Nella scuola italiana con le soft skills si va oltre ogni limite. Si va all’espropriazione della personalità.
Composizione di Mariangela Cacace
La valutazione delle soft skills viene introdotta al servizio del capitalismo della sorveglianza.
Se n’è accorto, fra gli altri, il docente Mariano Turigliatto. Un suo articolo su Il fatto quotidiano del 3 febbraio 2022 reca un titolo eloquente e perentorio: “La legge sulle soft skills è l’ennesimo tentativo di snaturare la scuola”. Possiamo aggiungere che siamo di fronte a un processo in atto di espropriazione della personalità. Espropriazione a danno di docenti e studenti. Questa manovra alienante è funzionale al progetto di deprivarli di ogni soggettività per sottometterli a un potere economico-finanziario. Si inserisce nel più vasto quadro dell’alienazione dei soggetti nel mondo globalizzato. Sull’argomento si trova un’ampia trattazione in Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, 2019 (The Age of Surveillance Capitalism. The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, 2019). Scrive l’autrice, docente alla Harvard Business School:
“Il capitalismo della sorveglianza si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti […] Le dinamiche competitive di questi nuovi mercati spingono i capitalisti della sorveglianza ad acquisire fonti di surplus comportamentale sempre più predittive: le nostre voci, le nostre personalità, le nostre emozioni.”
Il docente sopra citato così si esprime a proposito dell’introduzione per via legislativa delle soft skills nella nostra scuola: “Si tratta di un adattamento alla dimensione scolastica di temi ed elementi che provengono direttamente dal mondo del job placement.”
La deprecabile iniziativa parlamentare contrasta lo sviluppo dello spirito critico, che la scuola dovrebbe garantire: “La legge sembra prefigurare l’esatto contrario: un mondo in cui la scuola, caricata dell’obiettivo di formare anche il carattere, produce giovani resilienti e obbedienti […]”
Quindi ancora una volta si insiste mediante formule ad effetto sull’espropriazione di quanto compete ai docenti.
La legge sancisce l’interferenza di estranei al contesto scolastico nella sfera emotiva degli allievi. Ribadisce la frattura della simbiosi emotivo-cognitiva. Autorizza a ricorrere all’espressione soft skills come a una formula magica capace di imbellettare le espressioni competenze trasversali o competenze relazionali. Trasgredire significa esporsi ad essere puniti o vilipesi. Chiediamoci allora cosa si debba intendere in realtà per skill. Secondo l’Oxford Advanced Learner’s Dictionary of Current English il termine skill altro non indica altro che ability to do something well. Fare bene qualcosa. Idea chiara e distinta. Cartesiana. Purtroppo oggi si ama complicare ciò che è semplice. Così ci accade di dover leggere in un sito queste complicazioni:
“Soft skills, also known as common skills or core skills, are skills applicable to all professions. These include critical thinking, problem solving, public speaking, professional writing, team work, digital literacy, leadership, professional attitude, work ethic, career management and intercultural fluency.”
E le hard skills? “This is in contrast to hard skills, which are specific to individual professions.”
Diciamo pure che l’introduzione dell’uso degli aggettivi soft e hard riferiti a skills si rivela alquanto infelice sul piano linguistico.
Nell’inglese corrente soft può significare debole alla pressione, delicato al tocco, sbiadito, indistinto, lieve, smorzato, calmo, tenero, privo di coraggio, demente, facile a innamorarsi, senza problemi. Nell’inglese corrente hard può significare solido, difficile da fare o capire, richiedente sforzo, violento, fonte di sconforto, antipatico, duro, severo, inflessibile. Il contrasto fra soft e hard finisce col configurarsi come differenza fra morbido e duro, meno difficile e più difficile.
A questo punto mi si consenta una digressione autobiografica, che rinvia al tema delle origini delle soft skills.
All’epoca del servizio militare di leva obbligatorio fui assegnato a un Corpo di Bersaglieri e poi a una Divisione Corazzata. Conclusa l’esperienza, assurto da soldato semplice a Caporal Maggiore, ricevetti un attestato di merito a firma del Generale Comandante. Vi si attestava che durante il periodo di ferma avevo mostrato fra l’altro Spirito, Intelligenza, Coscienza morale, Cura del fisico, Amor di Patria, Fierezza di essere italiano, Amore per le istituzioni libere e democratiche del Paese, Fedeltà al giuramento, Culto della bandiera, Spirito di corpo, Spirito di disciplina, Entusiasmo, Volontà, Slancio, Saldezza, Tenacia, Operosità. Queste doti e qualità attribuite a me, come del resto a tanti altri commilitoni, si configuravano in tutta evidenza come soft skills. Però erano state attribuite dopo l’espletamento del servizio militare e non sulla base di questionari.
L’OMS – Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1992 pubblicò un elenco di Skills for Life (perciò si parla anche di Life Skills), sennonché il catalogo della cosiddette abilità morbide risale a un’epoca anteriore ed è per l’appunto di origine militare.
Le abilità necessarie alla vita definite dall’OMS sono elencate in un decalogo: problem solving, creatività, pensiero critico, comunicazione efficace, competenza relazionale, autoconsapevolezza, empatia, gestione delle emozioni, gestione dello stress, capacità di prendere decisioni. Prima ancora, però, negli anni Sessanta del Novecento, era stata la U.S. Army a introdurre le soft skills. Recente è invece la tendenza a introdurre la problematica delle soft skills nel contesto scolastico. Se ne è occupata, ad esempio, l’OECD nel 2019 col rapporto “Future of Education and Skills 2030”, ritenendo fondamentale insegnarle per venire incontro alle esigenze del mercato del lavoro in un mondo in rapida trasformazione e ciò in nome della competitività.
Non sono mancate quindi critiche all’introduzione delle soft skill, che diversi studiosi in base ad apposite ricerche scientifiche condotte sull’argomento hanno dimostrato controproducenti piuttosto che produttive.
Sia nel mondo del lavoro che in ambiente scolastico le soft skills comportano enormi inconvenienti. In entrambi i casi si risolvono in forme di controllo autoritario dell’individuo piuttosto che essere funzionali al libero sviluppo della persona.
Il controllo autoritario tende a investire e svilire sempre più la funzione docente.
È singolare che sia Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, a prendere posizione contro un’iniziativa legislativa e a favore dei docenti, come risulta dall’articolo Servono docenti a 360 gradi del 15 aprile 2020 sul sito di Il fatto quotidiano. Il direttore prende in esame la “bozza di riforma della formazione, assunzione e carriera dei docenti della scuola secondaria”, notando fra l’altro che in essa “i passaggi di carriera sono limitati a una progressione salariale, accelerata da due condizioni: frequentare corsi di formazione continua ed essere valutati sulla base dei risultati Invalsi dei propri studenti, secondo modalità ancora da definire”. Il direttore non esita a definire pericolosa questa seconda condizione.
E’ da auspicare che i docenti prendano posizione contro questo andazzo, che mortifica la loro personalità prima ancora che la loro professionalità e rischia di inficiare definitivamente il futuro della scuola.
In Stefano d’Errico, La scuola distrutta. Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del paese, Mimesis, 2019, si veda il capitolo Invalsicomio (La scuola-quiz). La “valutazione” degli alunni e degli insegnanti. Vi si ricorda che Giorgio Israel era contrario senza riserva alcuna all’impiego perverso dei test:
“Israel era del tutto contrario sia alla valutazione degli alunni tramite i test Invalsi, sia ad una ricaduta dei risultati dei test per giudicare i docenti […]”
Per lo studioso scomparso i test erano incapaci di valutare “l’eleganza” intesa come capacità di “scelta della metodologia più adeguata ed efficace” per risolvere un problema. E in effetti incapaci lo sono, dal momento che i loro risultati astratti ignorano “il modo in cui si è giunti al risultato corretto”.
Ora con le soft skills si va oltre ogni limite, instaurando una violazione della privacy così clamorosa da essere stata oggetto di vibranti proteste da parte di coordinamenti di genitori.
Quando si tratta di recepire legittime proteste dei cittadini, gli organi di informazione in Italia sono generalmente latitanti. Si limitano ad accenni destinati a svanire nella babele delle notizie. Invece sono assai meritevoli di risalto le reazioni di genitori pronti ad adire le vie legali contro l’intollerabile andazzo, come risulta da un documento messo in evidenza da Stefano d’Errico nel suo importante volume prima citato:
“[…] I sottoscritti diffidano il Dirigente scolastico in qualità di rappresentante legale dell’istituzione scolastica ed il Ministero dell’Istruzione, nonché i legali rappresentanti dell’Istituto Invalsi, dal conservare e utilizzare per valutazioni presenti e future i risultati delle prove Invalsi, chiedono la distruzione immediata di tutti i dati rimasti in possesso dell’Amministrazione scolastica e/o dell’Invalsi e si riservano di adire le vie legali consentite dalle norma a tutela della privacy.”
Di fronte all’ulteriore sconcertante iniziativa del governo bisogna continuare a tenere alta la guardia.
Nonostante le diffide, il governo continua a muoversi in modi scriteriati. La Scuola di alta formazione dell’istruzione ne è un esempio. La denominazione ha un sentore propagandistico al pari dello slogan “buona scuola”. Non si sa che cosa possa produrre di valido la cosiddetta “alta formazione”, data la dispersiva pletora di soggetti chiamati a impartirla. Sull’argomento si veda su questo stesso sito il tempestivo intervento di Emilio Ambrisi.