RAMO DI MANDORLO IN FIORE, COME VAN GOGH

Ciao a tutti, oggi voglio condividere con voi dei rami ispirati al quadro “Ramo di mandorlo in fiore” di Van Gogh della maestra Patrizia Cucuzza e dei suoi alunni.

Ramo di mandorlo in fiore o Ramo di mandorlo fiorito è un dipinto realizzato dal pittore Vincent Van Gogh nel 1890. La tela fu un regalo che lo stesso pittore fece al fratello e alla moglie per la nascita del loro figlioletto, Vincent Willem.

Sotto potete scaricare i fiori da colorare e ritagliare. Il fondo è stato fatto con le cere.

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Raffinato ma capiente: il vaso da zenzero nei dipinti

Di questo curioso vaso panciuto  mi sono accorta osservando una natura morta di Paul Cézanne del 1895 intitolata Pot de gingembre (ginger jar in inglese), cioè “vaso da zenzero“.

In effetti non era la prima volta che lo vedevo: Cézanne lo ha inserito in decine di dipinti, probabilmente per la sua forma molto semplice assimilabile a un solido geometrico (era lui quello che intendeva «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera e il cono»). Eccolo in una Natura morta con mele del 1893-1894, avvolto da una reticella dotata di manici.

Non conoscendo bene quest’oggetto, ma essendo un’appassionata di design dei contenitori (in passato ho scritto dell’aryballos, del rhyton, del calice römer e del cassone nuziale) ho iniziato a documentarmi, scoprendo una storia affascinante e un repertorio vastissimo.
Ma andiamo con ordine: cos’è esattamente il vaso da zenzero? E quando compare per la prima volta in pittura?
William Henry Hunt, Natura morta con vaso da zenzero, 1825, acquerello su carta, cm 19×25, Yale Center for British Art, Londra
Secondo gli storici nacque in Cina durante la dinastia Tang (618-907) come contenitore per le spezie. La sua forma tipica è globulare, con un collo brevissimo e una larga bocca spesso dotata di coperchio. Il vaso è generalmente in porcellana, materiale perfezionato nella stessa epoca simile alla terracotta ma basato su un impasto di caolino e quarzo. Il risultato è un prodotto particolarmente duro ma sottile, dalla superficie liscia e brillante.
Con la dinastia Ming (1368-1644) i vasi da zenzero assunsero una colorazione prevalentemente bianca e blu cobalto e decori a forma di piante, animali o paesaggi. Non mancano anche vasi di colore verde – generalmente esagonali – o decori policromatici.

Questi vasi, che intanto in Cina erano diventati oggetti preziosi di grande valore simbolico (ma ve n’erano anche versioni povere per il trasporto), sbarcarono in Europa nella seconda metà del XVII secolo con l’intensificarsi degli scambi commerciali di tè con l’Estremo Oriente. Nella stessa epoca la conoscenza della cultura cinese venne diffusa in Europa dal gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) attraverso il suo trattato La Chine illustrée de plusieurs monuments tant sacrés que profanes.Naturalmente si tratta di descrizioni piuttosto fantasiose perché il monaco non si recò mai in Cina ma utilizzò i materiali inviati dai missionari. Non solo: tutto il suo lavoro era teso a dimostrare che la civiltà cinese discendesse da quella egizia (per fare questo paragonò i geroglifici ai segni della scrittura cinese) e che in origine fossero cristiani (questo giustificava le missioni gesuitiche che avrebbero dovuto far “riscoprire” ai cinesi le loro radici).

Al di là di questi aspetti, la moda delle cineserie impazzò presto in tutta Europa. Avere una stanza “alla cinese” divenne quasi un obbligo in ogni palazzo reale e ben presto si tentò di imitare sia la porcellana sia le sue decorazioni (la famosa ceramica di Delft blu e bianca nasce come tentativo di copiare i vasi provenienti dalla Cina).
Stanza della porcellana, 1763-1764, Palazzo di Schönbrunn, Vienna
È in questo periodo, tra Seicento e Settecento, che il vaso da zenzero compare nei dipinti olandesi (non è un caso: gli olandesi erano grandi navigatori e commercianti) assieme ad altri prodotti costosi come calici veneziani, bicchieri römer, tazze ricavate da conchiglie nautilus, vassoi in argento, tappeti orientali nonché agrumi del Mediterraneo.Tuttavia non si tratta solo di prove di virtuosismo o di celebrazioni della ricchezza dei committenti: queste tele sono sempre vanitas, ammonimenti visivi che ci ricordano la brevità della vita e dei suoi piaceri, come suggerito nella tela seguente da un piccolo orologio aperto sul tavolo.
Willem Kalf, Natura morta con vaso in porcellana cinese, 1669, olio su tela, cm 78×66, Indianapolis Museum of Art
Juriaen van Streeck, Natura morta con tazza di nautilus e vaso di zenzero, 1660-1687, olio su tela, cm 49×41, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Appartengono a questa epoca e alla stessa area geografica alcune curiose riproduzioni in argento del vaso da zenzero cinese, con decorazioni riprese dal repertorio classico e dimensioni decisamente maggiorate. Il vaso in foto è alto 42 cm mentre gli originali cinesi vanno dai 18 ai 26 cm di altezza.

Dopo questo primo momento di gloria il vaso da zenzero ricompare nei dipinti nell’Ottocento, in un momento in cui inizia a diventare un oggetto più a buon mercato ampiamente diffuso nelle case europee.Eccolo in un quadro del 1869 dell’olandese Maria Vos (1824-1906), in cui è raffigurato un angolo di un negozio di antiquariato coi suoi ricchi decori blu che risaltano sui toni caldi dell’insieme.

Qui invece è stato dipinto nel 1876 dallo statunitense William Michael Harnett (1848-1892) con la stessa rete impagliata usata per il trasporto che abbiamo visto all’inizio nelle opere di Cézanne.

La cordicella è presente anche nella tela del 1890 del pittore americano di trompe l’oeil John Frederick Peto (1854-1907).

Il britannico Henry Stacy Marks (1829-1898) ha scelto invece di rappresentare il vaso da zenzero nelle mani dell’antiquario Frederick Litchfield, un fine intenditore di ceramiche cinesi bianche e blu, così di moda tra il 1870 e il 1890. Qui sta esaminando un vaso dell’epoca Kangxi (1662-1722).

Accanto al collezionismo di pezzi originali esisteva un’ampia produzione inglese, tedesca e statunitense che riprendeva la forma tondeggiante del vaso da zenzero applicando sulla superficie colori e decori di tradizione europea. Ne sono stati realizzati anche esemplari con motivi vegetali in rilievo, in stile Art Nouveau, e con finiture iridescenti a lustro. Ma i pittori preferivano sempre gli originali!

Il vaso da zenzero era un oggetto talmente famoso che alcuni artisti erano anche grandi collezionisti. Tra questi lo statunitense James Abbott McNeill Whistler (1834-1903), proprietario di una collezione di oltre duecento pezzi (non solo barattoli da zenzero…), di cui alcuni visibili in questo Autoritratto nello studio del 1865.

Whistler è anche autore di un disegno in stile giapponese del 1878 che raffigura il tanto amato vaso cinese…

… nonché dell’allestimento tra il 1876 e il 1877 della Peacock Room (stanza del pavone) per le porcellane cinesi del magnate britannico della navigazione Frederick Leyland, nella sua casa di Londra (oggi la stanza è esposta allo Smithsonian di Washington).

Qualche anno dopo, esattamente nel 1885, un bel vaso da zenzero esagonale, di colore turchese, compare in un’insolita natura morta di Vincent van Gogh, circondato da alcune mele e usato come vaso da fiori.

Quella di riempirlo di fiori è una scelta abbastanza frequente, come dimostrano tanti dipinti di fine Ottocento/inizio Novecento.
Floris Arntzenius, Nasturzi in vaso da zenzero, 1890-1925
George Hendrik Breitner, Vaso di fiori, 1900-1923
Frans Oerder, Anemoni in vaso da zenzero, 1910-1944
Un vaso da zenzero con fiori si trova anche in un suggestivo dipinto del 1916 dell’olandese Jan Mankes (1889-1920)…

… e in tanti quadri di Henry Matisse, come questa Natura morta con Pensieri di Pascal del 1924…

… e questa Natura morta con limoni del 1943.

Insomma, questo vasetto così esotico non smise di esercitare il suo fascino per oltre trecento anni! Ne restò incantato persino l’ideatore del Neoplasticismo Piet Mondian (guarda caso un olandese).Nel 1901, quando non aveva ancora intrapreso il suo percorso verso l’astrazione, ne dipinse uno esagonale, di colore turchese, assieme a cinque mele e un piatto sopra un piano ricoperto da un drappo. È chiaro che, come in Cézanne, l’intento non è la creazione di una vanitas bensì quello della ricerca geometrica e compositiva.

Il vaso da zenzero ritorna dieci anni dopo, quando Mondrian conobbe le opere cubiste di Pablo Picasso e Georges Braque, come oggetto su cui sperimentare nuovi linguaggi. Nel 1911 dipinge Natura morta con vaso da zenzero I, una vista del tavolo da lavoro che ricorda ancora le nature morte della tradizione se non fosse per il trattamento sintetico degli oggetti.

Dell’anno seguente è Natura morta con vaso da zenzero II, una composizione di gusto cubista nella quale l’unico tocco di colore è il celeste del contenitore cinese.

Sappiamo come proseguirà il suo percorso: al posto di vasi e tavoli solo linee verticali e linee orizzontali; al posto delle nuance ocra e turchesi solo toni di grigio e piani rossi, gialli e blu.
Il vaso di zenzero stava per completare il suo ciclo vitale nella pittura, ma rimane nelle opere conservate nei musei, a testimoniare il contatto creativo tra cultura materiale e riflessione concettuale e le epoche passate di fertili scambi estetici tra oriente e occidente.

Dopo l’ultima pennellata, la vita dei quadri tra musei e traslochi

Com’è finita a New York la Notte stellata di van Gogh? E che ci fa la Danza di Matisse a San Pietroburgo? E che dire della Madonna Sistina di Raffaello a Dresda?

Sono tutti luoghi molto distanti da quelli in cui ha vissuto l’autore ma questo è ciò che normalmente accade dopo che l’artista ha dato all’opera l’ultima pennellata e il quadro inizia la sua vita nel mondo. Una vita che generalmente conosciamo poco perché tendiamo a concentrarci sul significato del dipinto, sulla sua descrizione, sulle circostanze della sua nascita, ignorando in che modo sia poi giunto fino a noi.
Eppure quel pezzo di storia è molto importante perché è il momento in cui l’opera è diventata ‘arte’ confrontandosi con il mondo reale in tutta la sua consistenza fisica. Scoprire le vicende di un dipinto è avvincente quanto indagarne i simboli e i segreti ma ci aiuta anche a capire quali rischi corrano le opere d’arte nel momento in cui passano di mano in mano o stanno dentro un museo.

Visto che li abbiamo citati all’inizio, proviamo a scoprire la storia dei tre quadri in apertura. Della Notte stellata di van Gogh ci siamo già occupati a proposito di cieli notturni nell’arte, ma vediamo cosa è accaduto dopo che Vincent lo ha completato, tra maggio e giugno del 1889.
Il 28 settembre dello stesso anno lo fa recapitare al fratello minore Theodorus (detto Theo) a Parigi. Il 25 gennaio 1891, solo sei mesi dopo la morte del pittore, muore anche Theo e il dipinto (assieme ad altre duecento tele) rimane alla vedova, Johanna Bonger.

La donna, pittrice anch’essa, è stata fondamentale nell’affermazione della pittura di van Gogh grazie alla pubblicazione dell’epistolario dei due fratelli e all’organizzazione di mostre con le opere di Vincent.Quanto a Notte stellata, Jo la vende nel 1900 al poeta e critico d’arte Julien Leclercq che l’anno seguente la rivende al pittore Émile Schuffenecker.

Ma nel 1906 Bonger la riacquista per venderla alla galleria Oldenzeel di Rotterdam (che tra il 1892 e il 1906 aveva organizzato ben otto mostre interamente dedicate all’opera di van Gogh). La galleria chiude i battenti l’anno seguente e il dipinto viene acquistato da Georgette P. van Stolk, una donna di Rotterdam.
Nel 1938 Notte stellata viene comprata dal gallerista parigino Paul Rosenberg che la venderà al Museum of Modern Art di New York nel 1941.

Fino a quel momento si può dire che il dipinto non era mai stato esposto al pubblico. Ma da allora in poi la sua fama è stata sempre in ascesa, fino a diventare uno dei dipinti più famosi al mondo.
La storia de La danza di Matisse è meno avventurosa ma anche meno lieta. Venne realizzata nel 1910 assieme al pannello La musica per il mecenate russo Sergei Shchukin. Tra il 1897 e il 1907 il collezionista aveva già acquistato un centinaio di quadri tra i quali opere di Monet, Renoir, Degas, Cézanne, Gauguin e van Gogh.

Dal 1908 iniziò ad aprire al pubblico la sua collezione nella sua abitazione di Mosca ogni domenica mattina. Nello stesso periodo conobbe anche Picasso e negli anni seguenti comprò da lui quasi 50 tele.

È stato anche grazie a questo apporto culturale che si sono sviluppati in Russia il Cubismo, il Suprematismo e il Costruttivismo. Purtroppo Shchukin non potè godere a lungo della sua collezione: nel 1918, con l’ascesa di Lenin, la sue opere furono sequestrate dal governo e dichiarate “proprietà del popolo” e lui fu costretto a rifugiarsi a Parigi dove morì nel 1936.

Nel 1948 la collezione di Shchukin è stata smembrata tra il Museo Pushkin di Mosca e il Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, dove oggi si trova La danza di Matisse.
Ma veniamo adesso alla Madonna Sistina di Raffaello, uno dei suoi dipinti più suggestivi realizzato tra il 1513 e il 1514. Per chi non lo conoscesse è quello con il famoso dettaglio dei due angioletti affacciati alla base.

Vasari tramanda che l’opera fu commissionata da papa Giulio II nel 1512 per la chiesa del convento benedettino di San Sisto a Piacenza, ed era dedicata a papa Sisto IV, zio del pontefice e promotore della rinascita della cappella Sistina. La grande pala d’altare è rimasta nell’abside della chiesa sino al 1754 (oggi se ne può vedere una copia settecentesca).

In quella data, dopo due anni di trattative, fu acquistata dal Grande Elettore Augusto III di Sassonia, re di Polonia, che desiderava ardentemente un’opera del grande pittore del Rinascimento. Pur di averla arrivò a pagare 25.000 scudi pontifici, una cifra allora spropositata – corrispondente a svariati milioni di euro – con la quale i monaci, in gravi difficoltà finanziarie, ripianarono tutti i loro debiti.
La tela venne portata alla Gemäldegalerie, cioè la galleria di pittura, dello Johanneum di Dresda (la scuderia cinquecentesca adibita a sala di rappresentanza) e pare che per quel dipinto il sovrano abbia persino spostato il trono dicendo “Fate posto al grande Raffaello!”. Per inciso, dieci anni prima Augusto III era riuscito ad aggiudicarsi l’intera quadreria estense di Modena venduta da Francesco III nel 1745-1746 per risollevare le sue barcollanti finanze.
Ma la sua storia non finisce qui. Dieci giorni dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’11 settembre 1939, la Madonna Sistina venne smontata dalla cornice e portata nei sotterranei del palazzo reale come misura di protezione da eventuali danni bellici. Ma si trattava di un nascondiglio poco sicuro per cui il 6 novembre l’opera venne trasferita nel castello di Albrechtsburg a Meissen.

Il 15 dicembre 1943 la tela venne trasferita di nuovo. Stavolta in un luogo considerato inespugnabile: un tunnel ferroviario in disuso a Rottewerndorf opportunamente climatizzato e blindato. Nello stesso luogo arrivarono l’anno seguente altre 380 opere da Dresda, giusto in tempo per salvarle dal bombardamento che tra il 13 e il 15 febbraio del 1945 rase al suolo la città.
Il 12 maggio le truppe sovietiche riuscirono a localizzare il tunnel, rimasto privo di sorveglianza. Due giorni dopo la madonna Sistina fu prelevata e portata a Dresda, nel quartier generale dei russi, e da là al castello di Pillnitz, vicino la città, edificio usato come deposito del ‘bottino di guerra’. Qui venne prelevata da Michail Dobroklonki, il vice direttore dell’Ermitage, che la spedì in gran segreto al museo Pushkin di Mosca.
Il quadro però non venne esposto e i russi negarono di averlo preso tanto che per dieci anni la Madonna Sistina fu considerata dispersa. Solo nel 1955, dopo la morte di Stalin avvenuta nel 1953 e l’avvio di una stagione di maggiore trasparenza, i russi ammisero di averla in loro possesso ma giustificarono quell’appropriazione facendola passare per un salvataggio finalizzato al restauro.

Il 3 marzo 1955, in vista della firma del patto di Varsavia tra i paesi dell’Europa orientale, il governo sovietico autorizzò la restituzione alla Germania dell’est, territorio sotto il suo controllo. Ma, prima di rispedirla indietro, la Madonna Sistina restò in mostra al Museo Pushkin dal 2 maggio al 20 agosto. In meno di 4 mesi oltre un milione di visitatori andarono a vedere il capolavoro di Raffaello.

L’opera giunse a Berlino il 16 ottobre dello stesso anno e messa in mostra dal 27 novembre al 23 aprile dell’anno seguente. Per tornare al suo posto, a Dresda, nella galleria progettata nell’Ottocento da Gottfried Semper, dovette attendere fino al 3 giugno.

Di storie simili a queste ce ne sono migliaia, praticamente una per ogni opera d’arte. Sono spesso curiose, a volte intriganti, in alcuni casi sconvolgenti. Provocano anche un certo disagio quando rivelano come l’arte sia stata volentieri merce di scambio, trofeo da esibire, strumento di ricatto.Le acquisizioni, specialmente quelle antiche, sono state spesso disinvolte, in casi estremi truffaldine tanto che oggi si torna a parlare con insistenza della necessità di restituire i capolavori trafugati. Ma ogni opera d’arte è un caso a sé e conoscerne la storia è il primo passo per la sua conservazione e per qualsiasi altra considerazione.

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