Come imparare a farsi ascoltare dai figli?
Ci sono momenti della vita quotidiana nei quali farsi ascoltare dai figli ci sembra impossibile: sono rivoltosi, capricciosi, sempre in preda a un lamento per qualsiasi motivo, a qualunque età.
Come genitori, navighiamo per lo più a vista e spesso concludiamo le nostre giornate chiedendoci: come si fa a farsi ascoltare senza urlare? Perché i nostri figli e le nostre figlie non ci ascoltano?
Oggi proveremo ad affrontare insieme questo tema abbastanza spinoso, premettendo subito che nemmeno noi abbiamo trovato il libro magico su come farsi obbedire dai figli. Nessuna di noi è una madre perfetta e nessuna di noi è una madre pessima solo perché qualche volta, non sapendo proprio più cosa fare, ha perso la pazienza e urlato.
Qualche riflessione, però, vale la pena farla – insieme – per ragionare su un vademecum di consigli per genitori che hanno figli e figlie che non ascoltano. Più che mai in questo articolo, quindi, vi preghiamo di intervenire nei commenti e darci la vostra opinione, confidarci i vostri dubbi e rivelarci i vostri segreti per gestire bambine e bambini che non ascoltano. Sapete come si dice: una mano lava l’altra, ma tutte e due lavano il viso!
Perché mio figlio non mi ascolta?
Rileggete con attenzione l’inizio di questo articolo, vi ci rispecchiate? Sarà capitato anche a voi di pensare di non saper più come prendere i vostri figli e le vostre figlie, di considerare i loro comportamenti come ingestibili, viziati, in una parola: intollerabili.
Vi confermiamo anche noi che è tutto regolare: succede a tutti i genitori.
E se fosse proprio questo una parte del problema?
Vi abbiamo chiesto di rileggere l’inizio dell’articolo per mettere in evidenza come spesso l’angolazione con la quale guardiamo le cose sia non solo unidirezionale (noi contro loro) ma soprattutto discendente.
Siamo abituati a rapportarci con le difficoltà di gestione dei nostri figli e delle nostre figlie pensando che il problema da risolvere sia il loro comportamento, i loro capricci, i loro atteggiamenti nei nostri confronti.
Ci domandiamo: perché mio figlio non mi ascolta. Ma ci siamo mai chieste perché non riesco a farmi ascoltare da mio figlio?
In altre parole: abbiamo mai preso in considerazione la possibilità che il problema sia in parte anche nostro? Che anche noi, come genitori, possiamo commettere errori di comunicazione che rendono più complicata la relazione con le nostre figlie e figli?
La risposta a questa domanda, generalmente, è no. Per differenti ragioni:
- perché siamo persone cresciute con un’educazione di tipo tradizionale, basata sul binomio Io sono il genitore-tu sei il figlio, e tendiamo a replicarne il modello
- perché viviamo un momento storico nel quale la riflessione sui metodi educativi è difficile, il dibattito è polarizzato e temiamo di essere considerate genitori incapaci solo perché dubitiamo dei metodi che ci hanno insegnato
- perché la retorica dei bei tempi andati è sempre dura a morire e molte persone, anche tra quelle che ci influenzano, sono fiere sostenitrici del famoso metodo “si è sempre fatto così e non è mai morto nessuno“.
Mettersi in discussione, invece, dubitare delle proprie capacità di gestione, della propria comunicazione, della propria abilità a farsi riconoscere da figli e figlie come una guida sono il primo passo verso la risoluzione definitiva del problema. Insieme a una buona memoria, per ricordarci di quando anche noi (come loro) pensavamo perché i miei genitori non mi capiscono?
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Perché tuo figlio non ti ascolta: autorità o autorevolezza?
Ricordate gli scontri generzionali che abbiamo vissuto da adolescenti, quando rivendicavamo il diritto di ascoltare Vasco, indossare jeans strappati e tornare a casa il sabato sera ad orari impossibili?
Vi sveliamo un segreto: non sono mai finiti, hanno solo cambiato argomento.
Allora discutevamo coi nostri genitori per quelli che consideravamo diritti inalienabili, oggi lo facciamo per il modo in cui – secondo loro – dovremmo educare i nostri figli e le nostre figlie.
Noi siamo la prima generazione di genitori che ha messo unanimemente in discussione l’educazione alla vecchia maniera, quella dei “bei tempi andati”, basata sul timore reverenziale dei genitori (e delle sberle).
“Si fa così perché lo dico io che sono tuo padre/tua madre“, oppure “fai questo, ubbidisci e stai zitto” sono retaggi di un sistema educativo che (forse..) poteva funzionare cinquant’anni fa, quando ai genitori si parlava usando il Voi di cortesia, ma che oggi non ha alcuna chance di tirare su generazioni educate sul serio.
Perché si trattava di un sistema educativo basato, fondamentalmente, sulla paura delle conseguenze, che è il fulcro stesso del concetto di autorità.
Noi ubbidivamo ai nostri genitori perché avevamo paura di cosa sarebbe successo in caso contrario: del castigo, della sberla, di perdere quella gita o quella festa alle quali tanto tenevamo a partecipare.
Un sistema educativo fallimentare, destinato a perdere forza persuasiva col passare degli anni, perché l’autorità non ha più alcun senso quando i figli diventano maggiorenni e sono legalmente in grado di decidere per loro stessi. Eppure, nessun genitore si sognerebbe mai di pensare o dire che il compito educativo di una madre e di un padre si conclude al compimento della maggiore età.
Un sistema che mostra ancor di più la sua debolezza oggi, che i tempi sono decisamente diversi dai nostri, i ragazzi e le ragazze anche, e l’imposizione immotivata di un divieto appare ridicola ben prima del compimento dei 18 anni (spesso con conseguente, velata, pernacchia).
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I limiti dell’educazione autoritaria
L’educazione autoritaria, vecchio stampo, quella tanto rimpianta dai nostalgici del “ai miei tempi sì che i genitori sapevano educare“, si basa sull’imposizione della forza. Non presuppone dialogo, non presuppone comunicazione, crea un rapporto genitori-figli completamente verticalizzato nel quale il genitore comanda ed i figli e le figlie eseguono.
Perché si fa così, perché sulla decisione del genitore non c’è facoltà di dialogo, non c’è scambio di alcun genere, c’è solo un dogma (questa cosa non si fa, punto!) che viene veicolato con la forza, verbale o fisica. Non a caso, questo modello educativo è lo stesso che vede nello sculaccione o nella sberla, o più in generale nelle punizioni corporali, lo strumento di correzione dell’errore grave.
È in questa sua struttura così inutilmente padronale che questo modello educativo mostra i suoi limiti e, indirettamente, i nostri.
Se ci fermiamo un momento a riflettere sulla domanda “perché mio figlio non mi ascolta” e la analizziamo nel suo significato più letterale, ci renderemo conto che con quella domanda ci stiamo chiedendo “come mai mio figlio non riconosce valore a ciò che io gli dico?”.
Ovvero: al netto di problemi uditivi che, chiaramente, spostano su un altro versante il tema del discorso, i nostri figli sentono benissimo ciò che diciamo loro. E allora perché scelgono deliberatamente di non recepirlo? Di non ubbidire a ciò che diciamo?
La risposta potrebbe essere, semplicemente, che non riconoscono in noi una guida. Perché in realtà non ci siamo mai posti come tale, non abbiamo mai mostrato loro il lato di persone che hanno un corredo di esperienza da condividere per il loro bene, non abbiamo mai messo a loro disposizione un dialogo nel quale scambiare coi loro dubbi le nostre risposte.
Ci siamo sempre collocati su un piedistallo, dal quale abbiamo impartito ordini e punizioni, magari utili a raggiungere uno scopo nell’immediato ma certamente inidonei a generare risultati educativi di lungo periodo.
Prima di tutto, perché le bambine e i bambini non sono sempre malleabili da un punto di vista caratteriale. Alcune e alcuni di loro nascono già con una fermezza difficile da domare: sono caparbie, volitivi, talvolta oppositivi per il semplice gusto di dire no. Di conseguenza non sempre è possibile dare ordini con la certezza che verranno eseguiti o impartire punizioni che siano davvero efficaci. Ci sono bambine e bambini che si spezzano ma non si piegano, essere autoritari con loro è assolutamente inutile, oltre che destruente per il genitore.
Secondariamente, perché a un figlio maggiorenne non si può imporre di non uscire, di non vedere altre persone, di fare qualcosa che non vuole fare, nemmeno quando questi divieti sono dettati da ragioni plausibili.
E non gli si può neppure imporre di rispettarci, stimarci, di fidarsi di noi, di considerarci per forza una guida.
La strada per ottenere una buona leadership familiare può anche essere lastricata di buone intenzioni ma non può passare dalla prepotenza.
I benefici di un’educazione autorevole
La differenza tra autorità e autorevolezza è come una freccia: discendente la prima, ascendente la seconda.
Un genitore autoritario è un genitore che per educare i suoi figli e le sue figlie ha bisogno di ricorrere alle imposizioni, al “perché lo dico io“, ai ricatti morali “se non fai questa cosa non avrai quel beneficio“, alle punizioni.
A questo ruolo corrisponde un’obbedienza che è imposta con la forza.
Un genitore autorevole, invece, è un genitore che viene ascoltato spontaneamente, pur con fisiologico disappunto e manifestazioni di dissenso: non ha bisogno di imporsi o alzare la voce, il suo ruolo è riconosciuto dal basso.
Certo, sarebbe utopia da parte nostra affermare che è possibile crescere bambine e bambini che ascoltino sempre e non disubbidiscano semplicemente smettendo di essere padroni e diventando guide.
La verità è che dobbiamo scendere a patti con la certezza che crescere i figli è difficile e non esistono i genitori perfetti, come non esistono i figli o le figlie perfette.
Che può succedere a ogni genitore di urlare, perdere la pazienza, punire un bambino o una bambina che si sono comportati male, ricorrere ai metodi che i nostri genitori hanno usato con noi semplicemente perché è più facile.
Diciamolo una volta per tutte: sì, è più facile.
Quando la giornata arriva al termine, dopo ore di lavoro che magari proprio bene non è andato, due ore al supermercato per fare la spesa, la coda alla cassa e i bambini che piagnucolano ancora per l’ovetto di cioccolato che noi non abbiamo voluto comprare, sì: urlare è più facile e ottiene lo scopo.
Ogni coppia genitoriale ci è passata e lo sa. Succede.
Quello che possiamo fare, però, è mettere in atto un cambiamento epocale che parta dalla consapevolezza che questo non può essere il metodo educativo per antonomasia, che dobbiamo trovare il modo di renderci autorevoli, o più correttamente ascoltabili – dai nostri figli e dalle nostre figlie.
Non solo e non tanto per evitare di avere un esaurimento nervoso prima che compiano 3 anni, ma soprattutto per costruire da subito il percorso importantissimo e necessario che li e le condurrà ad essere adolescenti che ci ascoltano e adulti che ci rispettano, che tengono in elevata considerazione ciò che diciamo per il loro bene.
Come si diventa genitori autorevoli?
Come dicevamo, l’autorevolezza non si impone dall’alto, viene riconosciuta dal basso.
Dobbiamo quindi capire come creare le condizioni perché i nostri figli e figlie riconoscano in noi persone autorevoli, ovvero degne di essere seguite ed ascoltate.
Questo non solo ci permetterà di evitare urli, schiaffi e punizioni quando i nostri figli e le nostre figlie sono ancora in età infantile, ma ci aiuterà ad avere con loro un dialogo quando saranno in fase preadolescenziale e adolescenziale, con la certezza che comprenderanno non solo i nostri consigli ma anche le motivazioni che ne sono alla base.
Dunque, come si diventa genitori autorevoli agli occhi dei figli?
Essere un esempio coerente
Chiediamoci sempre: io, come persona, che credibilità attribuisco a qualcuno che fa l’esatto opposto di quello che predica?
Chi vi scrive se lo domanda spesso: come si può avere un’immagine credibile agli occhi dei figli se si trasgrediscono in modo evidente quelle medesime regole che desideriamo insegnare loro?
Essere un esempio coerente è di importanza fondamentale se desideriamo educare con il dialogo e non con le imposizioni. Perché educare con il dialogo significa meritare il rispetto, la stima e la fiducia necessarie a far sì che loro percepiscano i nostri insegnamenti come consigli motivati e preziosi e non come ordini insensati ed inutili.
Se fumiamo non potremo mai convincere figli e figlie dell’importanza vitale del non fumare.
Se mentiamo non riusciremo mai a spiegare loro perché devono sempre dire la verità.
Se giudichiamo il nostro prossimo, non saremo in grado di evitare che loro facciano altrettanto.
Ogni volta che diciamo o facciamo qualcosa davanti a loro dobbiamo sapere che stiamo dando un insegnamento. Che sia buono o cattivo dipende soltanto da noi, dobbiamo avere la coerenza di non pretendere dai nostri figli e dalle nostre figlie quello che noi stessi non sappiamo mettere in pratica.
Mantenere la parola data
Voi vi fidate di persone che non mantengono mai quello che promettono?
E se la vostra risposta è no, perché pretendere che lo facciano i vostri figli o le vostre figlie?
Probabilmente potreste sentire spontaneo rispondere “perché io sono la madre/il padre!“. Ma questo è sempre un retaggio dei vecchi modelli educativi.
Diventare genitori è un fenomeno biologico: non assicura obbedienza eterna, tantomeno assicura la fiducia.
La fiducia è una conquista basata sulla capacità di far sentire i nostri figli e le nostre figlie comprese e accudite con impegno e affidabilità, un lavoro durissimo che richiede onestà, lealtà e serietà.
Se ci mostriamo inadempienti agli impegni che prendiamo con loro, impareranno che la nostra parola non ha alcun valore e smetteranno di ascoltarla.
Avere rispetto della loro personalità
A volte la lingua ci tende tranelli, perché siamo abituati a dire cose come “i nostri figli, le nostre figlie“.
Anche in questo articolo lo abbiamo ripetuto innumerevoli volte.
Loro però non ci appartengono, non sono una nostra proprietà.
Indipendentemente dalla loro età, sono persone come noi.
Talvolta anagraficamente piccole, altre volte adulte e con famiglie avviate a loro volta, ma sempre persone: con cervello e cuore, sogni, desideri, aspirazioni.
Il nostro ruolo cambia in funzione della loro età ma c’è una cosa che non cambia mai, qualunque età abbiano o stagione di vita stiano vivendo: hanno diritto al nostro rispetto.
Dobbiamo accettare che hanno bisogno dei loro tempi e spazi, sin dall’infanzia.
Dobbiamo accettare che trovino il loro modo di vedere il mondo, di affrontare i problemi, di progettare la vita: il loro modo, non il nostro. Dobbiamo essere genitori che riconoscono il loro diritto a diventare chi vogliono, facendo il percorso che hanno scelto per loro stessi.
Anche questo è generazionale: non volevamo forse le stesse cose, noi, quando eravamo figli? Essere considerati esseri senzienti, con una vita, delle esigenze, dei desideri?
Vi ricordate qual era la frase che dicevamo sempre ai nostri genitori durante i litigi, quando volevamo proprio ferirli?
“Non ti ho chiesto io di mettermi al mondo“.
Nella nostra teatrale melodrammaticità avevamo colto un aspetto essenziale del rapporto genitori-figli, perché è assolutamente vero: non sono loro a chiedere di venire al mondo. Quindi, nel momento in cui decidiamo di dare la vita, dobbiamo loro il rispetto che meritano.
Dobbiamo, in ultima analisi, accettare che non possiamo forzare un’altra persona ad essere come noi la vorremmo, a fare quello che vorremmo facesse e nel modo che noi preferiamo.
I nostri figli e le nostre figlie non ci appartengono e non sono i nostri cloni.
Questo lo dobbiamo imparare noi, per primi, per poi poterlo insegnare.
Sviluppare intelligenza emotiva per la comunicazione
La caratteristica primaria di un dialogo è l’ascolto, quella secondaria è la comprensione.
Possiamo passare ore ad ascoltare quello che i nostri figli e le nostre figlie hanno da dirci ma se non sappiamo comprendere davvero ciò che ci dicono, se non sappiamo empatizzare con loro, difficilmente saremo in grado di farci ascoltare a nostra volta.
Abbiamo già parlato in un precedente post, che vi invitiamo a leggere, dell’importanza dell’intelligenza emotiva per i nostri figli e figlie e per la loro vita futura.
In questo caso, ciò che importa è svilupparla noi per primi – qualora non ne fossimo già dotati – per poterla porre alla base di una comunicazione davvero efficace.
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Ma quali sono gli step necessari alla creazione di una comunicazione efficace?
- Sviluppiamo la cd. teoria delle mente: ovvero comprendiamo e accettiamo che i nostri figli e le nostre figlie sono individui diversi da noi, con pensieri diversi dai nostri ed emozioni proprie. Se vogliamo essere ascoltati dobbiamo smettere di vederli come un prolungamento del nostro ego e iniziare a conoscere le persone che sono in realtà.
- Sforziamoci di comprendere bene (noi, prima di loro) la differenza sostanziale tra un comando (vai a letto!!) e una regola (quando c’è scuola si va a letto entro le..). Una comunicazione efficace e rispettosa dell’altro ha bisogno solo di regole, non di comandi.
- Creiamo equilibrio, imparando a dare a Cesare quel che è di Cesare: i meriti vanno riconosciuti, le responsabilità vanno assunte, sempre. Non possiamo aspettarci dialogo e comunicazione se non facciamo altro che criticare omettendo le giuste lodi, così come non possiamo sperare che i nostri figli e le nostre figlie imparino ad ascoltare i nostri insegnamenti se permettiamo loro di non assumersi mai alcuna responsabilità.
- Evitiamo le punizioni ritorsive: sculacciare un bambino o una bambina, vietare loro la partecipazione ad un evento a cui tengono molto, sono ad ogni effetto ritorsioni. Una forma ripulita, ma neanche troppo, di “occhio per occhio, dente per dente“. Servono a dire: “tu hai fatto una cosa cattiva? Allora io ne faccio una a te”. Questo non educa, semplicemente perché non insegna nulla. È a tutti gli effetti una ritorsione. Al posto di una ritorsione è sempre preferibile adottare una sanzione educativa: un comportamento che, partendo dal presupposto che il bambino o la bambina sbaglino perché non hanno compreso qualcosa, spieghi il messaggio educativo e li spinga ad impararlo.
Educare i figli ad ascoltarci è molto difficile ma non è impossibile: dobbiamo solo partire da noi, anziché da loro. Dobbiamo smettere di essere autoritari e diventare autorevoli.
Perché un genitore autorevole è un genitore che può permettersi il peccato di perdere la pazienza e, qualche volta, urlare. Questo non comprometterà la sua autorevolezza perché tutti possiamo sbagliare, questo i nostri figli e le nostre figlie lo imparano presto.
Ma un genitore che basa il suo metodo educativo solo sulle urla, sui comandi e sulle punizioni, in una parola sull’autorità, non riuscirà mai ad essere autorevole. La sua leadership avrà vita breve, durerà fino a quando potrà essere imposta con la forza e non produrrà alcun risultato.
Come educare i bambini che non ascoltano: letture consigliate
Ci sono alcuni libri che affrontano in maniera molto più approfondita e dettagliata tutti i temi che abbiamo trattato in questa nostra riflessione. In particolare, abbiamo trovato molto interessanti alcune pubblicazioni di Daniele Novara, pedagogista, fondatore e direttore del Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.
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Urlare non serve a nulla: gestire i conflitti con i figli per farsi ascoltare e guidarli nella crescita
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Conclusioni
Come detto in premessa, speriamo davvero che ci scriviate nei commenti i vostri pensieri e le vostre impressioni su quanto abbiamo voluto condividere con voi a titolo di riflessione. Ricordate che questo post non vuole essere giudicante per nessuno, perché come genitori sappiamo molto bene quanto sia difficile gestire un bambino o una bambina che non ascolta. Speriamo però di avervi fornito alcuni spunti per ripensare agli errori più comuni che tutte noi commettiamo ogni giorno nella loro educazione. Vi aspettiamo nei commenti per parlarne insieme!
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