La Divina Mimesis di Pasolini

Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis, Einaudi, 1975. Un tentativo  privilegiato di  ritornare al senso profondo del pensiero dantesco.

Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

Questa recensione si colloca volutamente al di fuori del 25 marzo, data del cosiddetto Dantedì.

Ormai è una moda svuotare di significato il messaggio del sommo poeta,  svilendolo in un clima di mercificazione ed esibizionismo. Si pensi, ad esempio, al Dante presentato ai bambini come un personaggio a fumetti o di figurine, al perpetuarsi di narcisistiche conferenze su Dante, ai tanti adattamenti teatrali della Commedia. Sono altrettanti esempi di come Dante non dovrebbe essere celebrato. I veri dì di Dante sono quelli trascorsi da docenti e studenti nel corso di un intero anno scolastico a contatto con la sua poesia e il suo messaggio. Il Dantedì invece è una cerimonia che si esaurisce in se stessa.

La Divina Mimesis  di Pasolini è un tentativo  privilegiato di  ritornare al senso profondo del pensiero dantesco.

Dante si prefisse lo scopo di guidare il genere umano alla beatitudine.  La Commedia è animata da un moto ascensionale verso il paradiso cristiano. Questa possibilità di redenzione da ciò che impedisce di essere felici può essere recepita da credenti e non credenti. Per entrambi si tratta di verificare nel corso delle proprie storiche esistenze se e come diventi possibile redimersi. Pasolini si accinse a una simile verifica con un racconto che poi non ebbe sviluppo. Dell’ambiziosa e disperata impresa restano soltanto due canti completi, non in versi,  in prosa; appunti e frammenti per i canti III, IV e, con un salto, VII; due note dell’autore. In una sua nota l’editore informa sul lavoro fatto per riordinare gli appunti sparsi lasciati da Pasolini.

I frammenti dell’opera in fieri reperiti ed editi mostrano quanto l’idea dell’imitazione dantesca  fosse tormentata.

Idea tormentata a partire dalle varianti del titolo: “Frammenti infernali”; “Memorie barbariche”; “La teoria”; “La divina teoria”; “La divina realtà”. Su uno dei fogli dattiloscritti figura anche il titolo “Paradiso”. Inferno, barbarie, paradiso: queste parole sono indizi della ricerca operata da Pasolini su se stesso e sulla realtà del suo tempo a partire dalla meditazione esistenziale di Dante. Ricerca che lo portava a scoprire quanto profondamente fosse insito nella coscienza del sommo  poeta il legame fra la sorte dell’umanità e l’impegno  politico. Dall’intera opera dantesca egli sentiva provenire una lezione valida in ogni tempo, lezione secondo la quale i più nobili ideali debbono essere messi alla prova sul piano politico, essendo chiamato ciascuno, anche se sentendosi dominato dallo sconforto, a dar prova di responsabilità e di impegno civile e umano.

Per Pasolini si trattava dunque di verificare la possibilità di realizzare un ideale salvifico nell’assetto politico della realtà contemporanea.

Pasolini intraprende il suo viaggio a quarant’anni, nella realtà della “Selva” del 1963, in una oscurità che è anche luce. È una mattinata di aprile, o forse maggio, nel suo ricordo confuso. La realtà è una realtà borghese. In  essa “l’unico dato buono” sono gli operai. Ogni tanto vengono riecheggiati e insieme trasformati dei versi danteschi. Ad esempio, mentre Dante scrive a proposito della selva: “Io non so ben ridir com’io v’entrai” (Inferno, I, 10), Pasolini a proposito della sua esperienza scrive: “Ah, non so dire, bene, quando è incominciata: forse da sempre”. Come Dante, si imbatte nella Lonza, nel Leone, nella Lupa, che gli impediscono di andare verso l’alto; ma mentre rovina giù, gli appare un’ombra, che si identifica con il suo io sdoppiato. Il Virgilio di Dante con enfasi dice “Poeta fui”, invece l’io speculare di Pasolini, come a voler sancire la morte di ogni speranza di cambiare il mondo con la poesia, antepone  il verbo al sostantivo:

“Fui poeta, – aggiunse, rapido, quasi ora volesse dettare la sua lapide – cantai la divisione nella coscienza, di chi è fuggito dalla sua città distrutta, e va verso una città che deve essere ancora costruita. E, nel dolore della distruzione misto alla speranza della fondazione, esaurisce oscuramente il suo mandato …”

L’incontro con se stesso come guida avviene in un clima di iniziale scoramento.

La guida, che avrebbe potuto essere Gramsci, o Rimbaud, o Charlot, scrive Pasolini, è invece “un piccolo poeta civile degli anni Cinquanta […] incapace di aiutare se stesso, figurarsi un altro”. La bestia che più gli fa paura è la Lupa. Dante con la Lonza identifica la lussuria e con la Lupa l’avarizia. Pasolini fonde avarizia e lussuria nella sola figura della Lupa. Ossessionato dal sesso, immagina che al posto del Veltro come salvatore avvenga l’avvento di un vizioso capitalista:

“Questo qui […] non sarà padrone di fabbriche o di catene di giornali, non possiederà feudi nel Sud, ma sue ricchezze saranno spirito aziendale, capitale cartaceo, e patria plurinazionale. Ah, ah, ah! Sarà lui la salvezza del mondo: che non si rigenererà affatto con le morti assurdamente eroiche a cui è delegata l’umile gioventù di sempre […]”

Nel secondo canto Pasolini rielabora sempre in chiave moderna la tematica dell’esitazione di Dante, che confessa a Virgilio di non sentirsi degno di intraprendere il viaggio nell’aldilà.

Questo potrebbe essere definito il canto dei fiori. Prendendo spunto dai “fioretti” piegati dal gelo notturno e risorti al calore dei raggi del sole, immagine con cui Dante, rincuorato da Virgilio, si sente il cuore invaso dal “buono ardire” di seguirlo nell’oltretomba, Pasolini si decide a seguire se stesso come un “fiorellino”  nel suo inferno sulla Terra:

“Anch’io, come un fiore – pensavo – niente altro che un fiore non coltivato, obbedisco alla necessità che mi vuole preso dalla lietezza  che succede allo scoraggiamento. Poi certo verrà ancora qualcosa che mi offenderà e mi massacrerà: ma anche per me, come per i fiori delle altre primavere, il passato si confonde con il presente, e un prato è qui, e, insieme, nel cosmo!”

Negli appunti e frammenti per il terzo canto Pasolini si rifà ai versi danteschi in cui tumultuano “diverse lingue” e “orribili favelle”.

Ed eccolo l’inferno sulla Terra. È la “Città” – una città come tante altre nel mondo. “Dialetti, o gerghi, parlate di poveri o di ricchi[…]”: sono i  linguaggi che vi si odono, tali da “rivelare subito socialmente i parlanti” ma “sotto un aspetto asociale, spaventoso”. Costoro corrispondono agli ignavi. Hanno scelto di “essere come tutti”, senza trovarsi però  in “una condizione di reale innocenza”. Ad essi si contrappongono altri che, pur essendo come tutti, non hanno peccato di ignavia, ma hanno combattuto per la libertà: i partigiani.

Negli appunti e frammenti per il quarto canto Pasolini chiede perdono al lettore.

La richiesta di perdono è dovuta alla sproporzione fra ciò che il nuovo Dante vorrebbe e ciò che riesce a dire. Eppure lui non ha potuto fare a meno di esprimersi. Infatti il sapere a un certo punto esige di essere manifestato. Nel silenzio si realizza soltanto “il nostro intimo conformismo”, del quale non ci interessiamo per il motivo che può essere così esplicitato:

“Odiamo il conformismo degli altri perché è questo che ci trattiene dall’interessarci al nostro. Ognuno di noi odia nell’altro come in un lager il proprio destino. Non sopportiamo che gli altri abbiano una vita e delle abitudini sotto un altro cielo. Vorremmo sempre che qualcosa di esterno, come per esempio un terremoto, un bombardamento, una rivoluzione, rompesse le abitudini dei milioni di piccoli borghesi che ci circondano. Per questo è stato Hitler il nostro vero, assoluto eroe […] L’Inferno che mi son messo in testa di descrivere è stato semplicemente già descritto da Hitler. È attraverso la sua politica che l’Irrealtà si è veramente mostrata in tutta la sua luce. È da essa che i borghesi hanno tratto vero scandalo, o, mi vergogno a dirlo, hanno vissuto la vera contraddizione della loro vita.”

Poi Pasolini si rifà al nobile castello degli spiriti magni. Raffigura una schiera di poeti nel giardino di un villa a qualche chilometro da Praga. Sono poeti boemi o slovacchi. In Italia in un luogo analogo i poeti italiani avrebbero le sembianze volgari di piccoli borghesi e apparirebbero come una sorta di impiegati.

Pasolini continua quindi la sua analisi della società. Una società in cui “non c’è alcuna soluzione di continuità tra suddito e padrone, tra lavoratore e capitalista”. Una società in cui l’essere umano è ridotto alla dimensione di “acquirente”, eccezion fatta nel caso del poeta,  per il quale è impossibile “avere una figura economica”.

Negli appunti e frammenti per il VII canto ritorna la tematica del conformismo.

È questa la tematica che a Pasolini preme esprimere: il conformismo. Perciò egli salta il quinto e sesto canto, canti di Paolo e Francesca e delle vicende di Firenze. Nel canto settimo dell’inferno dantesco sono puniti avari e prodighi, iracondi e accidiosi. Nel canto settimo dell’inferno pasoliniano i piccoli borghesi scontano questo “peccato”: “seppero come non essere conformisti, e lo furono”. La narrazione prosegue con le Demonie, una “polizia infernale femminile”, costretta a far passare il viandante sdoppiato oltre una sbarra  che lo separa da una grande folla. In essa vi è un grande numero di donne, nelle quali “il conformismo ha sempre una certa grandezza”, come una vera e propria  “religione”. Invece i maschi si sono macchiati di “peccati così orrendi come quelli commessi dalla borghesia in questo secolo, per difendere il proprio diritto a odiare la grandezza”. E in proposito vengono evocati Buchenwald e Dachau, Auschwitz e Mauthausen. Poi il viaggio prosegue verso la “Zona dei Riduttivi” e il “Settore autonomo Raziocinanti: Irrazionali e Razionali”.

Qui l’ambiziosa e disperata impresa di Pasolini si interrompe.

Quanto l’impresa fosse ambiziosa e disperata lo si può comprendere ancor meglio sulla base delle due note in cui Pasolini illustra il suo progetto. Libro da scrivere a strati, ciascuno dei quali datato come un diario. Opera sempre in fieri, “un misto di cose fatte e di cose da farsi – di pagine rifinite e di pagine in abbozzo, o solo intenzionali”.  La lingua dell’Inferno sarà “l’ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale, l’italiano che serba viventi e allineate in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della sua storia”. Invece per  i Due Paradisi da progettare e costruire occorrerà un italiano “come lingua nazionale parlata, fondata non più sull’italiano letterario né sull’italiano strumentale dialettizzato, come lingua franca degli scambi commerciali e della prima industrializzazione – ma sull’italiano, parlato nel Nord, come lingua franca della seconda industrializzazione”.

Considerando la severa critica della realtà nella Divina Mimesi, ci chiediamo se e come una dimensione paradisiaca  avrebbe potuto essere rappresentata da Pasolini.

Siamo di fronte a un’opera difficile da recensire.

Perché dunque recensire La Divina Mimesis? Nessuna recensione rende giustizia a un’opera letteraria. Se ha un valore, lo ha nella misura in cui la fa conoscere e spinge a leggerla. Però recensire la Divina Mimesis  non può avere soltanto lo scopo di far sentire il bisogno di immergersi nella sua straordinaria prosa lirica. Una prosa lirica che resta fra le più alte espressioni letterarie del Novecento. Al di là di questa auspicabile esperienza di lettura vi è una presa di coscienza dell’oltraggio perpetrato con le odierne celebrazioni della Commedia come un’opera a sé stante, staccata dal Convivio, dalla Monarchia,  dal De vulgari eloquentia, dalla cultura classica e cristiano-medioevale. Pasolini ci aiuta a comprendere il vero valore dell’opera di Dante. Ostacoli a comprenderlo sono il pervicace retaggio di un Benedetto Croce, intento con supponenza a distinguere poesia e non poesia, e il clima festaiolo di riduzione dell’opera dantesca a pretesto per ogni sterile divagazione.

Il vero valore di Dante non si colloca sul versante meramente estetico.

Il valore di Dante, valore ben riconosciuto da Pasolini, è l’impulso all’azione come  essenza e scopo della Commedia. Un nostro poeta ha parlato della “forza incoativa” delle concatenate terzine  dantesche. Questa “forza incoativa”, vale a dire energia che si rinnova di continuo senza mai affievolirsi, è non solo lirica, ma anche e soprattutto etica nella sua religiosità. Dante ci chiama a una trasformazione. Vuole essere letto affinché ci assumiamo il compito di trasformare noi stessi e il mondo in vista dell’universale felicità nel mondo terreno prima ancora di poter godere di una beatitudine ultraterrena. Consideriamo, ad esempio, questi versi:

“Quali  i fioretti, dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse
ch’i’cominciai come persona franca […] (Inferno, II, 127-132)

Dante, rincuorato da Virgilio, che gli ha spiegato come il suo viaggio nell’aldilà sia voluto dal cielo, comincia a dichiararsi pronto all’impresa. Sul piano estetico apprezziamo elementi come  la similitudine dei fiorellini che la luce del sole fa risorgere; il ritmo dell’endecasillabo e tanto buono ardire al cor mi corse che con gli accenti sulla sesta e sulla decima, invece che su quarta, ottava e decima, meglio si attaglia alla rapidità della presa di coraggio; le risonanze interne delle parole corcorse; ma questa resa lirica è voluta per mettere in risalto il “buono ardire”, l’essere disposto all’azione, la volontà di affrontare ogni cimento con un’attitudine fortemente razionale.

Chi recepisce oggi questo messaggio?

È la domanda che Pasolini si è posto e alla quale ha cercato di rispondere con La Divina Mimesis, prendendo posizione contro i moderni ignavi, pur dubitando di un possibile riscatto dell’umanità dalla sua irresponsabilità. L’umanità è chiamata comunque a scuotersi dall’inerzia, poiché in questo inferno terreno resta pur sempre il dovere dell’impegno contro il conformismo. Cercare di cambiare in meglio un  mondo degradato è il compito che ci compete. Ognuno è tenuto a trovare in se stesso il suo Virgilio. Ce lo insegna Dante e ce lo ricorda Pasolini.

        

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Progetto lettura: la poesia salverà il mondo!

Gli alunni delle sezioni D ed F della scuola secondaria di primo grado dall’inizio dell’anno si sono avvicinati alla poesia per poter vedere il mondo con occhi diversi e per giocare con le parole attraverso le molteplici possibilità espressive del linguaggio.

Il progetto lettura d’Istituto dedica, infatti, alla parola e in modo particolare a quella poetica una ricca sezione della programmazione.

Nella nostra società sempre più travagliata da guerre, pandemia, difficoltà economiche e povertà culturale l’educazione alla poesia può rappresentare un antidoto contro il male di vivere odierno.

Educare alla poesia ci aiuta a vedere con stupore tutto ciò che abbiamo sotto gli occhi nella quotidianità ma che ci sfugge perché siamo sempre di fretta.

Le professoresse Barbara e Cinzia Pedrazzi facendo propria l’idea che, per avvicinare gli studenti alla poesia sia necessario partire dall’innamoramento e dalla meraviglia della parola, hanno condotto i propri alunni in viaggio alla ricerca della poesia che è nascosta in ognuno di noi e nelle piccole cose.

Lo scrittore Bernard Friot ha fornito utili spunti attraverso due testi: “Dieci lezioni sulla poesia. L’amore e la vita” e “Un anno di poesia”.

Un anno di poesia si propone come una raccolta di spunti per apprendisti poeti, un valido stimolo per sviluppare quella voce poetica che è presente in tutti noi.

libro, tradotto dalla poetessa Chiara Carminati, propone un’attività poetica al giorno, per un anno intero, fornendo semplici e divertenti suggerimenti creativi in grado di sviluppare l’interesse poetico di ogni alunno.

Le parole del testo, sono arricchite inoltre dalle semplici e colorate immagini di Hervé Tullet, che si fondono con le parole dando vita ad una poesia visiva, che coinvolge tutti i sensi. Parole come segni, come suoni, come gioco, la parola che diventa tutto ciò che vogliamo: è questo il messaggio delle attività proposte senza dimenticare naturalmente la struttura, le figure retoriche, la metrica, che si acquisiscono però in modo libero e assoluto.

Come si poteva iniziare il laboratorio se non con una prima poesia che prendesse lo spunto a partire da queste semplici parole: tra un anno…/ ti darò …/ una poesia per …e continuare poi con un’altra nella quale è nascosto il tuo nome.

Poesie corte, poesie cancellate, poesie rubate, colorate, ritagliate, poesie urbane e d’attualità, poesie di sguardi, poesie smembrate, poesie sensoriali o grammaticali, poesie visive. In tutto quello che ci circonda c’è poesia, l’importante è vederla.

Attraverso le 10 lezioni di poesia, invece,  i nostri alunni hanno potuto sperimentare le stesse attività suggerite nel libro dall’insegnante Simon durante dei laboratori di poesia frequentati dai due protagonisti del libro Marion e Kevin.

Marion ha 12 anni, un padre che non vede da tempo, un fratellino e la mamma oberata di impegni di lavoro e di assistenza alla nonna malata. Quest’anno non ha molta voglia di andare al campo estivo, perché si sente troppo grande per questo tipo di cose, ma sua madre non le lascia scampo.

Il primo giorno conosce gli altri partecipanti e si rende conto che tanti provano la sua stessa insofferenza nei confronti del centro estivo: Kev, ad esempio, una sorella maggiore lontana per gli studi, un papà che deve lavorare e la prospettiva di frequentare il centro per tutta l’estate.

Marion e Kev vengono inseriti nel gruppo delle attività al chiuso, cioè in un laboratorio di poesia tenuto da un quarantenne, magro, abbronzato, occhi grigi – Simon. Con loro ci sono le gemelle Lucia e Lila, 11 anni, la saggia Alice, 10 anni, Luca e i suoi occhiali, 8 anni e mezzo, Pedro e Hector, 13 anni, grande e grosso e con qualche pelo di barba.

All’inizio l’entusiasmo è poco e soprattutto Marion partecipa controvoglia, ma Simon si rivela un grande maestro – uno di quelli che seminano aspettando di vedere se qualcosa fiorisce, uno di quelli che accende scintille sperando di vedere alte fiammate, uno di quelli che lasciano il segno insomma. Pian piano questo gruppo sgangherato si appassiona al gioco della poesia.

La biblioteca scolastica diventa una vera e propria palestra di parole e sarà utilizzata come palcoscenico della recita finale. In dieci giorni Simon svolge dieci lezioni introducendo ogni lezione con una citazione di un poeta famoso che spiega il senso della lezione stessa.

cos’è la poesia: «La poesia non si sa cos’è, ma la si riconosce quando la si incontra per strada» (Jean l’Anselme).

A coinvolgere maggiormente i nostri alunni è stata appunto la prima lezione “Che cos’è la poesia”. I ragazzi sono stati coinvolti in un laboratorio di scrittura creativa. Ognuno di loro è stato invitato a completare la frase Per me la poesia è…..e a scrivere la loro definizione su fogli di carta da pacco attaccati alle pareti. Di seguito riportiamo alcune delle loro intuizioni:

“La poesia è un filo di parole, la penna lo intreccia e nasce la poesia”, “La poesia è la via delle emozioni che vagano tra le parole”, “La poesia è musica agli occhi dei poeti che danzano tra le rime”, “La poesia è una freccia lanciata dal poeta che colpisce il mio cuore”, “La poesia è viaggiare tra le strofe”.

Altri testi di riferimenti sono stati  quelli di Donatella Bisutti “La poesia salva la vita”, L’albero delle parole”, di Chiara Carminati “Quel che c’è sotto il cielo”, “Perlaparola” e “Viaggia verso”, Fare poesia con voce, corpo, mente e sguardo” e “Acerbo sarai tu” di Silvia Vecchini. 

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