Che cos’è lo schwa?

Contro un nuovo segno grafico e suono vocalico. Che cos’è questo schwa?

Lo schwa

In Italia nella questione della lingua si inserisce una proposta scriteriata in nome della lotta contro il sessismo.

Così è definito il sessismo nel Vocabolario Treccani:

“Termine coniato nell’ambito dei movimenti femministi degli anni Sessanta del Novecento per indicare l’atteggiamento di chi (uomo o donna) tende a giustificare, promuovere o difendere l’idea dell’inferiorità del sesso femminile rispetto a quello maschile e la conseguente discriminazione operata nei confronti delle donne in campo sociopolitico, culturale, professionale, o semplicemente interpersonale; anche, con significato più generale, tendenza a discriminare qualcuno in base al sesso di appartenenza.”

In nome della lotta contro il sessismo c’è chi vorrebbe sostituire  le distinte desinenze grammaticali e fonetiche del maschile e del femminile con il solo schwa, il cui segno grafico è ə e la cui pronuncia secondo la descrizione di Luciano Romito in Enciclopedia dell’italiano è un “suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità”. Quindi una “non vocale”, che ricorre peraltro in ambiti dialettali italiani. In proposito assistiamo a uno scontro tra chi caldeggia  lo schwa in nome di rivendicazioni identitarie  e chi rigetta una simile innovazione perché ritenuta suscettibile di adulterare la lingua italiana.

Le prese di posizione contro lo schwa non sono mancate.

Un autorevole intervento nella questione proviene da una donna. Sul sito di MicroMega la docente universitaria Cecilia Robustelli, Ordinaria di Linguistica italiana, che esprime la forte contrarietà dell’Accademia della Crusca all’innovazione, così definisce lo schwa:
“Lo schwa non è una marca di genere, non è un grafema della lingua italiana, non corrisponde neanche a un suono con valore distintivo, e servirebbe per questo a eliminare il riferimento all’opposizione di genere binaria, cioè maschile femminile, legata all’uso delle desinenze tradizionali, permettendo invece il riferimento al più ampio spettro delle identità di genere […]”

La linguista mette in guardia da rischiose sperimentazioni linguistiche:

“È pericoloso sperimentare sul sistema della lingua se non si prevedono i contraccolpi che tale intervento può determinare e le sue conseguenze sul piano della comunicazione.

Secondo la linguista il femminismo dovrebbe difendere l’identità femminile sui piani grammaticale e fonetico piuttosto che relegarla nell’indistinto dello schwa:
“Dopo il lungo percorso socioculturale compiuto dalle donne, per tacere di tutte le misure istituzionali varate per la loro valorizzazione, sarebbe opportuno cercare con tutti i mezzi di rappresentarle nella lingua in modo da riconoscerne la presenza anziché cancellarle.”

In margine all’intervento della linguista  riteniamo doveroso specificare che lo schwa occulterebbe sul piano espressivo un aspetto essenziale dell’identità della donna, come delineata nel Manifesto di rivolta femminile diffuso a Roma  nel 1970:
“La trasmissione della vita, il rispetto della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della donna e valori che lei rivendica.”

Diciamo pure che la donna, quale generatrice degli esseri umani, merita che nella lingua originata  da Dante la sua femminilità sia evidenziata sui piani grammaticale e fonetico, non confusa e occultata  nell’indistinto dello schwa.

Un’altra linguista, Cristiana De Santis, ammonisce che accettando lo schwa “non solo avalleremmo una soluzione semplicistica, ma ci sottrarremmo alle regole grammaticali della nostra lingua, acquisite in modo libero e spontaneo da ogni parlante madrelingua”.

Si è attivata intanto una diffusa forma di protesta intellettuale contro il pericolo di snaturamento della lingua italiana.

È d’accordo con Cecilia Robustelli  e Cristiana De Santis il docente universitario Massimo Arcangeli, Ordinario di Linguistica italiana, promotore di un’iniziativa contro lo  schwa: la sua petizione per rigettarlo, sottoscritta da decine di migliaia di intellettuali, sta riscuotendo notevole successo.

Intervistato da Roberto Vivaldelli su Il Giornale del 17 febbraio, Massimo Arcangeli ha definito “inaccettabile” il fatto che in Italia lo schwa sia finito “in ben sei verbali prodotti da una commissione per l’abilitazione nazionale alla professione universitaria”. In Francia e in Spagna, ha ricordato il linguista, si è imposto il divieto di usare “simboli inclusivi […] nei documenti prodotti dalla pubblica amministrazione”.

Così dovrebbe essere anche da noi. Osserviamo infatti che l’introduzione del simbolo inclusivo nella nostra lingua genererebbe confusioni irrimediabili. Eccone un solo esempio, che basta però a dare un’idea del caos linguistico che sarebbe prodotto dallo schwa. In uno dei verbali  di cui sopra ricorre l’espressione “funzioni di professorə universitario”: si noti come l’aggettivo “universitario” sia restato al maschile, nonostante lo schwa asessuato sostituito alla –e finale di “professore”.

Sul Corriere della Sera Gian Antonio Stella, nell’annunciare la novità libraria La lingua scə ma. Contro lo schwa (e altri animali), Castelvecchi, 2022 di Massimo Arcangeli, ci ricorda fra l’altro che Claudio Marazzini, Presidente dell’Accademia della Crusca, già nel 2018 metteva in guardia dalla “oscurità comunicativa” incombente sul linguaggio a causa di espressioni come student@ in luogo di studenti o studentesse. Da allora in nome dell’inclusione sono state avanzate altre proposte oltre a quella dello schwa. Il giornalista ne ricorda alcune, fra le quali:  “Car*collega, Carx collega, Car’ collega, Caro/a collega, Caro(a) collega, Caro.a collega”.

Non possiamo nascondere che a questo punto la memoria corre spontanea a Dante: “Diverse lingue, orribili favelle” (Inferno, III, 25).

A favore dello schwa si registrano interventi che generano sconcerto e perplessità.

Eliana Cocca, che si fregia del titolo di bioeticista, su Il fatto quotidiano del 9 febbraio 2022 nell’articolo Lo schwa è una minaccia alla lingua italiana? Forse non avete capito il problema alla base presenta il tentativo di deformare la lingua italiana mediante lo schwa come “un esperimento”.  A dire il vero, se c’è qualcuno che forse non ha capito qualcosa, è proprio l’autrice, dal momento che con una sorta di ironia unita a un certa supponenza fra l’altro scrive:

“Come si fa a impedire che le persone scrivano e parlino come ritengono? Si chiama il 112? E questo vale in ogni caso, non fraintendetemi: chi sono io per obbligare qualcunə a usare lo schwa?”

Le persone definite libere di scrivere e parlare come meglio ritengono sconfinano in realtà nell’arbitrio. Scrivere e parlare in quanto atti illocutori vanno incontro a un limite, che coincide col rispetto del sistema linguistico istituzionalizzato.

Il gusto pretende di  imporsi contro la norma.

Dispiace che la scrittrice Michela Murgia abbia definito la petizione promossa da Massimo Arcangeli “insensata, disperata, reazionaria e senza destinatario pretendendo che il mio gusto sia norma […]”: sorvolando sulla sconclusionata sintassi, notiamo che la definizione offensiva si ritorce contro di lei, perché insensata, disperata, reazionaria risulta piuttosto la sua pretesa esibizionistica che si risolve in un vezzo come può esserlo un piercing o un tatuaggio. Secondo lei sarebbero gli intellettuali firmatari a pretendere di imporre il loro “gusto” linguistico come “norma” linguistica. Ebbene, è strano che la pregiata scrittrice mostri in tal modo di ignorare che la lingua storicamente si configura come un sistema in cui il capriccio del “gusto” trova il suo limite nella “norma”. In questo caso il capriccio del “gusto”  che vuole prevaricare sulla “norma” è il suo.

Non solo il femminismo, ma anche il transfemminismo se la prende con la grammatica.

Il Laboratorio transfemminista Smaschieramenti si schiera contro il “maschile sovraesteso”, osteggiandolo a colpi di cambiamento di desinenze. Il filosofo Federico Zappino, autore fra l’altro di Comunismo queer. Note per una sovversione dell’eterosessualità, Meltemi, 2019, approva simili prese di posizione contro la presunta discriminazione linguistica. Sennonché si tratta di comprendere il reale significato della parola “uomo”. Lo si veda, ad esempio, sul sito seguente:www.etimoitaliano.it

Sul sito citato si legge:

“La parola uomo deriva dalla radice sanscrita bhu che successivamente divenne hu (da cui anche humus = terra). Uomo significa quindi “creatura generata dalla terra”.”

Vale a dire che “uomo” significa non  “maschio”, ma “essere umano”. Quando nell’Heautontimorumenos di Publio Terenzio Afro la frase “homo sum, humani nihil a me alienum puto” viene pronunciata  da Cremete nel rivolgersi a Menedemo per soddisfare una sua curiosità, la parola homo non si riferisce al sesso maschile, ma segnala l’appartenenza al genere umano. E le desinenze al maschile rimandano a questa appartenenza.  Paradossalmente, chi appartiene alla comunità LGBT (acronimo di Lesbica, Gay, Bisessuale e Transgender), nel momento in cui rivendica la sua differenza sessuale, giunge a rinunciare alla propria identità, in quanto occulta la propria inclusione nella categoria degli esseri umani, di cui invece fa parte a pieno titolo.

È da ritenere che la comunità LGBT in Italia dovrebbe cimentarsi ben più energicamente contro gli ostacoli alle identità di genere sul campo giuridico, tenendo presente quanto accade in altri paesi, come il Belgio, a proposito della non menzione del sesso nelle carte d’identità, secondo quanto riportato sul seguente sito: europa.today.it/attualita/
Ma è in ambito internazionale che il dibattito sull’identità anagrafica si è andato svolgendo e continua a svolgersi,  come documentato sul sito seguente: www.swissinfo.ch/ita

Diverse sono le esigenze in campo linguistico –  letterario.

In campo linguistico l’uso indiscriminato dello schwa impoverirebbe la poesia.

Per i poeti  nominare le differenze uomo-donna è indispensabile. Si dirà che ci sono poesie come quelle in lingua napoletana in cui il suono vocalico neutro è presente. Ciò non toglie che la differenza di genere vi resti necessaria. Consideriamo, ad esempio, i corrispettivi di “quello” e “quella”, ovvero “chillə

echellə”: nonostante lo schwa finale, gli accenti tonici su – i – ed – e – continuano a distinguere  il maschile dal femminile.

Prendiamo ora in esame i primi versi di una lirica di Federico Garcia Lorca:

Federico Garcia Lorca (1898 – 1936)

Paisaje de la multitud que orina (Nocturno de Battery Place)

Se quedaron solos:
aguardaban la velocidad de las ultimas bicicletas.
Se quedaron solas:
esperaban la muerte de un nino en el velero japonés.

Restarono soli:
controllavano la velocità delle ultime biciclette.
Restarono sole:
aspettavano la morte di un bambino sul veliero giapponese.
(Federico Garcia Lorca, Poeta en Nueva York, in Poesie, introduzione e traduzione di Carlo Bo, volume secondo, Guanda, 1962)
Senza le differenze di genere indicate da “solos” e “solas” in spagnolo  e da “soli” e “sole”  in italiano, la poesia sarebbe venuta meno. La linguista Vera Gheno plaude a una scrittrice che ha inventato il plurale soles al posto di solos  e solas. Naturalmente quella scrittrice è libera di sperimentare nuove modalità espressive: ciò non significa che il suo soles possa costituire una norma linguistica per i poeti.

Lo schwa può essere considerato un’arma di distrazione di massa.

Fra gli interventi sull’argomento ricordiamo anche quello del filosofo Diego Fusaro, che su Il fatto quotidiano del 17 febbraio 2022 nell’articolo Schwa, le ragioni per cui ritengo questa battaglia linguistica regressiva e conformista ha definito “la lotta per lo schwa … un’arma di distrazione di massa” e non solo:
“è  anche  un  elemento  coessenziale   alla  logica di sviluppo della civiltà relativista e  merciforme, la quale procede distruggendo ogni identità – compresa quella linguistica – affinché nulla possa più opporre resistenza al nichilismo della forma merce.”
Secondo Fusaro, infatti, quanti combattono la “battaglia […] per imporre lo schwa nella lingua italiana” lo fanno “essenzialmente per fingere di avere ancora qualche vaga istanza oppositiva e nascondere il proprio osceno adattamento all’asimmetrica civiltà dei mercati.”
La provocazione di Fusaro, che potrebbe sembrare per certi aspetti stravagante, contiene comunque un nucleo di verità: la lingua italiana, costruita da Dante ed evolutasi attraverso i tempi, aprendosi a variazioni utili ma tali da non distruggerla come sistema condiviso, è un patrimonio culturale da difendere contro ogni tentativo di inficiare la sua specificità. Oggi il tentativo proviene da individualismi che si esibiscono in forma di movimenti e non dalla comunità coesa di chi, parlando e scrivendo, si serve del linguaggio istituzionalizzato a fini comunicativi.

Pertanto è opportuno prendere conoscenza del testo della petizione:

“Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della “e” rovesciata non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche. I fautori dello schwa, proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi, esortano a sostituire i pronomi personali “lui” e “lei” con “ləi”, e sostengono che le forme inclusive di “direttore” o “pittore, “autore” o “lettore” debbano essere “direttorə” e “pittorə”, autorə” e “lettorə”, sancendo di fatto la morte di “direttrice” e “pittrice”, “autrice” e “lettrice”.

Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili.

Nel latino classico “pictrix”, come femminile di “pictor”, non esisteva. Una donna che facesse la pittrice, nell’antica Roma, doveva accontentarsi di perifrasi come “pingendi artifex” (‘artista in campo pittorico’). C’è anche chi va ben oltre. Gli articoli determinativi “il”, “lo”, “la”, poiché l’italiano antico, in usi che oggi richiedono “il”, poteva prevedere al maschile singolare la variante “lo”, si pretende che convergano sull’unica forma “lə”, e i rispettivi plurali (“i”, “gli”, “le”) che confluiscano in “l3”, col secondo carattere che non è un 3 ma uno schwa lungo. Entrambi i segni, lo schwa e lo schwa lungo, sono perfino finiti in ben 6 verbali redatti da una Commissione per l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia. Lo schwa e altri simboli (slash, asterischi, chioccioline, ecc.), oppure specifici suoni (come la “u” in “Caru tuttu”, per “Cari tutti, care tutte”), che si vorrebbe introdurre a modificare l’uso linguistico italiano corrente, non sono motivati da reali richieste di cambiamento.

Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività. Lo schwa, secondo i sostenitori della sua causa, avrebbe anche il vantaggio di essere pronunciabile. Il suono è quello di una vocale intermedia, e gli effetti, se non fossero drammatici, apparirebbero involontariamente comici. Peculiare di diversi dialetti italiani, e molto familiare alla lingua inglese, lo schwa, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), trasformerebbe l’intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell’area di Cosenza.

Ed ecco il link per chi intenda sottoscrivere la petizione:  www.change.org/p/

Intanto i veri problemi da affrontare si impongono con sconvolgente drammaticità.

Ben altri rispetto all’uso dello schwa sono i problemi da risolvere in questi difficili tempi, contrassegnati nuovamente dal ricorso alle armi per soddisfare  deliranti ambizioni di sopraffazione, contrastate con cautela in nome di preponderanti interessi economici e finanziari e per timore di una distruttiva escalation militare nell’era degli armamenti nucleari: l’urgenza dell’uso della lingua comune si impone con riguardo non già a tentativi individuali di secessione, bensì a situazioni tragiche come questa, in cui la minaccia del ricorso agli armamenti nucleari diventa arma di ricatto facile da impugnare per menti criminali.

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Contro un nuovo segno grafico e suono vocalico. Che cos’è questo schwa?
Lo schwa
In Italia nella questione della lingua si inserisce una proposta scriteriata in nome della lotta contro il sessismo.
Così è definito il sessismo nel Vocabolario Treccani:
“Termine coniato nell’ambito dei movimenti femministi degli anni Sessanta del Novecento per indicare l’atteggiamento di chi (uomo o donna) tende a giustificare, promuovere o difendere l’idea dell’inferiorità del sesso femminile rispetto a quello maschile e la conseguente discriminazione operata nei confronti delle donne in campo sociopolitico, culturale, professionale, o semplicemente interpersonale; anche, con significato più generale, tendenza a discriminare qualcuno in base al sesso di appartenenza.”
In nome della lotta contro il sessismo c’è chi vorrebbe sostituire  le distinte desinenze grammaticali e fonetiche del maschile e del femminile con il solo schwa, il cui segno grafico è ə e la cui pronuncia secondo la descrizione di Luciano Romito in Enciclopedia dell’italiano è un “suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità”. Quindi una “non vocale”, che ricorre peraltro in ambiti dialettali italiani. In proposito assistiamo a uno scontro tra chi caldeggia  lo schwa in nome di rivendicazioni identitarie  e chi rigetta una simile innovazione perché ritenuta suscettibile di adulterare la lingua italiana.
Le prese di posizione contro lo schwa non sono mancate.
Un autorevole intervento nella questione proviene da una donna. Sul sito di MicroMega la docente universitaria Cecilia Robustelli, Ordinaria di Linguistica italiana, che esprime la forte contrarietà dell’Accademia della Crusca all’innovazione, così definisce lo schwa:“Lo schwa non è una marca di genere, non è un grafema della lingua italiana, non corrisponde neanche a un suono con valore distintivo, e servirebbe per questo a eliminare il riferimento all’opposizione di genere binaria, cioè maschile femminile, legata all’uso delle desinenze tradizionali, permettendo invece il riferimento al più ampio spettro delle identità di genere […]”
La linguista mette in guardia da rischiose sperimentazioni linguistiche:
“È pericoloso sperimentare sul sistema della lingua se non si prevedono i contraccolpi che tale intervento può determinare e le sue conseguenze sul piano della comunicazione.”
Secondo la linguista il femminismo dovrebbe difendere l’identità femminile sui piani grammaticale e fonetico piuttosto che relegarla nell’indistinto dello schwa:“Dopo il lungo percorso socioculturale compiuto dalle donne, per tacere di tutte le misure istituzionali varate per la loro valorizzazione, sarebbe opportuno cercare con tutti i mezzi di rappresentarle nella lingua in modo da riconoscerne la presenza anziché cancellarle.”
In margine all’intervento della linguista  riteniamo doveroso specificare che lo schwa occulterebbe sul piano espressivo un aspetto essenziale dell’identità della donna, come delineata nel Manifesto di rivolta femminile diffuso a Roma  nel 1970:“La trasmissione della vita, il rispetto della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della donna e valori che lei rivendica.”
Diciamo pure che la donna, quale generatrice degli esseri umani, merita che nella lingua originata  da Dante la sua femminilità sia evidenziata sui piani grammaticale e fonetico, non confusa e occultata  nell’indistinto dello schwa.
Un’altra linguista, Cristiana De Santis, ammonisce che accettando lo schwa “non solo avalleremmo una soluzione semplicistica, ma ci sottrarremmo alle regole grammaticali della nostra lingua, acquisite in modo libero e spontaneo da ogni parlante madrelingua”.
Si è attivata intanto una diffusa forma di protesta intellettuale contro il pericolo di snaturamento della lingua italiana.
È d’accordo con Cecilia Robustelli  e Cristiana De Santis il docente universitario Massimo Arcangeli, Ordinario di Linguistica italiana, promotore di un’iniziativa contro lo  schwa: la sua petizione per rigettarlo, sottoscritta da decine di migliaia di intellettuali, sta riscuotendo notevole successo.
Intervistato da Roberto Vivaldelli su Il Giornale del 17 febbraio, Massimo Arcangeli ha definito “inaccettabile” il fatto che in Italia lo schwa sia finito “in ben sei verbali prodotti da una commissione per l’abilitazione nazionale alla professione universitaria”. In Francia e in Spagna, ha ricordato il linguista, si è imposto il divieto di usare “simboli inclusivi […] nei documenti prodotti dalla pubblica amministrazione”.
Così dovrebbe essere anche da noi. Osserviamo infatti che l’introduzione del simbolo inclusivo nella nostra lingua genererebbe confusioni irrimediabili. Eccone un solo esempio, che basta però a dare un’idea del caos linguistico che sarebbe prodotto dallo schwa. In uno dei verbali  di cui sopra ricorre l’espressione “funzioni di professorə universitario”: si noti come l’aggettivo “universitario” sia restato al maschile, nonostante lo schwa asessuato sostituito alla –e finale di “professore”.
Sul Corriere della Sera Gian Antonio Stella, nell’annunciare la novità libraria La lingua scə ma. Contro lo schwa (e altri animali), Castelvecchi, 2022 di Massimo Arcangeli, ci ricorda fra l’altro che Claudio Marazzini, Presidente dell’Accademia della Crusca, già nel 2018 metteva in guardia dalla “oscurità comunicativa” incombente sul linguaggio a causa di espressioni come student@ in luogo di studenti o studentesse. Da allora in nome dell’inclusione sono state avanzate altre proposte oltre a quella dello schwa. Il giornalista ne ricorda alcune, fra le quali:  “Car*collega, Carx collega, Car’ collega, Caro/a collega, Caro(a) collega, Caro.a collega”.
Non possiamo nascondere che a questo punto la memoria corre spontanea a Dante: “Diverse lingue, orribili favelle” (Inferno, III, 25).
A favore dello schwa si registrano interventi che generano sconcerto e perplessità.
Eliana Cocca, che si fregia del titolo di bioeticista, su Il fatto quotidiano del 9 febbraio 2022 nell’articolo Lo schwa è una minaccia alla lingua italiana? Forse non avete capito il problema alla base presenta il tentativo di deformare la lingua italiana mediante lo schwa come “un esperimento”.  A dire il vero, se c’è qualcuno che forse non ha capito qualcosa, è proprio l’autrice, dal momento che con una sorta di ironia unita a un certa supponenza fra l’altro scrive:
“Come si fa a impedire che le persone scrivano e parlino come ritengono? Si chiama il 112? E questo vale in ogni caso, non fraintendetemi: chi sono io per obbligare qualcunə a usare lo schwa?”
Le persone definite libere di scrivere e parlare come meglio ritengono sconfinano in realtà nell’arbitrio. Scrivere e parlare in quanto atti illocutori vanno incontro a un limite, che coincide col rispetto del sistema linguistico istituzionalizzato.
Il gusto pretende di  imporsi contro la norma.
Dispiace che la scrittrice Michela Murgia abbia definito la petizione promossa da Massimo Arcangeli “insensata, disperata, reazionaria e senza destinatario pretendendo che il mio gusto sia norma […]”: sorvolando sulla sconclusionata sintassi, notiamo che la definizione offensiva si ritorce contro di lei, perché insensata, disperata, reazionaria risulta piuttosto la sua pretesa esibizionistica che si risolve in un vezzo come può esserlo un piercing o un tatuaggio. Secondo lei sarebbero gli intellettuali firmatari a pretendere di imporre il loro “gusto” linguistico come “norma” linguistica. Ebbene, è strano che la pregiata scrittrice mostri in tal modo di ignorare che la lingua storicamente si configura come un sistema in cui il capriccio del “gusto” trova il suo limite nella “norma”. In questo caso il capriccio del “gusto”  che vuole prevaricare sulla “norma” è il suo.
Non solo il femminismo, ma anche il transfemminismo se la prende con la grammatica.
Il Laboratorio transfemminista Smaschieramenti si schiera contro il “maschile sovraesteso”, osteggiandolo a colpi di cambiamento di desinenze. Il filosofo Federico Zappino, autore fra l’altro di Comunismo queer. Note per una sovversione dell’eterosessualità, Meltemi, 2019, approva simili prese di posizione contro la presunta discriminazione linguistica. Sennonché si tratta di comprendere il reale significato della parola “uomo”. Lo si veda, ad esempio, sul sito seguente:www.etimoitaliano.it
Sul sito citato si legge:
“La parola uomo deriva dalla radice sanscrita bhu– che successivamente divenne hu– (da cui anche humus = terra). Uomo significa quindi “creatura generata dalla terra”.”
Vale a dire che “uomo” significa non  “maschio”, ma “essere umano”. Quando nell’Heautontimorumenos di Publio Terenzio Afro la frase “homo sum, humani nihil a me alienum puto” viene pronunciata  da Cremete nel rivolgersi a Menedemo per soddisfare una sua curiosità, la parola homo non si riferisce al sesso maschile, ma segnala l’appartenenza al genere umano. E le desinenze al maschile rimandano a questa appartenenza.  Paradossalmente, chi appartiene alla comunità LGBT (acronimo di Lesbica, Gay, Bisessuale e Transgender), nel momento in cui rivendica la sua differenza sessuale, giunge a rinunciare alla propria identità, in quanto occulta la propria inclusione nella categoria degli esseri umani, di cui invece fa parte a pieno titolo.
È da ritenere che la comunità LGBT in Italia dovrebbe cimentarsi ben più energicamente contro gli ostacoli alle identità di genere sul campo giuridico, tenendo presente quanto accade in altri paesi, come il Belgio, a proposito della non menzione del sesso nelle carte d’identità, secondo quanto riportato sul seguente sito: europa.today.it/attualita/Ma è in ambito internazionale che il dibattito sull’identità anagrafica si è andato svolgendo e continua a svolgersi,  come documentato sul sito seguente: www.swissinfo.ch/ita
Diverse sono le esigenze in campo linguistico –  letterario.
In campo linguistico l’uso indiscriminato dello schwa impoverirebbe la poesia.
Per i poeti  nominare le differenze uomo-donna è indispensabile. Si dirà che ci sono poesie come quelle in lingua napoletana in cui il suono vocalico neutro è presente. Ciò non toglie che la differenza di genere vi resti necessaria. Consideriamo, ad esempio, i corrispettivi di “quello” e “quella”, ovvero “chillə”
e “chellə”: nonostante lo schwa finale, gli accenti tonici su – i – ed – e – continuano a distinguere  il maschile dal femminile.
Prendiamo ora in esame i primi versi di una lirica di Federico Garcia Lorca:
Federico Garcia Lorca (1898 – 1936)
Paisaje de la multitud que orina (Nocturno de Battery Place)
Se quedaron solos:aguardaban la velocidad de las ultimas bicicletas.Se quedaron solas:esperaban la muerte de un nino en el velero japonés.
Restarono soli:controllavano la velocità delle ultime biciclette.Restarono sole:aspettavano la morte di un bambino sul veliero giapponese.(Federico Garcia Lorca, Poeta en Nueva York, in Poesie, introduzione e traduzione di Carlo Bo, volume secondo, Guanda, 1962)Senza le differenze di genere indicate da “solos” e “solas” in spagnolo  e da “soli” e “sole”  in italiano, la poesia sarebbe venuta meno. La linguista Vera Gheno plaude a una scrittrice che ha inventato il plurale soles al posto di solos  e solas. Naturalmente quella scrittrice è libera di sperimentare nuove modalità espressive: ciò non significa che il suo soles possa costituire una norma linguistica per i poeti.
Lo schwa può essere considerato un’arma di distrazione di massa.
Fra gli interventi sull’argomento ricordiamo anche quello del filosofo Diego Fusaro, che su Il fatto quotidiano del 17 febbraio 2022 nell’articolo Schwa, le ragioni per cui ritengo questa battaglia linguistica regressiva e conformista ha definito “la lotta per lo schwa … un’arma di distrazione di massa” e non solo:“è  anche  un  elemento  coessenziale   alla  logica di sviluppo della civiltà relativista e  merciforme, la quale procede distruggendo ogni identità – compresa quella linguistica – affinché nulla possa più opporre resistenza al nichilismo della forma merce.”Secondo Fusaro, infatti, quanti combattono la “battaglia […] per imporre lo schwa nella lingua italiana” lo fanno “essenzialmente per fingere di avere ancora qualche vaga istanza oppositiva e nascondere il proprio osceno adattamento all’asimmetrica civiltà dei mercati.”La provocazione di Fusaro, che potrebbe sembrare per certi aspetti stravagante, contiene comunque un nucleo di verità: la lingua italiana, costruita da Dante ed evolutasi attraverso i tempi, aprendosi a variazioni utili ma tali da non distruggerla come sistema condiviso, è un patrimonio culturale da difendere contro ogni tentativo di inficiare la sua specificità. Oggi il tentativo proviene da individualismi che si esibiscono in forma di movimenti e non dalla comunità coesa di chi, parlando e scrivendo, si serve del linguaggio istituzionalizzato a fini comunicativi.
Pertanto è opportuno prendere conoscenza del testo della petizione:
“Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della “e” rovesciata non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche. I fautori dello schwa, proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi, esortano a sostituire i pronomi personali “lui” e “lei” con “ləi”, e sostengono che le forme inclusive di “direttore” o “pittore, “autore” o “lettore” debbano essere “direttorə” e “pittorə”, autorə” e “lettorə”, sancendo di fatto la morte di “direttrice” e “pittrice”, “autrice” e “lettrice”.
Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili.
Nel latino classico “pictrix”, come femminile di “pictor”, non esisteva. Una donna che facesse la pittrice, nell’antica Roma, doveva accontentarsi di perifrasi come “pingendi artifex” (‘artista in campo pittorico’). C’è anche chi va ben oltre. Gli articoli determinativi “il”, “lo”, “la”, poiché l’italiano antico, in usi che oggi richiedono “il”, poteva prevedere al maschile singolare la variante “lo”, si pretende che convergano sull’unica forma “lə”, e i rispettivi plurali (“i”, “gli”, “le”) che confluiscano in “l3”, col secondo carattere che non è un 3 ma uno schwa lungo. Entrambi i segni, lo schwa e lo schwa lungo, sono perfino finiti in ben 6 verbali redatti da una Commissione per l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia. Lo schwa e altri simboli (slash, asterischi, chioccioline, ecc.), oppure specifici suoni (come la “u” in “Caru tuttu”, per “Cari tutti, care tutte”), che si vorrebbe introdurre a modificare l’uso linguistico italiano corrente, non sono motivati da reali richieste di cambiamento.
Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività. Lo schwa, secondo i sostenitori della sua causa, avrebbe anche il vantaggio di essere pronunciabile. Il suono è quello di una vocale intermedia, e gli effetti, se non fossero drammatici, apparirebbero involontariamente comici. Peculiare di diversi dialetti italiani, e molto familiare alla lingua inglese, lo schwa, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), trasformerebbe l’intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell’area di Cosenza.”
Ed ecco il link per chi intenda sottoscrivere la petizione:  www.change.org/p/
Intanto i veri problemi da affrontare si impongono con sconvolgente drammaticità.
Ben altri rispetto all’uso dello schwa sono i problemi da risolvere in questi difficili tempi, contrassegnati nuovamente dal ricorso alle armi per soddisfare  deliranti ambizioni di sopraffazione, contrastate con cautela in nome di preponderanti interessi economici e finanziari e per timore di una distruttiva escalation militare nell’era degli armamenti nucleari: l’urgenza dell’uso della lingua comune si impone con riguardo non già a tentativi individuali di secessione, bensì a situazioni tragiche come questa, in cui la minaccia del ricorso agli armamenti nucleari diventa arma di ricatto facile da impugnare per menti criminali.

Giovanni Modugno: a master of the senses

GIOVANNI MODUGNO: UN “MAESTRO DEL SENSO” PER LA SCUOLA ITALIANA DI OGGI

di CARLO DE NITTI

Alle “voci archetipe” della mia remotissima adolescenza

per sempre nei miei spazitempi mnesici, con infinita gratitudine.

Nascoste ai molti, si palesano,

a chi le cerca con animo puro,

perle, veri tesori delle profondità,

che rivelano le nostre vite,

la nostra intima essenza

di cercatori tra le pagine …

1. PROLOGO

Non mi è possibile iniziare questo intervento senza ringraziare con sentimenti di sincera gratitudine il prof. Vincenzo Robles, illustre cittadino bitontino e studioso di preclara fama, per avermi invitato a partecipare – bontà sua – a questo evento sul pensiero di Giovanni Modugno, pedagogista del ‘900 pugliese, italiano, europeo.

Non è quella che segue una forma di excusatio non petita: non sono un esperto di Giovanni Modugno nel senso accademico della parola, ma ho avuto, da molti anni, con la sua storia di vita, di pensiero, politica, culturale e religiosa una frequentazione che mi affascina. Sì, perché una personalità come quella di Giovanni Modugno non può non sé-durre, a prescindere dalle idee di chi a lui si accosti, purché lo faccia con onestà intellettuale e disinteresse, anche venale. Caratteristiche che egli stesso possedette in modo assoluto e che costituirono la cifra peculiare della sua personalità di uomo, di docente e quindi, di pedagogista.

Tutti gli altri intervenuti a questo evento – certamente molto più competenti di me – hanno lumeggiato o lumeggeranno da par loro al meglio il pensiero del pedagogista: a me, che raccolgo “materiali per chi voglia scrivere di storia” (alla maniera dei Commentari cesariani) piace interrogare la figura di Giovanni Modugno per cogliere – provando a suggere l’essenza del suo pensiero – quanto egli possa dire (rectius: insegnare) a noi persone di scuola del XXI secolo, che operano nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado (sebbene, ahimè, io mi trovi nel “pronaos” della quiescenza). Il ri-pensare Giovanni Modugno nella scuola di oggi non può, né deve, essere un mero esercizio di erudizione storiografica, ma un interesse squisitamente teoretico che interroghi il pedagogista, a partire dagli interrogativi del presente che scaturiscono, ovviamente, da bisogni didattici, educativi e pedagogici che urgono alle persone di scuola.

2. I “MAESTRI DEL SENSO”

E’ possibile connotare Giovanni Modugno come un “cercatore di Cristo”, un “apostolo dell’educazione”, un “pellegrino dell’Assoluto”: queste locuzioni possono legittimamente compendiarsi – per utilizzare il lessico della pedagogia di Papa Francesco – nell’espressione “maestro del senso”. Non trovo migliore sintetica definizione se non quella delle parole usate dal Pontefice recentemente a Lisbona, parlando ai giovani dal Pontefice per definirli: . 

E Giovanni Modugno lo è stato, di sicuro, ante litteram, … e lo è ancora oggi, a sessantacinque anni dalla sua scomparsa!

Leggere Giovanni Modugno oggi significa affrontare in modo efficace le urgenze educative del mondo contemporaneo: riformare la scuola, per Modugno, voleva dire formare le coscienze delle degli educandi. Al centro del processo educativo – come sostenevano in quegli anni i pedagogisti dell’attivismo pedagogico – non possono che esserci gli educandi con i loro vissuti, le loro storie interiori, i loro bisogni. Nel processo di educazione, non si può che “ascendere insieme”, per riprendere il titolo di un testo del 1943 dello stesso Modugno, per cambiare se stessi e contestualmente la società in cui si vive. L’unica vera riforma della scuola doveva essere, a parere di Giovanni Modugno, la “riforma interiore”, quella della formazione dei docenti.

La sua vita, la sua ricerca culturale, il suo insegnamentoincarnano l’anelito verso una società più giusta e più libera, nella quale ogni persona, consapevole della sua dignità, possa recuperare e vivere il significato dei valori fondamentali, in primis, la vita e la libertà, senza dei quali non è possibile praticare alcun altro valore. L’attualità del suo messaggio si focalizza prioritariamente intorno alla finalità dell’educazione, riprendendo le istanze più significative della tradizione pedagogica cristiana, arricchita dal dialogo fecondo con autori contemporanei. A partire dalla fine degli anni Venti, intensa fu la relazione di Giovanni Modugno con il gruppo di pedagogisti cattolici che si raccoglieva in quel di Brescia intorno alla casa editrice La Scuola, fondata nel 1904, ed alla rivista Scuola Italiana Moderna, nata nel 1893. Il medesimo milieu cattolico in cui, com’è noto, nacque (nel 1897) e si formò un giovane sacerdote (proclamato santo nel 2018), don Giovanni Battista Montini (il cui padre, l’avvocato Giorgio, era stato tra i fondatori della casa editrice), che alle posizioni di Giovanni Modugno fu certamente vicino, anche attraverso la filosofia della persona di Jacques Maritain (1882 – 1973).  

Nel gruppo di docenti e pedagogisti cattolici bresciani e nelle loro iniziative, di cui fu ispiratore e sodale anche attraverso il suo discepolo e figlioccio Matteo Perrini (1925 – 2007), Giovanni Modugno trovò quella consonanza intellettuale e religiosa che spesso gli mancò in Puglia, una sorta di accogliente “rifugio” ma anche la possibilità di incidere nella scuola militante: basti pensare alla comunanza di interessi e alla sua consonanza intellettuale con Laura Bianchini (1903 – 1983), docente di filosofia bresciana e madre Costituente.  

Anche dopo la seconda guerra mondiale, Giovanni Modugno continuò a collaborare con Scuola Italiana Moderna, la rivista scolastica più diffusa tra i docenti di scuola elementare, ed ispirò anche una filiazione diretta del gruppo bresciano: il “gruppo di maestri sperimentatori” di Pietralba (BZ),  dal nome dalla località dolomitica nella quale il gruppo si riunì per la prima volta nel 1948, cui partecipò anche un altro grande pedagogista pugliese, allora appena venticinquenne, suo allievo all’Istituto Magistrale di Bari: Gaetano Santomauro (1923 – 1976).  

Giovanni Modugno riconosce che la pedagogia è la “scienza della vita”: si preoccupa di affinare una riflessione rigorosa ma anche che manifesti un’efficacia pratica, fondata su principi e valori saldi, applicabili sia alla prassi quotidiana, scolastica e non. Per Modugno, la scienza della vita costituisce la risposta più significativa all’esigenza di riaffermare il primato della moralità, della razionalità e della spiritualità, come qualità peculiari di ogni persona che impara a riconoscerle come espressioni ineludibili della propria dignità e della propria coscienza morale.

Giovanni Modugno ricerca sempre il “perfezionamento interiore” anche nei momenti più drammatici della sua vita personale, come nel 1934, con la precoce morte dell’unica figlia Pina. Evento – collegato con altri lutti familiari (i genitori) – che interroga la coscienza del pedagogista. Quando la figlia si ammala, il progetto del Modugno è di lavorare per ‘cristianizzare la vita’, in lui e attorno a lui. E’ convinto che le disuguaglianze sociali e le miserie non si eliminano soltanto con le leggi e le riforme, ma con l’amore. La vera riforma interiore consiste nel disporsi a comprendere i bisogni di ciascuna persona in difficoltà e nel sentirsi responsabili se manca il necessario per vivere.

I motivi fondamentali che accompagnano la vita di Modugno sono quelli di ‘ascendere insieme’, ‘salire alla sublime vetta’,‘aiutare gli altri a salire’: l’insegnamento gli consente di adempiere a questa sua idea. Nella prospettiva del suo pensiero, la religione costituisce il principale centro d’interesse dell’intero curricolo scolastico, oltre che il contenuto più significativo della scienza della vita. Essa è la guida per cogliere nella vita concreta le relazioni tra le singole azioni ed i principi della ragione e della morale. Con la didattica della ‘provocazione riflessiva’, stimolata dal docente, la pratica del riflettere durante le lezioni li sollecitanella chiarificazione dei criteri direttivi e li pome nelle condizioni di osservare, giungendo a scoprire le istanze più profonde della vita.

3. GIOVANNI MODUGNO VIVANT

Riflettere oggi, nel terzo decennio del XXI secolo, sulla figura, sul pensiero e sulla storia di Giovanni Modugno, “cercatore di Cristo” ed “apostolo dell’educazione” è un atto “rivoluzionario” nella sua essenza, che modifica radicalmente i paradigmi del pensiero corrente, spesso incentrato sui tecnicismi della pedagogia– declinati in tutte le sue branche – e della scuola, piuttosto che sulla persona, quale punto di imputazione ultimo di ogni azione educativa.

Questo è il continuum che attraversa la vita di Giovanni Modugno, anche prima di insegnare, quando, da giovanissimo, iniziò ad impegnarsi nelle vicende della politica della sua città, in solido con lo storico molfettese Gaetano Salvemini (1873 – 1957), cui lo unì un lunghissimo sodalizio intellettuale e politico, nonostante le diverse posizioni, che ha attraversato la storia italiana dai primi anni del XX secolo agli anni ’50 del medesimo.Pressocché coetanei, furono entrambi “figli”, molto diversi tra loro, della medesima temperie culturale, quella positivistica, da cui furono entrambi però sempre alieni, giungendo a posizioni politiche diverse che avevano in comune l’impegno infaticabile e diuturno per il riscatto dei contadini meridionali rispetto ai soprusi dei latifondisti assenteisti, attraverso la conquista del primo e più fondamentale dei diritti, quello all’istruzione.   

Il fulcro dell’attività di Giovanni Modugno – che volle essere sempre “maestro di maestri” – fu sempre l’educazione dei giovani al pensiero critico, lontano da ogni possibile strumentalizzazione da qualunque “luogo” essa provenisse. Egli non fu mai uomo “di parte”, rifiutò sempre per se stesso incarichi, cariche ed onori di ogni tipo, proprio per conservare la sua libertà di pensiero: com’è noto, rifiutò la carica di Provveditore agli studi di Bari, sia nel 1923, quando gli fu proposta da Giuseppe Lombardo-Radice (1879 – 1938) perché temeva che avrebbe dovuto venire a compromessi con il fascismo, sia dopo la seconda guerra mondiale, quando fu invitato a ricoprire la medesima carica da Tommaso Fiore (1884 – 1973), a nome del Comitato di Liberazione Nazionale. Parimenti, non a caso, nel 1929, fu assordante il suo silenzio – in un’Italia osannante – di fronte alla firma dei Patti Lateranensi, che, com’è noto, ponevano fine alla sessantennale “questione romana”.

Questa missione – cui adempì senza deroga alcuna – non gli impedì di mantenere relazioni intellettuali con i più sensibili ed insigni pedagogisti del suo tempo, a cominciare dalla “scoperta” di Friedrich Wilhelm Foerster (1869 – 1966) e Josiah Royce (1855 – 1916). Con ed attraverso di loro, Giovanni Modugno difese la persona umana, la sua dignità e la sua libertà interiore, trovando nel cristianesimo, inteso come “fede nella Resurrezione”, il miglior fondamento per conseguire questo obiettivo. In quest’opera educativa, massima era la sintonia del pedagogista con l’allora Arcivescovo di Bari, Mons. Marcello Mimmi (1882 – 1961), di cui condivideva in toto il metodo pastorale.

La cifra di tutta l’esistenza del pedagogista che si può compendiare nel titolo del volume – pubblicato dieci anni dopo la sua scomparsa, a cura dell’amatissima moglie, Maria Spinelli Modugno – Giovanni Modugno. Io cerco l’Eterno: mediante un’ascesa interiore, mai disgiunta dall’adempimento del dovere della missione educativa, indirizzata alla conquista, da rinnovare continuamente, della libertà, della coscienza critica e della dignità della persona umana. Un’eredità pedagogica e morale da raccogliere e praticare con rinnovata lena anche, se non soprattutto, nelle scuole di ogni ordine e grado. 

Quella ‘coscienza critica’ di cui oggi – dopo oltre sessanta anni dalla sua morte – si avverte uno smisurato bisogno: VINCENZO ROBLES, da storico, con i suoi volumi, ne rende seriamente consapevoli noi tutt*, uomini del XXI secolo, persone di scuola e non.

4. EPILOGO “APERTO”

Più che un epilogo – per quanto aperto – mi piace avanzare una proposta concreta per continuare a riscoprire e valorizzare il pensiero di Giovanni Modugno nel XXI secolo. Mi piace avanzarla qui in un luogo simbolo della sua città natale, alla presenza delle autorità civili e religiose e di tanti illustri esperti.

Come si è diffuso nella scuola barese, pugliese ed italiana, forse melgré lui, il pensiero di Giovanni Modugno? A questa domanda,penso, si possa dare una risposta certa: attraverso i suoi studenti cui è toccato in sorte di averlo avuto come docente, prima a Corato, per sette anni, poi. dal 1920 al collocamento in quiescenza. presso l’Istituto Magistrale “Giordano Bianchi-Dottula” di Bari.

Essi hanno “abitato” ed “innervato” la scuola – segnatamente e prioritariamente quella elementare – barese, pugliese e non solo portando nella loro attività didattica e professionale gli insegnamenti ricevuti. Sarebbe molto interessante – non certo per mera erudizione storiografica – ricercare i loro nomi, la loro provenienza geografica attraverso i registri del prof. Giovanni Modugno, raccolti nell’archivio storico dell’istituto scolastico frequentato.

Consultando quell’archivio, tanto si potrebbe scoprire su Giovanni Modugno e sulla storia della scuola pugliese: potrebbe essere un ottimo argomento per un’efficace e non convenzionale attività di Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (vulgo PCTO, come negli acronimi di cui è saturo lo ‘scolastichese’, nota neolingua iniziatica), ovvero, anche per tesi di laurea (triennali, magistrali e di PhD) sicuramente molto interessanti e nietzscheanamente “inattuali”.

Del resto, l’influenza del pensiero di Giovanni Modugno,attraverso i suoi studenti del “Bianchi–Dottula”, ha anche travalicato anche i confini della scuola e della pedagogia: basti ricordare anche soltanto il nome di uno di loro, divenuto un Maestro del Diritto dell’Università degli studi di Bari (e tantissimo altro…), il prof. Renato Dell’Andro (1922 – 1990).

Ma questa sarebbe un’altra storia, che mi ricondurrebbe alla mia ormai remotissima adolescenza… 

5. BIBLIOGRAFIA

• AA.VV., Maestri del senso: competenze e passione per una scuola migliore, a cura di DE NITTI, CARLO e LAVERMICOCCA, CARLO, Bari 2023, Ecumenica editrice, di prossima pubblicazione;

• CAPORALE, VITTORIANO, Educazione e politica in Giovanni Modugno, Bari 1988, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, Giovanni Modugno. Un pedagogista del Sud, Bari 1995, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, Giovanni Modugno. Pedagogia Scienza della Vita, Bari, 1997, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, La proposta pedagogica di Giovanni Modugno, Bari, 2004, Cacucci;                                                                                                              

• CAPORALE, VITTORIANO, Pedagogia e vita di Giovanni Modugno, Bari 2006, Cacucci;

• CAPURSO, GIOVANNI, Due Maestri per il Sud: Gaetano Salvemini e Giovanni Modugno, Corato, 2022, SECOP;

• MICUNCO, GIUSEPPE, La buona battaglia. Santità e laicità in Giovanni Modugno, Bari, 2013, Stilo editrice;

• ROBLES, VINCENZO, Giovanni Modugno. Il volto umano del Vangelo, Bari, 2020, Edizioni Dal Sud;

• ROBLES, VINCENZO, Giovanni Modugno e il suo “rifugio”bresciano, Bari, 2022, Edizioni Dal Sud;

• ROBLES, VINCENZO – AUFIERO, ARMANDO, Giovanni Modugno: il volto umano del Vangelo in AA.VV., Op. cit.;

• SANTOMAURO, GAETANO, Giovanni Modugno attraverso gli inediti, «La Rassegna pugliese», 1969, 4-5, pp. 3 – 22;

• SARACINO, DOMENICO, Giovanni Modugno. Politica, cultura e spiritualità in un cercatore di Cristo, Bari 2006, Stilo editrice; 

• SPINELLI MODUGNO, MARIA, Giovanni Modugno. Io cerco l’Eterno, Bari 1967, Editoriale Universitaria.

Et si parva licet …

• DE NITTI, CARLO, La missione educativa di Giovanni Modugno e la sua attualità nel XXI secolo. Nota a margine di una recente biografia del pedagogista bitontino, ”Educazione & Scuola”, XXVI, marzo 2021, 1123;

• DE NITTI, CARLO, In difesa del Sud: storia dell’amicizia di due Maestri tra Molfetta e Bitonto, ”Educazione & Scuola”, XXVII, settembre 2022, 1141; 

• DE NITTI, CARLO, Giovanni Modugno: un “cercatore di Cristo”, apostolo dell’educazione, in VINCENZO ROBLES, Giovanni Modugno e il suo “rifugio” bresciano, Bari 2023, Edizioni Dal Sud, pp. 9 – 12.

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