Far tacere le armi con le nostre parole, dalle scuole ognuno con un pensiero di pace

Dire che siamo rimasti tutti sgomenti per la scelta russa di invadere l’Ucraina, scegliendo la via delle armi invece della composizione del conflitto col confronto ed il dialogo, è un sentimento che ci accomuna tutti.
Non può essere quasi automatico il ricorso alle armi, questo ci stiamo dicendo da giorni, per risolvere una controversia. Noi, cioè, prima di essere volontà, compresa quella che Nietzsche ha chiamato volontà di potenza, siamo cuore, siamo ragione, siamo sentimento, siamo anima.

Per cui, prima di affidarci alla volontà di potenza, che punta non a ciò che unisce ma a ciò che divide, dobbiamo, o dovremmo, affidarci a pensieri carichi di umanità, sapendo dalla storia che tutte le guerre, soprattutto le guerre contemporanee, finiscono per il 90% col colpire i civili, le persone innocenti.

Noi in Italia non abbiamo, grazie a Dio e agli uomini, esperienza della guerra dal 1945. Ma sappiamo anche …..

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La gestione del conflitto

La gestione del conflitto

di Laura Bertocchi e Mario Maviglia

Premessa

In senso generale possiamo intendere il conflitto come “una situazione sociale in cui due o più individui apertamente si oppongono l’uno all’altro”[1] e questa opposizione può riguardare “pensieri, convincimenti, tendenze, desideri ecc. fra loro differenti.”[2] Da un punto di vista psicoevolutivo i comportamenti conflittuali si manifestano fin dalla più tenera età e costituiscono una tappa fondamentale nel processo di individuazione e di costruzione dell’identità del bambino (oltre che di sviluppo della sua autonomia). “È attraverso l’opposizione con l’altro [in modo particolare con le figure genitoriali] che il bambino sperimenta e afferma la sua indipendenza e individualità; una strategia questa che fa la sua prima ed emblematica comparsa nella crisi di opposizione dei 2 anni, in cui il bambino ricerca sistematicamente il conflitto con l’adulto.”[3] È interessante notare che questa crisi di opposizione ricompare in modo accentuato anche nella fase adolescenziale in cui la ragazza e il ragazzo sono alle prese con la ridefinizione della propria identità in un rapporto di ambivalenza e contrapposizione con le figure adulte di riferimento.

            Già da queste annotazioni si può notare che il conflitto è insito nella natura umana sia in senso intrapsichico (come quando una persona è “influenzata simultaneamente da due forze opposte di intensità approssimativamente uguale”[4], oppure nel caso della “dissonanza cognitiva” elaborata da Festinger[5]), sia in senso interpersonale come preannunciato sopra. Il problema, dunque, non dovrebbe essere quello di accettarne l’esistenza, ma di trovare forme adeguate per affrontarlo in modo positivo. In realtà spesso, in campo educativo, si tende a disconoscere la dimensione conflittuale per un malinteso senso dell’”essere buoni”. Sia in seno alla famiglia che all’interno della classe una delle frasi più ricorrenti delle figure adulte è “non bisogna litigare” ed anzi chi si rende responsabile di un conflitto viene inconsapevolmente sollecitato a sentirsi in colpa. Eppure, analizzando la letteratura specifica del settore si può facilmente scoprire che vi sono vari modi per affrontare il conflitto. S. Bonino[6] individua almeno quattro forme diverse di affrontamento del conflitto:

il primo – molto diffuso – è quello di evitarlo o sottacerlo. Vi possono essere diverse ragioni che portano a questa forma di comportamento: la paura di rimanere soli o di non essere in grado di affrontare il conflitto; il timore di non piacere a tutti; la paura di non riuscire a controllare la propria aggressività in una situazione conflittuale o di subire quella dell’interlocutore. Va però detto che sia in famiglia che a scuola l’espressione del conflitto dovrebbe costituire l’occasione per ragionare proprio sul conflitto e sulle possibilità di esplicitarlo in una dimensione sostenibile per tutti.

La seconda forma è l’inibizione, che si determina di solito quando il rapporto tra i contendenti è asimmetrico per ragioni di ruolo o status (insegnante e studenti, o genitori e figli) o comunque quando l’altro viene percepito come più forte, come nel caso di fratelli di diversa età.

Una terza forma riguarda l’aggressività che costituisce una modalità di soluzione del conflitto a proprio favore. Va sottolineato che ricerche empiriche hanno messo in luce che “il ricorso all’aggressività nel conflitto interpersonale è sollecitato dalla partecipazione a contesti competitivi, che portano a un’escalation del problema, oltre la causa originale del conflitto.”[7] L’aggressività può anche essere la risposta ad una situazione in cui il soggetto sperimenta continuamente la difficoltà a intercettare il consenso degli altri; questo determina una sorta di circolo perverso in quanto il soggetto “rifiutato” tende a mettere in atto condotte sempre più aggressive che però determinano negli altri un comportamento ancor più ostile.

Infine, una quarta forma riguarda la negoziazione, ossia la ricerca di una soluzione per quanto possibile condivisa e tale da non scontentare nessuno. L’affermazione di una modalità negoziale è influenzata da almeno tre fattori: da una parte lo sviluppo del linguaggio e delle capacità espressive che pone il bambino/a o lo studente/ssa nella condizione di poter esprimere e sostenere in modo più adeguato le proprie ragioni o di richiedere spiegazioni a quelle degli altri; dall’altra lo sviluppo delle capacità empatiche e quindi la possibilità di tener conto del punto di vista dell’altro soprattutto all’interno di un possibile conflitto; e infine un assetto cooperativo dell’organizzazione sollecita fortemente la ricerca di soluzioni condivise.

Le ragioni del conflitto

Ma a cosa serve il conflitto? Abbiamo già visto che nel processo evolutivo serve per costruire la propria identità, attraverso il meccanismo di individuazione e differenziazione dall’altro.

I conflitti, soprattutto tra bambini o ragazzi, sono spesso fonte di forte disagio nell’adulto che si trova a doverli gestire. In classe tale disagio è per certi aspetti comprensibile, perché può far sentire l’insegnante impreparato e impotente di fronte a bambini e ragazzi che manifestano comportamenti conflittuali che spesso diventano aggressivi, nelle parole e, talvolta, nei gesti.

Per affrontare queste situazioni serve lucidità ed è indispensabile, innanzitutto, eliminare il giudizio moralistico[8]. Infatti, come abbiamo precisato in precedenza, il conflitto non ha un senso esclusivamente negativo, ma è un aspetto imprescindibile di una sana interazione sociale.

Come può allora l’insegnante intervenire efficacemente durante un conflitto tra alunni?

Molto, chiaramente, dipende dalla fascia di età a cui si fa riferimento. Se in età prescolare non è possibile aspettarsi che i bambini siano autonomi nella gestione del conflitto, è auspicabile pensare che crescendo acquisiscano strategie di risoluzione sempre più autonome e maggiori abilità di gestione delle emozioni coinvolte. D’altro canto, l’esperienza ci insegna che non sempre la ragionevolezza domina il conflitto, nemmeno tra adulti. Ecco allora che mettere in campo delle strategie di gestione diventa essenziale.

Innanzitutto è importante identificare le ragioni del conflitto:

Difficoltà di comunicazione

Spesso il conflitto nasce da un malinteso, da un fraintendimento. Soprattutto quando la comunicazione non avviene vis-à-vis (pensiamo per esempio ai social) il contesto è estremamente limitato e non aiuta certo la corretta interpretazione di quanto viene scritto o detto. Per quanto l’uso degli emoticon cerchi di sopperire alla mancanza degli aspetti paraverbali, l’assenza di toni, modulazioni della voce, espressioni, sguardi, sorrisi e gesti può generare numerosi fraintendimenti. È allora importante risalire all’intenzione di ciò che è stato detto, prestando attenzione al mittente, alle sue motivazioni e ai suoi obiettivi, che non sono necessariamente quelli compresi dal destinatario. Altrettanta attenzione va posta anche su chi riceve il messaggio, su ciò che comprende e su quali reazioni suscitino in lui quelle parole.

Differenze di obiettivi

Gli attriti naturalmente non si innescano solo per questioni di forma, spesso il disaccordo riguarda la sostanza. Avere obiettivi diversi è certamente uno di questi casi. Due bambini vogliono giocare, uno a calcio, l’altro a basket. Trovare un punto di incontro è complesso, perché le due scelte si contrappongono: optare per una delle due significa escludere l’altra. Spostiamo ora il piano del confronto su temi caldi che possono toccare gli adulti: l’embargo, la guerra. Schierarsi a favore della pace significa necessariamente dire no al sostegno alla guerra. Sono due posizioni opposte, per le quali non è possibile trovare un punto di incontro. In questo caso diventa opportuno chiedersi quali sono le ragioni che spingono verso un determinato obiettivo e, sovente, le ragioni ultime e i grandi principi che muovono scelte e azioni sono identici. Divertirsi, potremmo immaginare nel caso dei bambini, ristabilire o trovare un equilibrio, possiamo azzardare nel secondo caso. Ecco allora, può capitare di scoprire che i fini non sono così diversi, sebbene le scelte iniziali possano apparire diametralmente opposte.

Stili non condivisi

In questo caso il risultato perseguito è il medesimo, ma il percorso che si desidera intraprendere per giungere alla meta può essere diverso. Molto dipende dal modo peculiare con cui ognuno di noi, anche sulla base delle esperienze pregresse, affronta un problema o una sfida. Si può essere più interventisti, quando si preferisce agire prontamente, oppure si può prediligere un approccio più riflessivo, analizzando tutte le possibili soluzioni, i vantaggi e gli inconvenienti. Quando due persone con attitudini così diverse devono collaborare, è ragionevole pensare che possa nascere un conflitto che, se mal gestito, può degenerare, tanto più quando il fine da raggiungere rappresenta un importante traguardo per le persone coinvolte.

Differenza di metodi e tempi di gestione delle azioni

Altrettanto importanti sono le differenti attitudini che ognuno di noi adotta nella gestione di un problema. Esistono persone che affrontano tutto di petto. Sembrano non temere niente e nessuno, si lanciano nelle imprese e affrontano le sfide con coraggio. Altre persone invece hanno bisogno di tempi più distesi per maturare la consapevolezza delle azioni da compiere e, anche una volta maturata tale consapevolezza, ritornano spesso sulle proprie decisioni. Il confronto tra due tipologie di caratteri così diversi può essere fonte di disaccordo e conflitto, a maggior ragione quando succede che questi debbano collaborare per portare a termine un progetto o raggiungere un traguardo.

Differenze nelle credenze e nelle opinioni di base

Le credenze di base sono idee profondamente radicate all’interno di ognuno e influenzano il modo in cui viviamo la vita. Possono avere origine nel background culturale ma anche essere determinate dalla storia personale, da esperienze negative o positive che influenzano convinzioni e percezioni.  Credere, per esempio, che le situazioni che affrontiamo avranno una conclusione positiva fa sì che anche le difficoltà vengano sostenute con un’energia diversa rispetto a chi teme l’insuccesso. Queste attitudini così diverse ovviamente cozzano quando si deve collaborare per un obiettivo.

Regole non chiare

Quando si lavora in gruppo è indispensabile, per una proficua collaborazione, che le regole siano chiare a tutti. Gli obiettivi che si perseguono, i tempi, i ruoli, ciò che si deve fare, ciò che si può fare e quanto, invece, non è consentito. Emblematiche sono in tal senso le competizioni di debate, originarie dei paesi anglosassoni ma ora molto diffuse anche in Italia. Si tratta di un confronto di opinioni tra interlocutori, divisi in due squadre che si affrontano per sostenere una tesi a favore e una contro su un tema loro assegnato. Conoscere le specifiche modalità di esecuzione e le regole che guidano la gara è indispensabile. La capacità di esprimere opinioni senza prevaricazioni, le scelte lessicali rispettose dell’altro, il rispetto dei tempi di parola e di ascolto devono essere conosciuti da tutti i partecipanti che, in caso di mancato rispetto di dette regole, vengono squalificati, compromettendo la possibilità di successo di tutta la squadra.

Mancanza di definizione dei ruoli

In ogni gruppo, in modo più o meno formale, ogni membro assume un ruolo[9]. L’equilibrio, o la mancanza di esso, regola le dinamiche che si sviluppano. Troviamo chi viene ascoltato, chi non è mai interpellato, chi decide e chi esegue, chi allenta le tensioni e chi le fomenta, chi è più concentrato sul raggiungimento degli obiettivi e chi sulle relazioni che si instaurano, troviamo leader e gregari. Non tutti i membri di un gruppo detengono la stessa importanza e centralità, lo stesso potere e la stessa capacità di consenso. Innegabilmente vi è chi è più ascoltato di altri, chi sa prendere decisioni coinvolgendo tutto il gruppo e prendendosene la responsabilità. L’importanza non è sul piano del valore, poiché tutti i ruoli sono indispensabili, basti immaginare che in un gruppo due leader spesso non possono convivere, quanto piuttosto della capacità di guidare gli altri verso il perseguimento di un obiettivo. È molto importante che questi ruoli siano chiari ad ogni membro ed è auspicabile che i ruoli che vengono a costituirsi informalmente – la leadership non si impone, ma ci viene riconosciuta dagli altri – corrispondano ai ruoli formalmente attribuiti. Diversamente possono generarsi attriti e caos che sono di da ostacolo al raggiungimento degli scopi prefissati.

Alcune regole di base

      Comprendere le ragioni del conflitto è importante perché consente innanzitutto di spostare lo sguardo da se stessi all’altro. Il passo successivo è infatti quello di accogliere. Accogliere significa[10] “ricevere, sentire, ammettere nel proprio gruppo” ed è dunque apertura all’altro, non necessariamente per condividerne le idee, le attitudini, gli scopi ma piuttosto per porsi in ascolto, per scoprirne l’alterità. Per fare ciò, è necessario:

Non sminuire il vissuto dell’altro

Non esistono emozioni sbagliate perché sono l’espressione della reazione alle esperienze che si vivono[11]. Possono essere più o meno piacevoli, ma non giuste o sbagliate e non è possibile pretendere di non provarle. Si può cercare di controllarne l’intensità, “regolando il volume” delle emozioni più intense ma, più di tutto, è necessario validarle, accettandole sia per quanto riguarda se stessi che gli altri. Ciò che è opportuno fare è invece riflettere sul pensiero associato alle emozioni, cercando di individuare la ragione profonda di tali reazioni. È su questa ragione che si può intervenire. Non possiamo chiedere di non provare rabbia, ma regolarne l’intensità, controllarne le manifestazioni e comprenderne le ragioni è possibile e auspicabile in ogni relazione.

Pensare in modalità win-win

Una trattativa si può concludere con un vincitore che ottiene un vantaggio e un perdente che si adegua alle condizioni imposte dall’altro, questo però rischia di rovinare relazioni già esistenti e possibili collaborazioni future. Meglio allora cercare un accordo cosiddetto win win[12], una soluzione che non faccia sentire sconfitto nessuno, attraverso negoziazioni che permettano di ottenere vantaggi reciproci, anche se le condizioni finali non corrispondono necessariamente a quelle inizialmente pensate. Per fare ciò è indispensabile evitare di condurre la trattativa come se fosse una prova di forza, uno scontro personale con l’interlocutore. Ogni parte ha le sue richieste, che devono essere considerate legittime da entrambe le parti. Partendo da questa consapevolezza, mantenendo la mente aperta e una certa flessibilità è possibile trovare soluzioni che non scontentino nessuno. Ricordiamo sempre che questo parziale cedere sulle proprie rivendicazioni consentirà collaborazioni future.  

Esprimere i bisogni in modo assertivo

L’assertività è la capacità di esprimere i propri bisogni, le proprie emozioni e i propri diritti in modo sereno anche se in disaccordo con gli altri e portare avanti le proprie idee rispettando quelle altrui.[13] Si contrappone alla passività, nella quale si antepongono i bisogni degli altri ai propri e all’aggressività, quando si antepongono i propri bisogni a quelli altrui. Comportarsi in modo assertivo significa bilanciare i bisogni degli altri con i propri, quando entrambi gli interlocutori tengono in considerazione le reciproche esigenze pur esprimendo con chiarezza le proprie necessità. Saper dire no e accettare il no sono abilità che possono essere acquisite e che permettono di vivere le relazioni e le collaborazioni con un certo equilibrio, senza sopraffare e senza lasciarsi sopraffare. Controllare le modalità di comunicazione, i toni e i gesti si rivela una tecnica molto importante per esprimersi con assertività.

Individuare un obiettivo chiaro, esplicito e comune verso cui tendere (e perseguirlo)

Per risolvere il conflitto è indispensabile individuare l’obiettivo a cui tendere e questo deve essere chiaro a tutti i membri del gruppo. Il fine va esplicitato ed è necessario tornarvi ogni qualvolta che il disaccordo sembra impedire il proseguimento del percorso. L’obiettivo deve guidare le azioni e le trattative come un faro ed è importante che non venga mai perso di vista.

Far circolare la comunicazione

Non interrompere la comunicazione è indispensabile. Lasciare questo canale di continuo confronto, chiarimento, ritrattazione è fondamentale per trovare una soluzione condivisa. Il silenzio impedisce all’altro di comprendere le nostre emozioni, i nostri ragionamenti, gli obiettivi ai quali tendiamo. Chiudersi in se stessi non consente all’altro di tentare una trattativa, di scendere a compromessi. Inoltre, esprimere ad alta voce o per iscritto ciò che si prova dà la giusta distanza che permette di valutare le proprie azioni e reazioni che, dunque, non vengono espresse sull’onda dell’emozione.

Attenzione ai comportamenti difensivi

Vengono messi in atto quando ci si sente minacciati[14]. Tra i comportamenti difensivi possiamo trovare, come accennato poco fa, il silenzio, ma anche il prendere ogni cosa sul personale, lo spostare la colpa sempre sugli altri, il sarcasmo e il cinismo, il procrastinare o l’essere evasivo. Tutti questi comportamenti sono espressione del rifiuto del confronto e possono essere agiti quando ci si sente in situazione di inferiorità rispetto all’interlocutore. Rafforzare l’autostima e praticare l’assertività possono essere strategie idonee a controllare questi atteggiamenti quando siamo noi a praticarli.

Allenarsi all’ascolto

Senza ascolto non può esserci comunicazione, intesa come scambio e partecipazione[15]. L’ascolto permette all’interlocutore di sentirsi preso in considerazione e ciò lo predispone favorevolmente alla negoziazione; inoltre ascoltare ci permette di raccogliere informazioni su chi abbiamo di fronte e quindi ci aiuta a predisporre una strategia di negoziazione. Ascoltare, è noto, è molto più che sentire. Ascoltare richiede un ruolo attivo, fatto di silenzi ma anche di domande tese a comprendere il punto di vista dell’altro. Si cerca di comprendere non solo le parole ma anche le ragioni che soggiacciono alla comunicazione. L’ascolto attivo non ha fretta e si astiene dal giudizio.

Follow up: importanza di tornare a distanza di tempo sulla gestione del conflitto

Il profilo della montagna si vede bene solo da lontano e questo vale anche per il conflitto. Una distanza troppo ravvicinata (fisica nel caso della montagna, di tempo nel caso del conflitto) impedisce una visione completa e chiara della situazione. Prendersi del tempo quando sembra impossibile risolvere un conflitto non solo è auspicabile, ma anche opportuno. Una certa distanza temporale permette di vedere con maggiore ragionevolezza le cause del disaccordo. Le emozioni e la ragione si ricompongono permettendo valutazioni più equilibrate e non intrise dell’emotività del momento che, talvolta, impedisce di prendere in considerazione l’altro e le sue istanze.

Le strategie

Il terzo e ultimo step riguarda il feed-back.

Anche nel conflitto “sbagliare è già imparare” e il riscontro dell’errore resta uno dei pilastri dell’apprendimento. Quando un conflitto degenera è indispensabile fermarsi per capire le ragioni che hanno portato a quella situazione. Ciò significa ripercorrere le tappe del disaccordo, rivedere gli obiettivi perseguiti, le modalità di comunicazione e individuare i punti di attrito rispetto ai quali non è stato possibile trovare un punto di incontro. Più accurato è il feedback, più puntuale sarà l’analisi volta all’individuazione degli snodi cruciali del processo. Tali consapevolezze permetteranno di correggere i comportamenti ostativi alla risoluzione positiva del conflitto qualora si ripresentasse.

Senza pretesa di esaustività, suggeriamo alcune strategie che gli insegnanti possono adottare per gestire i conflitti che ogni giorno si creano nelle nostre aule e per aiutare gli studenti  ad acquisire modalità d’azione che possono essere proficuamente applicate nei rapporti quotidiani:

Creare apertura verso le differenze, verso il punto di vista dell’altro, che non deve essere percepito come una minaccia quando diverso dal proprio.

Prestare attenzione al clima di classe, che deve promuovere il confronto, anche attraverso attività quali il circle time e il debate.

Rispettare l’opinione dell’altro, che può essere diversa dalla propria ma non per questo vale meno.

Creare un clima di apprendimento reciproco, anche attraverso l’osservazione e la valutazione tra pari.

Prestare attenzione al momento in cui sorge il conflitto e non rimandarne la gestione. I disaccordi vanno affrontati sul nascere, altrimenti rischiano di esacerbarsi.

Insegnare la negoziazione win win come strategia di risoluzione dei conflitti.

In conclusione, ribadiamo che il conflitto è insito in ogni relazione e, in quanto tale, va accolto e accettato per ciò che è: fisiologico. Naturalmente il conflitto è opportuno si mantenga sul piano del confronto civile, dello scambio di idee e della corretta difesa delle proprie opinioni poiché tanto l’atteggiamento aggressivo quanto quello passivo sono censurabili e fonte di problemi relazionali. Insegnare a controllare l’emotività eccessiva e le reazioni incontrollate è l’obiettivo che ogni insegnante dovrebbe porsi, ricordando che, prima ancora che studenti, la scuola cresce ed educa i cittadini di domani.

[1] S. Bonino, Dizionario di psicologia dello sviluppo, Einaudi, Torino, 1994, p. 164,

[2] P. Bertolini, Dizionario di pedagogia  e scienze dell’educazione, Zanichelli, Bologna, 1996, p. 99.

[3] S. Bonino, op. cit., p. 165

[4] R. Harrè, R. Lamb, L. Mecacci, Psicologia. Dizionario enciclopedico, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 194

[5] L. Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva, Franco Angeli, Milano, 1973

[6] S. Bonino, op. cit., pp. 166-167

[7] S. Bonino, op. cit., p. 167

[8] https://formazionecontinuainpsicologia.it/ruolo-delladulto-nei-conflitti-bambini/

[9]https://docs.univr.it/documenti/OccorrenzaIns/matdid/matdid949175.pptx#:~:text=I%20ruoli%20sono%20definiti%20dalla,una%20certa%20posizione%20nel%20gruppo

[10] https://www.treccani.it/vocabolario/accogliere/

[11] https://drcollevecchio.it/7-cose-che-non-sai-sulle-emozioni/

[12] https://www.softskills.site/win-win-negoziazione-a-vantaggio-reciproco/

[13]  https://www.stateofmind.it/2014/11/assertivita-stili-comportamento/

[14] https://carlobisio.com/comportamenti-difensivi-conoscerli-gestirli

[15] https://www.aleksandrabobic.com/blog/perche-ascolto-e-importante

Ragazzi, soli, mai!

Ragazzi,  soli,  mai!

di Antonietta Cataldi

Madre: Smettila di commiserarti!  Ti comporti come se tutto ciò che ti è capitato fossero disgrazie e tu non avessi alcuna responsabilità.

Figlio: No, Mamma!  Il fatto è che, da ogni parte, viene scaricata su di me ogni colpa, come se fossi stato io a compiere tutte le scelte, sin da quando ero piccolo.

M.:  Cosa intendi dire?  Chi ti ha costretto a fare quel che non volevi?

F.:  Nessuno, ma io ero davvero in grado di capire quello che volevo?  A undici anni, appena uscito dalle elementari, quando ho formulato l’idea di entrare in seminario, ero in grado di capire cosa significasse questa scelta?

M.:  Ti dirò la verità, tuo padre e io non ci siamo posti il problema, forse perché, a quel tempo, avere un prete in famiglia era un titolo di merito, forse perché alcuni genitori sceglievano questa strada per i figli che non erano in grado di mantenere agli studi.  In ogni caso, non era una scelta definitiva, era un percorso che si poteva interrompere.

F.:  Voi avete guardato al futuro lontano senza considerare quello prossimo.  Vi siete chiesti quale sarebbe stata la mia vita in una realtà monca, soltanto maschile, con scarsi contatti con l’esterno?  A quell’età, non ero in grado di pormi questo problema.  Il mio mondo era popolato da ragazzetti come me, che amavano giocare a calcetto.  Ma la preadolescenza era vicina, con la sessualità che avrebbe presto imposto un cambiamento di prospettiva e, in quel momento, io mi sarei trovato chiuso in un mondo senza la presenza femminile.  Mi sarebbero state negate tutte le curiosità, le emozioni, anche le difficoltà, le frustrazioni nel rapporto con l’altro sesso.  La mia vita sarebbe stata priva di quella molteplicità di stati d’animo che l’attrazione, l’infatuazione, l’innamoramento comportano.  Pensi che una simile amputazione possa avvenire senza conseguenze?

M.:  Figlio mio, pensavo che si potessero generare forme di trasgressione come la lettura di giornalini scandalistici che quasi costò a tuo zio l’espulsione dal collegio.

F.:  No, Mamma, le conseguenze di quella deprivazione erano molto, molto più gravi.  Non selezionare i ricordi.  Pensa a ciò che ti raccontò tuo marito, che pure era già al ginnasio all’epoca dei fatti: tra i ragazzi c’era l’abitudine di accarezzare quelli con i glutei più rotondi!

M.:  E’ vero, ma poi tuo padre ha avuto una vita sessuale normale e io ne sono testimone.

F.:  Forse perché, dopo due anni, minacciò di scappare dal collegio se non lo avessero fatto uscire e, comunque, portò a lungo i segni di quelle esperienze.

M.:  In concreto, secondo te, cosa avremmo dovuto fare?

F.:  Quello che tu stessa mi hai detto che fece tuo padre con te.  Mi hai raccontato due episodi. Il primo è di quando eri ancora alle elementari e la suora che ti dava lezioni di pianoforte gli comunicò che intendevi farti suora.  Lei ti regalò un libro su Santa Chiara e lui non proferì parola, né in quel momento né in seguito.

M.:  Era un uomo saggio, capiva bene che la mia giovane età impediva che si potesse dare un valore permanente a quella mia supposta aspirazione.  In effetti, ero semplicemente attratta dalla veste monacale e dal mistero che sentivo aleggiare nella vita del convento.

F.:  E quando, a quindici anni, gli comunicasti che volevi fare l’attrice?  

M.:  Ancora una volta, mio padre fu abilissimo: mi disse che non sarebbe stato un problema ma che prima dovevo finire la scuola.

F.:  Lo vedi?  Non ti presentò difficoltà ma prese tempo per dare a te stessa il modo di maturare una decisione, tant’è che, dopo la maturità, eri proiettata verso altri obiettivi.  Perché non faceste così con me, consigliandomi di proseguire la scuola pubblica per entrare poi in un seminario maggiore?  A diciotto anni sarei stato molto più consapevole, avrei saputo agire e reagire adeguatamente nelle varie situazioni.  Avrei saputo respingere gesti mai immaginati e rifiutare approcci non desiderati, perché avrei capito e riconosciuto la differenza rispetto alle tenerezze e alle effusioni che avrebbero popolato i miei sogni e regalato magia alla mia realtà.  Avrei capito che i compagni di seminario non erano comparabili con le amiche di scuola.  Invece l’impossibilità del confronto ha finito col rendere accettabili comportamenti di coetanei e superiori che mai lo sarebbero stati in condizioni normali.  Io non sono gay, Mamma!

M.:  Sono stata miope e superficiale, figlio mio: mi dispiace non avere colto in tempo le implicazioni della tua situazione e tratto le conseguenze.  Non mi ero resa conto del motivo per cui addossavi a me e a tuo padre parte della responsabilità per la tua condizione e non avevo decifrato il dolore e il disagio che ti porti dentro.  Solo ora immagino la riluttanza a cedere a desideri che non erano i tuoi, ad abituarti a sollecitazioni non richieste e che, anche per chi le forniva, erano soltanto un ripiego, un surrogato, come il caffè di cicoria che si beveva durante la guerra, come l’omosessualità in carcere.  Se soltanto ci avessi pensato per tempo!  Sento parlare di una potente lobby gay in Vaticano e mi rattrista pensare che tu, per un’unica ragione, il fatto di essere in procinto di diventare prete, possa essere inquadrato tra i colpevoli mentre sei una vittima.  Perché intendiamoci: se si è omosessuali, il problema è costituito dalla mancata astinenza, ma se non lo si è, a questo si aggiunge anche l’aver agito controvoglia o l’avere addirittura semplicemente subito.

F.:  Sono vittima ma anche colpevole per non avere avuto il coraggio di ribellarmi, fin dall’inizio.

M.:  Ma se tu stesso hai detto che non conoscevi altra realtà!  A quell’età, poi, quando non si è ancora definita la propria identità, non si capisce nemmeno bene cosa si vuole e cosa non si vuole e, in ogni caso, non si può rifiutare ciò che non si riconosce, a parte il fatto che ti devi essere trovato in una condizione di impotenza se non addirittura di sudditanza.  Da quando ho percepito il tuo problema, mi sono impegnata a studiare …

F.:  Ecco, lo sapevo, tu trasformi sempre tutto in una occasione di studio, quasi che così si risolvano le questioni.

M.:  E’ vero, figlio mio, che non si risolvono ma conoscere il passato ci offre spunti per decifrare il presente e per individuare spiragli che indichino possibili vie d’uscita, perché – credimi – la storia dell’umanità ha delle costanti che ci possono sorprendere.  Pensi forse che il ricevere attenzioni sessuali indesiderate o, peggio, subire atti omosessuali sia una particolarità del nostro tempo?  La costante è che gli esseri umani riescono ad abituarsi quasi a tutto, specie quando le regole sono dettate, se non da dominatori, dalle convenzioni o dalle tradizioni.  Credi davvero che tutti i giovani gradissero il ruolo passivo che, nelle società tribali, toccava loro nella relazione, anche sessuale, con cui si concretizzava parte del rito di iniziazione che segnava il passaggio all’età adulta, quando era ammesso solo il ruolo attivo, quello che caratterizza il rapporto con la donna?

F.:  Certo che no e sicuramente non lo gradivano tutti i ragazzi tra i dodici e i quattordici-quindici anni che, ad Atene, si ritrovavano soggetti passivi, pur “all’interno di un legame affettivo duraturo”.  Ne sono testimonianza “le affermazioni di autori come Platone, Senofonte e lo pseudo Luciano, quando parlano del disgusto dei giovani amati, dell’umiliazione e del rancore che essi provavano verso gli amanti dopo il rapporto”[1].

M.:  Vedo che hai letto il saggio di Cantarella. 

F.:  Illuminante.  Così ho capito il perché di quei rapporti che alcuni semplicemente accettavano mentre altri, come Aristotele, rimpiangevano: “il ricordo del piacere provato provoca il desiderio di rinnovare il congiungimento che vi si accompagnava”. Non c’era possibilità di scelta, secondo le proprie inclinazioni; erano una “necessità sociale”[2] legata al fatto che, al centro dell’organizzazione della comunità non c’era il rapporto uomo-donna ma il rapporto tra uomini. Cantarella spiega: “il rapporto eterosessuale dava la vita fisica; la funzione di dare vita nel gruppo al maschio adulto, la funzione di creare l’uomo come individuo sociale spettava invece al rapporto omosessuale, che come sappiamo si stabiliva a questo scopo, quasi istituzionalmente, tra un adulto e un ragazzo. Ma questo rapporto doveva durare solo per un periodo di tempo ben delimitato.  Una volta raggiunta la maturità, infatti, il ragazzo doveva abbandonare il ruolo passivo (sia dal punto di vista culturale, sia dal punto di vista sessuale) e assumere un ruolo duplicemente attivo: quello eterosessuale del marito, e quello omosessuale dell’amante, educatore di un ragazzo amato»”[3].

M.:  Vedi, figlio mio, che c’è una ragione per tutto?  E’ perché c’era un tempo per tutto, anche per “assumere il ruolo virile con una donna, nel matrimonio”.  A questo proposito, c’è una indicazione molto significativa nell’Iliade, quando Teti si rivolge al figlio, disperato per la morte di Patroclo: “Accanto ad Achille sedette l’augusta sua madre, / lo carezzò con la mano e chiamandolo a nome gli disse: / «Figlio mio, fino a quando gemendo e soffrendo dolori / ti roderai il cuore, del tutto oblioso del cibo, / del letto?  Eppure è bello congiungersi con una donna / in amore»”[4].  E’ l’immagine di una madre affettuosa che esorta il figlio a superare quello stadio, ad andare oltre il “cameratismo di guerrieri” e “a compiere finalmente il suo dovere sociale”[5].

F.:  A me il discorso di Teti sembra quello tipico del genitore che si cura meno dei problemi psicologici che dei problemi sociali.

M.:  Sento un tono di rimprovero nella tua voce.

F.:  Te ne meravigli?  E’ vero che Teti sta agendo su ordine di Giove, adirato per lo scempio che, da nove giorni, Achille sta facendo del corpo di Ettore, colpevole di avere ucciso Patroclo.  E’ vero altresì che è difficile il compito di convincere il figlio, caratterizzato dall’«ira funesta», a consegnare la salma a Priamo per la sepoltura.  E’ pur vero, tuttavia, che, nel suo discorso, Teti non sembra tenere in alcun conto l’intensità del rapporto che legava i due amici.  Noi sappiamo, infatti, che Achille, sperando di essere il solo tra i due a morire a Troia, confidava di poter assegnare a Patroclo il ruolo di tutore del proprio figlio.  E sappiamo anche quanto premuroso Patroclo fosse stato con Briseide quando era stata condotta schiava di guerra.  A lui, cadavere, la donna rivolge il proprio lamento, quasi possa sentirla: “tu no, non volevi / ch’io piangessi, ma sempre dicevi che resa m’avresti / d’Achille divino la sposa legittima e, a Ftia sulle navi / condotta, il banchetto nuziale tra i Mirmidoni avresti imbandito. / Perciò senza fine io ti piango morto, dolcissimo sempre!”[6].  A me sembra altissima la statura umana di questo eroe ucciso: non mi meraviglia che abbia suscitato tanto amore e non mi importa se il legame con Achille avesse o no una componente sessuale.  Era amore e tanto mi basta. Per me il problema sorge quando l’amore non c’è o non è reciproco. 

M.:  Capisco quello che intendi dire: i genitori, nel valutare la condizione dei propri figli, usano parametri che prescindono dal loro benessere presente e futuro.  Ad esempio, non tengono in conto se abbiano o no conosciuto una realtà prima di allontanarsene.  Forse hai ragione.  Il problema è che spesso è così difficile conoscervi!  Tu, per esempio, sei sicuro di esserti sforzato di farmi comprendere il tuo disagio, quando ha cominciato a prendere corpo?

F.:  Ecco, lo sapevo che, ancora una volta, la colpa era mia!  Proprio tu mi parli così, tu che hai sempre sostenuto che ti bastasse uno sguardo per capire se qualcosa non andava! Ma non mi vedevi, in quei brevi periodi che trascorrevo a casa?  Non ti rendevi conto di quanto poco sereno fossi? Sembra quasi che tu non mi abbia guardato come persona ma come un esserino da gestire nel modo migliore possibile, quello che potesse darti la massima tranquillità.  E dove maggiore tranquillità che in un seminario?

M.:  Dimentichi che sei stato tu a chiederlo?

F.:  No, ma tu e Papà siete stati pronti ad assecondarmi, come se la mia fosse la migliore delle scelte possibili, come una buona sorte.  Non mi avete posto nessun problema, non mi avete presentato nessuna difficoltà.  Non vi siete chiesti e non mi avete chiesto se ci fosse un qualcosa che mi sarebbe potuto mancare.

M.:  Tu avresti saputo rispondere?

F.:  Non credo, ma sarei stato costretto a riflettere.  Invece così mi sono trovato in un ambiente sconosciuto, al quale mi sono semplicemente dovuto adattare accettando relazioni che non avevo mai nemmeno immaginato.  Mentre rispondeva pienamente alle mie aspettative la realtà educativa, sono stati per me sorprendenti alcuni rapporti affettivi che ho via via individuato e che erano talvolta connotati da una fisicità che mi appariva morbosa e comunque sgradita.  Era come se invano fossero trascorsi millenni da quando, nella Grecia precittadina, “i ragazzi apprendevano le virtù che avrebbero fatto di loro degli adulti durante il periodo di segregazione, vivendo in compagnia di un uomo, al tempo stesso educatore e amante”, mentre a Sparta “i ragazzi, a dodici anni, erano affidati a degli amanti, scelti tra i migliori uomini in età adulta, e da questi imparavano a essere dei veri spartiati”[7].

M.:  Ma quanti di questi casi hai trovato in tutti questi anni?

F.:  Mamma, cosa dici?  Fai una questione di numeri? 

M.:  No, figlio mio, volevo solo dire che in ogni contesto ci sono le eccezioni, le famose “mele marce”, ma questo non consente di generalizzare; come dice il proverbio, di “buttare il bambino con l’acqua sporca”.  Nella vita mi è capitato di avere a che fare con un sacerdote che stimavo, al quale mi rivolgevo per le messe ai defunti, e che poi ha dato scandalo, sorpreso a compiere atti sessuali con un ragazzino.  Una storia squallida, che però non mi ha indotto a colpevolizzare tutto il clero.  Mi rendo conto di quanto sia difficile la rinunzia alla sessualità e come questa, in un contesto in cui non sia possibile la sua libera espressione, possa trovare vie improprie.  Mi viene in mente ciò che disse Gesù a conclusione di una discussione sul matrimonio e sul fatto che non convenisse sposarsi se non si poteva ripudiare la propria moglie: “vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli”[8].  Ora, un conto è “la teorizzazione della continenza come valore morale”, un altro è la pratica “dell’astinenza come stato di vita più alto e più vicino al Signore, come strumento per la conquista del premio nella vita eterna”[9].   Non è facile accettare l’idea della “superiorità del celibato volontario”[10], rifiutare la sessualità e rendersi eunuchi, specie per alcuni.  Ora ti dico una cosa che spero non ti scandalizzi.  E’ un pensiero rimasto confuso finché non ho letto questo passo di Mancuso: “Riferendosi all’espressione «il discepolo che egli amava», presente sei volte nel Vangelo di Giovanni, alcuni hanno ipotizzato una tendenza omosessuale di Gesù.  La realtà è che questa figura un po’ enigmatica del discepolo preferito è completamente assente nei Sinottici, ricorre solo nel Quarto vangelo e solo nella seconda parte, forse come proiezione del suo autore, e non ha nulla a che fare con la vita di Gesù quale emerge da tutte le altre fonti, ben più affidabili dal punto di vista storico.  Se quindi si vuole ritrovare nel «discepolo che egli amava» un segnale di tendenza omosessuale, essa riguarda non Gesù ma l’autore del Quarto vangelo”[11].  Non avevo mai pensato che Gesù fosse omosessuale semplicemente perché, in quanto Dio venuto in terra come “Figlio dell’Uomo”, cioè figlio dell’Essere Umano, nella mia mente non poteva avere altro ruolo che quello di fratello dell’umanità intera.  Avevo sempre pensato che l’espressione di Giovanni potesse essere una vanteria, come quella dei bambini quando sostengono “la mamma vuole più bene a me”.  In alternativa, l’espressione mi sembrava interpretabile come “il discepolo che lo amava”, lo amava più di tutti e pertanto era da lui ricambiato con la massima intensità.  L’ipotesi riportata da Mancuso mi ha fatto molto riflettere: se davvero Giovanni fosse stato gay, sarebbe stato bellissimo, perché vorrebbe dire che Gesù davvero lo amava particolarmente perché era il più fragile, quello che faceva più fatica a stargli accanto, a “rendersi eunuco per il regno dei cieli”.

F.:  Mamma, davvero non c’è limite alle tue elucubrazioni!  Però devo ammettere che la tua ipotesi mi intriga.  Amare qualcuno e stargli accanto sapendo bene di dover respingere qualunque impulso, di doversi negare qualunque aspettativa, è terribile: vuol dire amare fino al sacrificio.  Ora rivedo la mia esperienza con altri occhi ma non cambia la mia convinzione che il seminario minore sia un errore.

M.:  Ma, figlio mio, io ho sempre pensato che il seminario fosse, dopo la famiglia e forse più ancora che la famiglia, il luogo più protetto al mondo!

F.:  E non hai pensato che una realtà mutilata come quella potesse generare storture e potesse impedire a ciascuno di trovare la propria identità, anche sessuale? Tu non hai idea di come sia triste assistere alle manovre di preadolescenti che cercano di trovare uno sbocco alle loro pulsioni!

M.:  Vuoi forse dire che le cose andavano meglio nella Grecia dell’età classica, quando era previsto che il figlio, per il passaggio all’età adulta, venisse affidato a un adulto di valore, che avesse le qualità per fare di lui un degno esponente della propria comunità e che con lui avesse un rapporto esclusivo, anche di tipo sessuale? Andavano meglio quando i genitori, che non ponevano in discussione le convenzioni, si limitavano a proteggere i propri figli dai corteggiatori inadeguati facendoli, come  ad Atene,  “controllare dai pedagoghi”[12]?

F.:  Non dico che era meglio; dico che, già allora, c’erano leggi a protezione dei ragazzi, tese a evitare ai giovanissimi “le possibilità di frequentazioni e di incontri pericolosi” col rischio di diventare prede di avventurieri.  Per questo “era considerato infame intrattenere qualunque rapporto” con i minori di dodici anni ed era corposo l’elenco degli amanti di “cattiva qualità” cui era proibito frequentare il locale ginnasio: tra questi gli schiavi, i liberti, i prostituti, i commercianti, gli ubriachi e i pazzi[13].  Alcune cose, a mio giudizio, col tempo sono cambiate ma non tutte con effetti positivi.  Per esempio, “l’uomo romano era condannato alla virilità”[14].  Per questo, “a differenza dei greci, i romani non ritenevano che, per i ragazzi, essere soggetti passivi di un rapporto omosessuale fosse educativo. […] Sessualmente […] erano uomini, anche se solo in potenza: e come tali non dovevano mai essere sottomessi”. D’altra parte, mancando la “funzione pedagogica del rapporto, […] fondamentale in Grecia”, veniva meno ciò che dava una motivazione nobile al compito assegnato all’adulto, che pur godeva di una posizione di predominio.  Di conseguenza, nel mondo latino, dove “l’adolescenza era breve” tanto che, “a quattordici anni, un ragazzo era già considerato un adulto […] e poteva prendere moglie”[15], “con il giovinetto amato […] si viveva una vera storia d’amore: destinata peraltro a finire […] nel momento in cui l’amante compiva l’atto che per i romani altro non era, di regola, che un dovere sociale, e che segnava l’inizio di una nuova era della vita: il matrimonio”[16].  Questo scatenava i pappagalli stradali, le cui iniziative potevano diventare veri e propri “attentati all’onore” dei “ragazzi di nascita libera”.  I “giovani ingenui”, che non potevano uscire da soli, erano protetti dal pretore con la punizione di “chi sottraeva loro la scorta” giacché, “senza scorta, essi si presentavano, a chi li incontrava, come persone di facili costumi”[17].

M.:  In conclusione, vuoi dire che c’erano più tutele di oggi?  Di nessun rilievo è dunque il fatto che “quel che era riprovato era solo il fatto di amare un giovane libero e cittadino romano”, mentre restava escluso lo schiavo che “non apparteneva, come soggetto, al mondo della città” e che poteva dunque essere sodomizzato senza problemi giacché “subire il padrone era parte integrante del dovere di servirlo”[18]?

F.:  Questo è un altro discorso, Mamma.  Voglio semplicemente dire che, se certe cose accadono oggi, non si può liquidare la faccenda dando la colpa al fato.  A me sembra che le famiglie non si assumano appieno le proprie responsabilità, scaricandole sulla scuola o, più genericamente, sulla società.  Penso a quanto si è impoverito il novero delle doti richieste a un compagno di scuola per essere considerato degno di essere frequentato: basta che sia “di buona famiglia” e prenda bei voti.    Poco importa se manca di sensibilità ed è anche magari un po’ bullo; se ti capisce; se ha piacere di stare con te o lo fa solo per convenienza; soprattutto, se tu hai piacere di stare con lui.

M.:  Figlio mio, non hai idea di quanto sia difficile essere genitore.  Mio padre diceva sempre: “io faccio quello che posso; il resto, come Dio vuole”.  Io non so se ho fatto tutto quello che potevo.  Probabilmente no.  Certo mi sono posta il problema dell’identità sessuale ma non ho mai immaginato che potesse essere messa a repentaglio in un seminario.  Ho letto tanto, cominciando naturalmente con Platone e quella bellissima immagine che spesso viene citata solo per metà: “Tanto tempo fa la nostra forma non era come adesso, ma diversa. Per cominciare, i generi umani erano tre, non come oggi, due: maschio e femmina.  Allora se ne aggiungeva un terzo, partecipe d’entrambi i sessi. […] L’uomodonna esisteva come sesso a parte, allora”.  Mi è sembrata rivoluzionaria questa “lezione preliminare sulla fibra umana” perché supera la concezione binaria per cui, sin dalle origini, o si è maschi o si è femmine. Questi esseri sferici “erano mostri d’aggressività e di resistenza.  Pieni d’orgoglio assalirono le divinità. […] Zeus ebbe un lampo di genio. Disse: «[…] li spacco tutti in due, ad uno ad uno, così le loro forze caleranno».  […] Ora, dopo il dimezzamento della figura umana, ogni parte rimpiangeva quel suo doppio”. Qui finisce la parte più citata della storia.  La più interessante è, a mio giudizio, il seguito, in cui Platone fa una casistica di ciò che poteva accadere a ciascuno nella ricerca della metà mancante.

F.:  Lo so, ho studiato il Simposio: “Esistono uomini risultato della spaccatura di quel vivo nodo che, allora, si chiamava uomodonna: sono amatori della donna, questi, e la risma degli adulteri, quasi tutta, alligna qui; ed ecco anche le donne appassionate d’uomo, specialmente adultere, tutte dallo stesso ceppo”.  Questo è l’effetto   del ricongiungimento delle due parti del terzo sesso.  Nessun problema per gli altri due. Infatti, “donna nata da spaccatura di donna, non fa tanto caso all’uomo, quanto si orienta sulle altre donne: da qui le donne che vanno con le donne.  Chi è taglio di maschio, bracca il maschio”.

M.:  E contempla i vari stadi e le varie possibilità di interazione anche sessuale tra due metà con “radici maschili”, concludendo: “Qualcuno dice che sono scandalosi: è una calunnia.  Non compiono quell’atto per istinto osceno: anzi, è tutto cuore, fibra maschia, d’uomo vero, è l’attrazione, in loro, per natura affine. Documento sicuro di questo: solo questi, fattisi maturi, riescono uomini versati in politica”[19].  Io penso che dovrebbero leggere questo passo tutti coloro che nascono “taglio di maschio” e soprattutto coloro che li avversano, li denigrano, li dileggiano, li giudicano anormali. 

F.:  Io lascerei da parte il riferimento alla politica, visto il basso livello di considerazione di cui gode al giorno d’oggi.  Piuttosto confronterei il discorso di Platone con le informazioni che, da medico, già venticinque anni fa, ha offerto la monaca benedettina e teologa Teresa Forcades quando, parlando di gender, ha spiegato che esistono almeno tre dimensioni del sesso biologico: “Sul piano cromosomico (genetico) tutti sappiamo che esistono xx(femmina) e xy (maschio) e molti sono convinti che vi siano soltanto queste due possibilità, ma non è così. […] Oltre a xx e xy, che tutti conosciamo, esiste infatti anche xxy: in medicina si chiama «sindrome di Klinefelter».  Questa composizione genetica riguarda una persona ogni mille.  C’è poi anche un’altra possibilità: x0 («sindrome di Turner»). Questi due sessi genetici che ho nominato cosa sono: femmine o maschi?”[20]. Pensa a quanto è divenuto attuale questo discorso durante le ultime Olimpiadi …..

M.: …con osservazioni e commenti che denotavano estrema ignoranza e volgarità. A me, invece, viene in mente ciò che disse Calvino in una intervista nel 1980: “Nella mia vita ho incontrato donne di grande forza.  Non potrei vivere senza una donna al mio fianco.  Sono solo un pezzo d’un essere bicefalo e bisessuato, che è il vero organismo biologico e pensante”[21].  Sembra Platone rivisitato ed è stupendo il modo in cui viene proposto il risultato del rapporto che si crea quando c’è vera intimità e appartenenza reciproca.  E’ l’effetto dell’amore vero e a me non interessa se si generi tra due persone dello stesso sesso o di sesso diverso e non m’importa nemmeno che sia eterno: mi basta che esista all’interno di una relazione.  Sono troppo vecchia per accettare rapporti basati solo su un’attrazione momentanea, su una voglia occasionale. Siamo persone; per me non esiste il “fare sesso”, non ha senso un amplesso equivalente al mangiare quando si ha fame, bere quando si ha sete, e trovo fulminante l’affermazione di Simone de Beauvoir riportata da Forcades: “rispetto alle esperienze sessuali riferite dalle giovani ragazze americane quindicenni sosteneva che avessero fatto più che altro «ginnastica pelvica»”[22].  Per me esiste solo il fare l’amore – come cantava Dalla – “ognuno come gli va”.  Mi rendo conto ora di non aver riflettuto sulla condizione di chi l’amore non lo può fare e se ne deve privare senza nemmeno averlo conosciuto.  Ci penso e me ne rammarico profondamente.

F.:  Peccato che avere studiato tanto ti sia servito tanto poco, come madre!

M.:  E’ vero.  Il fatto è che, per tanti anni, convinta che, per gli esseri umani, il sesso, non essendo legato alla procreazione, dunque alla conservazione della specie, sia o debba essere semplicemente un piacere, ho trovato normale poterne fare a meno, come col desiderio di cioccolata, cui si rinuncia in tempo di fioretti. Non solo. Non mi sono posta il problema di tutte le persone per cui si tratta di un impulso irrefrenabile, che non possono essere condannate a una vita da eunuchi. Dopo tutto, Gesù stesso parla del “rendersi tali”, cioè di una decisione di cui non può farsi carico un ragazzino.

F.:  E ora che l’hai capito?

M.:  Ora sono per l’abolizione dei seminari minorili.  Ti dirò di più, sarei per la chiusura dei seminari in generale, così da permettere a tutti di conoscere la vita.  Farei esistere solo Facoltà universitarie di Teologia analoghe alle altre Facoltà, cioè programmate con un corso base triennale e successivi corsi biennali specialistici, a seconda della branca di studio prescelta.  Sarebbero tutte aperte a uomini e donne, sposati e non, che, a seguito di concorsi, potrebbero avere accesso all’insegnamento o ad altre professioni. L’unico corso specialistico riservato agli uomini non sposati sarebbe quello di formazione alla vita ecclesiastica. Così dovrebbe essere fino a quando la Chiesa cattolica non si sentirà pronta per il sacerdozio femminile. In ogni caso, si tratterebbe di una scelta della quale un adulto sarebbe consapevole; soprattutto, una scelta della quale nessuno se non l’interessato potrebbe o dovrebbe sentirsi responsabile.

F.:  Questa, secondo te, sarebbe la soluzione di tutti i problemi?

M.:  Certo che no, ma toglierebbe spazio alla segregazione che ne causa tanti, su cui i più preferiscono tacere.  Per questo ho trovato coraggioso, anche se dirompente, e non mi ha scandalizzata affatto il termine “frociaggine” utilizzato da Bergoglio, che considero un grande Papa.  Lui si riferiva a quelle pratiche che poi diventano costume e non cessano con l’età né col mutamento delle condizioni. E’ un termine indubbiamente forte ma che richiama esclusivamente il fare sesso, non riguarda l’amore, che è un sentimento dolce, capace di illuminare un momento di vicinanza fisica tra due persone, uomini o donne che siano. Bisogna guardare in faccia la realtà, affrontarla e non fare come si è fatto per troppo tempo.

F.:  Beh, mi complimento.  Ne hai fatti di progressi!

M.: So di meritare il tuo sarcasmo; tu però non ti rendi conto del clima in cui sono cresciuta. Non so se ti ho mai detto quello che mi raccontava mio padre: quando lui era ragazzo, in paese tutti sapevano che un certo prete aveva una compagna, peraltro accettata in famiglia, e addirittura potevano vederne uno che si caricava una ragazza sulla canna della bicicletta, la portava in campagna e poi la riportava con grande disinvoltura. Mi spiegò che per tutti era normale distinguere tra ciò che l’individuo faceva in quanto uomo e la sua funzione di sacerdote sull’altare. Sdoppiamento? Sì. Ipocrisia? Forse.  Realismo? Certo.

F.:  Un po’ tardi, non ti pare, per raccontarmi queste cose? Non mi hai dato la possibilità di pensarci su.  Mi sarei posto il problema della castità.

 M.:  Perdonami. In tanti anni ho assistito a innumerevoli conferenze sull’educazione dei figli ma il tema della castità non è stato affrontato mai. Ricordo le posizioni più diverse, da quella che sostanzialmente richiamava la famosa canzone popolare napoletana, secondo la quale «mazz’ e panell’ fann ‘e figli bell’; panell’ senza mazz’ fann e’ figl pazz’», a quella di ispirazione bucolica che richiamava la consuetudine contadina di affiancare a un alberello ancora instabile un piccolo tronco che lo sostenga e lo aiuti a crescere diritto.  La posizione più interessante mi è sembrata quella di uno psicologo che prendeva ad esempio se stesso nel rapporto col proprio cane che, inizialmente, quando erano in giro per strada, scappava costringendolo a lunghi inseguimenti.  Quando aveva cambiato strategia e aveva smesso di rincorrerlo, si era accorto che l’animale fuggiva ma poi si fermava dietro l’angolo.  Il figlio si aspetta che il genitore lo segua, anche quando sembra sfidarlo.

F.:  Appunto, Mamma, il genitore deve accettare sfide, correre rischi, non prendere a scatola chiusa soluzioni rassicuranti.

M.:  Pensa che io mi ero posta un unico problema, quello del matrimonio dei preti, perché nell’anno che ho trascorso negli Stati Uniti ho avuto occasione di conoscere due figlie di pastori protestanti, entrambe compagne di scuola.  Erano agli antipodi: una quasi una suorina; l’altra del tutto fuori norma, sbandata, non di rado ubriaca.  Probabilmente mi sono capitati esempi sbagliati.  Certo è che, da allora, penso che avere un genitore ecclesiastico debba essere opprimente, quasi come lo era per me sentirmi dire che non potevo fare varie cose perché mio padre “portava le stellette”, cioè era un militare.

F.:  Dunque niente prole, niente matrimonio.  Come se ne esce?

M.:  In primo luogo, come ti dicevo, eliminando la possibilità di entrare in seminario se non si è maggiorenni.

F.:  E poi?

M.:  E poi, se ancora di seminari parliamo, dando ampia possibilità di ripensamenti e verifiche.  Non ci devono essere condizionamenti morali.  Pensa che un anno, nel liceo che dirigevo, è venuto un ragazzo proveniente da un seminario.  I suoi occhi erano smarriti quando è arrivato e non mi pare lo fossero di meno quando è andato via, dopo il pur brillante scrutinio finale.  Era stato troppo breve il lasso di tempo che si era concesso per capire, per scegliere e forse non lo aveva aiutato la presenza di amici, che c’erano e che presumo si fossero impegnati a fargli conoscere una vita diversa.  Credo che decisioni di questo genere richiedano riflessione, silenzio e una lenta   maturazione.

F.:  E allora?

M.:  Ora tocca a te.

F.:  Ho deciso: vengo via dal seminario ma non torno a casa.

M.:  E dove vai?!

F.:  Ancora non so. Ho bisogno di cambiare aria. Voglio andare in una città, finire il liceo e poi frequentare l’università.

M.:  Potresti andare dai tuoi cugini. Sarebbero felici di ospitarti.

F.:  Mamma, per favore, ho riflettuto su questa possibilità ma non sarete voi genitori a decidere.  Se questa lunga esperienza mi ha insegnato qualcosa è che non bisogna delegare le proprie scelte ad altri, nemmeno a chi ci ama moltissimo.  D’ora in poi, farò quello che mi sembrerà giusto e, se sbaglierò, pagherò.  Tanto il prezzo non potrà mai essere più alto di quello pagato finora.

M.:  Figlio mio, io ho semplicemente formulato un’ipotesi, peraltro seguendo la tua indicazione.  Ti prego, non estromettermi dalla tua vita.  Sarebbe una punizione tremenda.

F.:  Non ho nessuna intenzione di estrometterti, in primo luogo perché non voglio e poi perché non potrei, dato che non sono ancora né maggiorenne   né finanziariamente autonomo. Ti chiedo solo di non starmi col fiato sul collo e di rispettare il mio bisogno di indipendenza. Dopo tutto, non è questo che vuol dire crescere, diventare adulto?  Dovresti esserne sollevata.  Invece ti vedo incupita. Vuoi forse suscitare in me nuovi sensi di colpa?

M.:  No, per carità!

F.:  E allora smetti di preoccuparti per me.

M.:  Non ci riesco.  Non so cosa darei per garantirti, per il futuro, la serenità che ti è mancata in passato e che ti manca ancora.  Mi rendo perfettamente conto di quanto sia difficile questo momento, ma ricordati che non sei e non sarai solo, mai. Abbi fiducia in te stesso e abbi fede: la tua vita è nelle mani del Signore e, come sappiamo, Dio, se ti vuole, ti trova.  Quanto a me, non dubitare: se e quando dovessi desiderare avermi accanto a te, in qualunque strada del mondo, ti basterà fermarti dietro l’angolo, ti raggiungerò.

[1] CANTARELLA Eva, Secondo natura.  La bisessualità nel mondo antico, Milano, Feltrinelli, 2021, pagg. 67 e 272-3.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem, pag. 76.

[4] OMERO, Iliade –  Odissea , Roma, Newton Compton, 2021, Libro XXIV, vv. 126-131.

[5] CANTARELLA Eva, op. cit. , pagg. 19 e 25-6.

[6] Ibidem, Libro XIX, vv.328 e seguenti; v. 296-300-

[7]CANTARELLA Eva, op, cit., pagg. 21-2.

[8] Matteo 19, 12.

[9] CANTARELLA Eva, op. cit., pag 263.

[10] I VANGELI – Marco Matteo Luca Giovanni, a cura di Giancarlo Gaeta, Torino, Einaudi, 2006, pag. 923.

[11] Mancuso Vito, I quattro maestri, Milano, Garzanti, 2020, pag. 370.

[12] CANTARELLA Eva, op, cit.,pag. 39.

[13] Ibidem, pagg. 67 e 48-49.

[14] Ibidem, pag. 280.

[15] Ibidem, pagg. 276-7.

[16] Ibidem, pag. 163.

[17] Ibidem, pagg. 141 e 153-4.

[18] Ibidem, pagg. 138 e 131.

[19] PLATONE, Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Milano, Mondadori, 2020, pagg. 71-3.

[20] FORCADES Teresa, Siamo tutti diversi! Per una teologia queer, Roma, Lit Edizioni, 2019, pagg. 117-8.

[21] CALVINO Italo, Gli amori difficili, Milano, Mondadori, pag. XL.

[22] FORCADES Teresa, op. cit., pag. 45.

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