familiare, dei gruppi di aggregazione…- sono luoghi di probabili incomprensioni e conflitti, centrati sul compito o relazionali; il rapporto studenti/studenti, studente/docente, docenti/orientatori, può essere la dimensione più idonea per affrontare questi aspetti in ambienti “protetti”. Tenendo fermo l’obiettivo di insegnamenti curricolari di alto livello, si tratta di mettere in luce abilità e strategie generali quali: la puntualità nelle esecuzioni, il rispetto dei tempi, l’attenersi al tema, il criticare i fatti e non le persone, l’evitare l’uso di stereotipi o di affermazioni generiche, l’essere assertivi, il chiedere e accettare aiuto. Impostando le attività didattiche in modo da mettere in evidenza: identificazione e descrizione del problema, ricerca di soluzioni possibili, individuazione delle strategie migliori per la soluzione, verifica dell’efficacia delle soluzioni e delle azioni adottate.
Apprendimento da intendere come base empirica di riferimento per ogni intervento quindi, ma il temine non ha una concezione univoca, come testimoniano le diverse teorie (comportamentista, cognitivista, strutturalista, costruttivista…) e le diverse pratiche metodologico-didattiche, per cui il rischio è di trasferire la confusione al concetto di formazione. Un chiarimento può venire dal pensiero di Bateson che ipotizza l’esistenza di tre livelli logici di apprendimento che implicano cambiamenti di diverso tipo. Baldacci ha trasferito i tre livelli al concetto di formazione. “La formazione di primo ordine si riferisce al protoapprendimento e concerne il processo di acquisizione di conoscenze e abilità; se queste ultime riguardano saperi scolastici …si dà solitamente il nome di istruzione. Se, invece, tali conoscenze-abilità sono relative ad ambiti professionali, la formazione si definisce professionale. La formazione di secondo ordine si riferisce al deuteroapprendimento; concerne la strutturazione di abiti mentali ed emotivi che si danno come qualità personali: formae mentis, stili cognitivi… La formazione di terzo ordine si riferisce all’apprendimento di terzo livello; è un tipo particolare di formazione perché riguarda la liberazione dagli abiti mentali creati dalla formazione di secondo ordine. Come tale questo livello è tipico, ma non esclusivo, della formazione degli adulti” (pp.64- 65). Questi livelli, per quanto distinti dal punto di vista logico, sono connessi sul piano operativo, esattamente come per l’apprendimento. Dell’educazione- formazione-istruzione a scuola sono responsabili i docenti singolarmente e come consiglio di classe: quale allora il ruolo del docente tutor all’interno del Consiglio, quale relazione con i singoli docenti, quale peso nelle decisioni che devono per forza di cose essere collegiali? Ricordiamo che l’organizzazione delle scuole fa riferimento ad alcuni concetti-chiave che ne regolano la vita, le dinamiche, gli equilibri, le relazioni interne ed esterne, le responsabilità nel raggiungimento dei fini istituzionali e soprattutto la didattica. Parole quali curricolo (per una scuola del progetto- non dei progetti-); programmazione (per una scuola dalla parte dell’allievo, uguale per tutti e diversa per ciascuno); continuità (per una scuola come sistema); collegialità (per progettare e decidere insieme); valutazione per l’apprendimento (per decidere, misurare è necessario ma non basta); autonomia, rendicontazione, autovalutazione di sistema…
4. Tutta la città ne parla? Forse no.
Una cosa non è chiara: accanto al docente orientatore, al docente tutor, agli studenti, alle famiglie…dove sono gli insegnanti, quelli dei consigli di classe che non saranno né tutor né orientatore? Quali saranno ad esempio i rapporti con i tutor degli studenti delle loro classi? E le responsabilità? Chi deciderà quale percorso di recupero o di approfondimento, il come rendere evidente l’apprendimento (Dewey, 1911), quale valutazione, quali riferimenti scientifico-pedagogici, quale documentazione…Di questo quasi niente viene detto, almeno stando ai documenti ufficiali licenziati dal MIM fino ad ora.
Le norme, quando sono scritte bene, delineano un cambiamento che dovrebbe consentire alle scuole di rispondere al meglio, ma non fanno il cambiamento; lo fanno le scuole, ciascuna partendo dalle situazioni concrete di contesto e di funzionamento reali, per offrire una formazione capace di rigenerarsi e un pensiero che sappia rimodularsi sulla base delle situazioni culturali, economiche e sociali spesso inattese, dove i saperi settoriali diventano un ostacolo quando i contesti lavorativi subiscono cambiamenti rapidi e profondi, quando la mobilità geografica diventa pressante e l’occupazione diventa un progetto da inventare e da costruire e non una realtà da attendere. Anche l’educazione- istruzione- formazione deve confrontarsi con questi mutamenti e con la domanda di nuova qualità della vita, di nuovi modelli di esistenza e di cittadinanza sociale, per rivendicare i diritti e onorare i doveri, superando le ideologie per farsi prassi quotidiana. Di questo si tratta quando si parla di transizioni sociali, ecologiche, digitali. È il lavoro- indispensabile sul piano esistenziale e sociale- della scuola, di ogni scuola, di tutti gli insegnanti, qualsiasi sia la loro funzione, il ruolo, i compiti assegnati all’interno dell’organizzazione. Ogni scuola autonoma è un’organizzazione complessa ad alta rilevanza etico-sociale, il cui funzionamento deriva da un elevato livello di professionalità, individuale e collegiale, a cui va riconosciuta capacità di interpretazione e non solo di esecuzione. Le indicazioni politico-amministrative sono lo strumento, ma il cambiamento è agito dagli attori della scuola e costituisce il vero valore aggiunto dell’azione di orientamento scolastico, strettamente connesso con la personalizzazione dei percorsi di apprendimento che (è bene ricordarlo) non coincide con l’individualizzazione dell’insegnamento. L’impressione è che siano stati posti molti segnavia su una strada (l’orientamento) che non è ancora stata tracciata.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Baldacci M., Frabboni F., Margiotta U., (2012), Longlife/ Longwide learning- per un trattato europeo della formazione, Milano-Torino, Pearson
Bateson G., (1997), Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi
Kerschensteiner, G., (1953), Il concetto della scuola di lavoro, Firenze, Marzocco
Lazarus, R., (1996), Psichological stress and the copy process, Mcgraw, N.Y.
Parker D., (2007), The self in moral space. Life narrative and the good, Ithaca, NY, Cornell University.
Quaglino,G.P., (2002),Fare formazione, Bologna, Il Mulino Sennet R., (Ed. 2006), Autorità, Milano, Bruno Mondadori
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