Come imparare a programmare

In questa guida su come imparare a programmare, darò alcuni consigli su come addentrarsi nel mondo della programmazione.

Esistono infatti diversi linguaggi di programmazione, da quelli a basso livello a quelli di alto livello.

Ogni linguaggio di programmazione ha una propria sintassi, con delle regole ben precise. Ma sappiate che il difficile non è imparare la sintassi di ciascun programma, ma imparare a ragionare!

Eh si! Imparare a ragionare! In effetti sappiamo farlo tutti, ma occorre allenare la mente al pensiero logico ed acquisire il metodo giusto per riuscire a trovare la soluzione ai vari problemi più o meno complessi che ci vengono sottoposti. Una volta acquisito il metodo, si scopre che poi così difficile non è!

Dunque quali sono i consigli utili da seguire in questi casi?

1. Come imparare a programmare – Non avere fretta

La prima importante cosa da dire è proprio questa: non avere fretta. Occorre procedere sempre a piccoli passi e quando si ha ben compreso l’argomento, passare a quello successivo.

2. Come imparare a programmare – tanti esempi ed esercizi

Per ciascun argomento affrontare tanti esercizi con varianti diverse. Non andare oltre se almeno non si sono svolti 5 – 8 esercizi per ogni argomento.

3. Come imparare a programmare – sperimentare soluzioni diverse

Per ogni esercizio trovare soluzioni diverse, in questo modo si riesce a riflettere su quale soluzione può essere la migliore, su quale costrutto utilizzare, su quale ragionamento è più efficiente.

4. Come imparare a programmare – divertirsi

Di sicuro non può e non deve mancare il divertimento nello scrivere codice. Quindi la scelta migliore sicuramente è quella di imparare attraverso lo sviluppo di piccoli semplici giochi, qualsiasi sia il linguaggio scelto.

Detto ciò il mio consiglio è quello innanzitutto di esercitare il pensiero logico. Questo si può fare attraverso lo sviluppo di algoritmi utilizzando i diagrammi a blocchi, anche aiutandosi con qualche programma, come ad esempio Algobuild. Poi si può passare allo studio dei vari linguaggi di programmazione. La scelta dipende sicuramente da ciò che dovete andare a sviluppare in quanto ogni linguaggio ha un ambito di utilizzo.

Di seguito ecco alcuni link ai tutorial che possono essere utili per iniziare il fantastico mondo della programmazione.

Questi tutorial non vogliono sostituirsi a nessun buon libro di testo, ma semplicemente essere fonte di ispirazione per chi vuole iniziare a programmare!

Buon divertimento!

Come imparare a programmare – Tutorial

1 – Tutorial Algobuild

2 – Tutorial Scratch

3 – Tutorial Linguaggio C

4 Tutorial Linguaggio C++

5 – Tutorial Python

6 – Tutorial JavaScript

7 – Tutorial jQuery

8 – Tutorial HTML5

9 – Tutorial CSS3

10 – Tutorial Bootstrap

Continua la lettura su: https://www.codingcreativo.it/come-imparare-a-programmare/ Autore del post: Coding Creativo Fonte: https://www.codingcreativo.it

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Imparare un linguaggio di programmazione a scuola: ecco perché è ancora una buona idea

Coloro che in Italia a partire dalla metà degli anni 80 incrociarono come studenti i primi timidi esperimenti scolastici di introduzione dell’informatica conservano un ricordo: quello dell’apprendimento del linguaggio di programmazione Pascal. In genere si tratta di un ricordo vivido.Indice degli argomenti
L’apprendimento del linguaggio Pascal: un ricordo non sempre piacevoleIl problema è che, purtroppo, il più delle volte non è un bel ricordo. Perché non lo è? Che cosa non funzionò? Cercare una risposta significa, ci pare, portare un piccolo contributo al problema più generale della presenza dell’informatica nella scuola e ipotizzare qualche possibile strada futura, tanto più urgente quanto più le circostanze culturali e il panorama tecnologico paiono mutare rapidamente.Anzitutto cerchiamo di capire perché in quegli anni sembrava assolutamente ovvio che qualsiasi studio scolastico dell’informatica coincidesse con l’apprendimento di un linguaggio di programmazione. Qui la risposta è facile: il tipico computer dell’epoca, una volta acceso, mostrava uno schermo nero in attesa di ricevere comandi scritti sulla tastiera. A questo punto le possibilità erano due: o si scriveva un programma (e il tipico computer personale metteva a disposizione un interprete BASIC: pochi sanno che il primo IBM/PC, capostipite di un’impressionante dinastia a cui devono qualcosa quasi tutti i computer personali esistenti, aveva nella sua prima incarnazione un interprete BASIC che fungeva pure da rudimentale sistema operativo e permetteva di registrare i programmi nientepopodimeno che su un’audiocassetta!); oppure si attivava un programma scritto da qualcun altro (per esempio un programma di scrittura, o di calcolo, o un database: la classica triade dei programmi di produttività negli anni 80). Studiare informatica che cosa poteva significare? Imparare ad usare i programmi di produttività certo no: ne esistevano innumerevoli diversi, in rapidissima evoluzione, e comunque non così complessi da richiedere e motivare uno studio specifico. Per esclusione, rimaneva una sola possibilità: studiare l’informatica significava imparare a programmare.Perché il Pascal dominava nelle scuoleMa perché a scuola dominava lo studio del Pascal? Qui la risposta è un po’ più complessa, e se fosse elaborata nei suoi dettagli occuperebbe molto spazio. Contentiamoci di dire questo: il Pascal costituisce il maggiore successo in una categoria particolare di linguaggi di programmazione, concepiti propriamente per finalità didattiche. Autore ne fu un prolifico informatico svizzero, Niklaus Wirth, che dedicò molte parte delle sue forze alla progettazione di linguaggi siffatti: il Pascal fu il primo, ma ad esso ne seguirono altri due, in diverse incarnazioni: prima Modula-2, poi Oberon. Dopo una lunga e informaticamente feconda vita, Niklaus Wirth è venuto a mancare, ahimè nel quasi generale oblio, il 1º gennaio del 2024.Un oblio ingiusto, certamente: nei suoi anni d’oro la diffusione e influenza del Pascal è stata enorme (anche grazie al brillante compilatore TurboPascal della Borland, che permise che il linguaggio fosse usato, più o meno piratescamente, da innumerevoli schiere di appassionati). Ma vedendo la storia quest’oblio è comprensibile: esso è legato al definitivo tramonto dell’idea di «linguaggio di programmazione a scopo didattico». Il fatto è che il concetto stesso ha qualcosa di tautologico.L’espressione «linguaggio di programmazione» si usa in genere per indicare un sistema di notazione più facile da comprendere e scrivere (per esempio più vicino alle convenzioni della scrittura matematica che alla struttura fisica della macchina): una notazione che poi un programma apposito (interprete o compilatore) traduce nel «linguaggio macchina», cioè il codice direttamente eseguibile dal computer. I linguaggi di programmazione nascono quindi esattamente con lo scopo di essere più facili da imparare. Un «linguaggio di programmazione per scopo didattico» è quindi qualcosa come un «cibo fatto per essere mangiato».Il tramonto dei linguaggi di programmazione a scopo didatticoCiò che va compreso è quindi al contrario perché questa idea oggettivamente un po’ bizzarra ebbe per parecchi anni tanto successo. Un primo motivo credo che sia buono: siffatti linguaggi, pensati com’erano partendo da zero e senza la preoccupazione dell’efficienza e della velocità, permettevano di incorporare in maniera più chiara e più pura le migliori idee su come dovesse essere concepito e scritto un buon programma. Un esempio evidente: Edsger Dijkstra nel suo celebre articolo Go To Statement Considered Harmful aveva dimostrato come l’uso del comando goto rendesse impossibile controllare la correttezza di un programma; ma il Pascal fu il linguaggio che rese popolare questa idea, fornendo in maniera semplice i comandi alternativi e rendendo intenzionalmente macchinoso l’uso del vecchio e deprecato goto. Invogliare a prendere buone abitudini è ottima pedagogia!Un altro motivo è invece discutibile: si tratta dell’idea che lo strumento didattico migliore sia quello che fa commettere meno errori. Questo effetto si ottiene semplificando, regolarizzando e riducendo il più possibile le regole di scrittura (la sintassi) e anche le operazioni possibili (la semantica).Ma in questo modo il risultato è sì qualcosa facile da imparare, ma probabilmente qualcosa che non insegna molto, e comunque non necessariamente qualcosa che è facile da usare. Le critiche originariamente formulate al Pascal ne riconoscevano la chiarezza e regolarità, ma contemporaneamente notavano quanto ne fosse limitata la capacità espressiva: appena si voleva programmare qualcosa di più complesso e interessante, ci si trovava impantanati in limiti che perfino un rudimentale dialetto del BASIC superava con facilità. Era sì molto più difficile commettere errori: ma anche perché si era dissuasi dal far cose complesse. La situazione mutò nelle versioni successive, ma quando lo spirito originario venne sempre più abbandonato e il Pascal divenne un linguaggio più o meno come gli altri (per esempio nella variante Delphi, usata spesso anche per complessi programmi commerciali).L’informatica senza programmazione: un’idea diffusa ma errataQuesta ricerca zelante della facilità di apprendimento condizionò gli usi scolastici? A sfogliare le pubblicazioni didattiche dell’epoca, la risposta pare purtroppo positiva: l’impressione è in effetti quella di una grande noia. Poche idee sono più disastrose nell’istruzione del ritenere che le cose facili attraggano più di quelle difficili! Il più delle volte la programmazione è introdotta come un’appendice alla matematica e alla fisica, e ciò a prima vista pare sensato: in fondo, i calcolatori sono nati per calcolare, e la scrittura matematica, con le sue rigide regole, è ciò che si avvicina di più alla sintassi di un linguaggio di programmazione (fino anzi a potersi con essa identificare: vedi il caso del linguaggio APL, nato come puro simbolismo matematico!). Ma non si fatica ad immaginare la delusione di molti studenti dell’epoca quando la meraviglia della nascente informatica personale veniva distillata in un programmino che inseriti i tre coefficienti calcolava le due soluzioni di un’equazione di secondo grado. Che cosa si poteva dedurre se non che la programmazione «faceva» più o meno le stesse cose della matematica, solo in maniera più macchinosa? L’idea che l’informatica serve a molto più che a far calcoli, anzi pure l’idea che programmare significa individuare creativamente un algoritmo, pare quasi assente. Gli Elementi di Euclide, con il celebre algoritmo ivi descritto del massimo comun divisore, insegnavano da questo punto di vista di più!Il caso del Pascal è stato certamente il più importante tra i linguaggi di programmazione pensati per l’istruzione, ma non l’unico. Sarebbe molto interessante scriverne una storia completa, che includerebbe anche capitoli oggi dimenticati. Certamente coloro che sono curiosi di storia dell’informatica (pochi, purtroppo) conoscono il Logo, il geniale linguaggio connesso agli esperimenti pedagogici pioneristici di Seymour Papert; tutti conoscono il BASIC, che ebbe una genesi ibrida come linguaggio facile da imparare e anche da usare; credo invece che pochissimi conoscano (almeno qui in Italia) Elan, l’inconfondibile linguaggio di programmazione dominante per diversi anni nelle scuole dell’Europa del Nord; ancor meno conoscono Blue, l’ambiente di programmazione che brevemente tentò di basare l’insegnamento su un’idea rigorosa e coerente di programmazione «ad oggetti» (nessun «programma», solo «classi»!). Ancora altri nomi potrebbero essere aggiunti, tutti interessanti, ma accomunati da una sorte simile: l’estinzione. La somiglianza del triste fato induce a cercare un motivo comune, che vada oltre i peculiari problemi di questo o quell’esperimento.Si può nutrire un sospetto: ha senso imparare a programmare con un linguaggio che fuori delle istituzioni educative nessuno usa? Il problema ovviamente diventa più grave man mano che programmare significa inserirsi in un contesto più ampio, per esempio usare librerie preesistenti: strumenti per il cui sviluppo serve un grande dispendio di forze, che nessuno è disposto ad impegnare per la dubbia e discutibile finalità di facilitare appena l’apprendimento. Il linguaggio a scopo educativo diventa così poco più di un giocattolo in confronto agli strumenti «veri», come uno stridulo flauto di plastica in confronto ad uno strumento musicale vero – senza neppure però l’incentivo economico, perché la maggior parte dei linguaggi di programmazione «veri» non costano nulla per il portafoglio.La mia impressione è però che il giustificato abbandono dei linguaggi di programmazione pensati per finalità didattiche abbia contribuito ad un effetto collaterale assai negativo: l’idea ampiamente diffusa secondo cui si possa insegnare e conoscere l’informatica prescindendo dalla programmazione. Quante volte (in contesti non specialistici, ci auguriamo!) si sentono lodare i computer attuali perché, diversamente da quelli rudimentali dei decenni passati, «non hanno bisogno di essere programmati»? Affermazione tanto intelligente quanto quella che osservasse che oggi, con la gran quantità di libri disponibili, per fortuna non è più necessario imparare a scrivere.La funzione formativa dello studio della programmazioneCon tutte le critiche che si possono fare alla specie di cui il Pascal fu il più celebre esemplare, un’idea di fondo era invece assolutamente giusta: il computer come macchina universale, da Turing in poi, è proprio caratterizzato dalla possibilità di diventare una qualsiasi altra macchina grazie alla programmazione. L’informatica, come scienza sviluppatasi anche grazie allo stimolo di macchine in grado di eseguire programmi, ha una sua parte essenziale in questa conoscenza. Che poi oggi la collocazione sociale dell’informatica e delle sue applicazioni incoraggi anche un altro ordine di riflessioni è vero. Ma nessuno mi convincerà mai che l’«educazione digitale» renda obsoleta (puta caso) la comprensione di che cosa sia una procedura ricorsiva. Pensare ciò è una deplorevole confusione di piani.Credo quindi che il capitolo della funzione formativa dello studio della programmazione possa e debba oggi essere ripreso.Cinque motivi per cui lo studio della programmazione è significativoIn che modo? A prima vista, vedo almeno cinque caratteristiche che rendono questo studio particolarmente significativo.Nella programmazione è in gioco un sapere che diventa immediatamente un fare: non è un ottimo luogo per mettere nel cassetto discussioni un po’ tediose sulla differenza tra conoscenza e competenza e costatare quanto creare qualcosa di funzionante possa essere incoraggiante o addirittura entusiasmante?La programmazione è uno studio in cui la «correzione» proviene spesso dalla cosa stessa: un programma sbagliato semplicemente non funziona (nella pedagogia montessoriana si parlerebbe di «autocorrezione»): ma questa è una carta straordinaria in un’epoca in cui si cerca sempre più un carattere attivo dell’apprendimento.La programmazione spinge a mettere in esercizio attitudini di analisi di problemi che sono teoricamente trasferibili in innumerevoli campi dell’esperienza umana (è quell’aspetto, se interpreto bene, che spesso viene chiamato «pensiero computazionale»).In quarto luogo, la programmazione è un campo in cui come in pochi altri esistono innumerevoli soluzioni diverse per lo stesso problema: un intero corso di informatica potrebbe essere per esempio costruito solo percorrendo i differenti algoritmi per l’ordinamento; ma questo significa anche connettere fin dall’inizio il rigore con l’invito alla creatività!Nella programmazione è in questione un fare che si presta benissimo alla collaborazione, e dunque si connette allo sviluppo di capacità di relazioni personali e alla formulazione di progetti comuni.Insomma: ci sono tutte le premesse affinché lo studio della programmazione, per la soddisfazione postuma di Niklaus Wirth, rimanga almeno come un bel ricordo.

A proposito di discipline STEM

A proposito di discipline STEMFare per capire, capire per comprendere, comprendere per fare 

di Maria Grazia Carnazzola

Per cominciare.

“Ecco il compito dell’educatore ideale: partire dalla realtà psichica del bambino per migliorare l’uomo nella vita pratica, per salvarlo, per impedirgli di smarrirsi, per evitare le deviazioni e le incertezze, per prevenire gli squilibri nervosi, per infondergli coraggio morale e salda coscienza nella lotta quotidiana. Il compito dell’educatore è, quindi, immenso, perché il progresso dell’umanità e la pace del mondo sono nelle sue mani”. Così Maria Montessori nel discorso di chiusura dell’VIII Internazionale di Sanremo nel 1949, dopo il rientro in Europa seguito al lungo periodo trascorso in India durante la seconda guerra mondiale e i successivi anni non facili. La collocazione storica è chiara, così come chiare sono le posizioni espresse con parole attualissime, con la forte consapevolezza che ogni metodo- ebbe a dire lei stessa nel 1947 presentando la prima edizione de La scoperta del bambino-deve tener conto del mutare dei tempi, dei progressi della scienza, delle particolari situazioni e tendere alla verifica dei principi che ispirano il lavoro concreto di bambini e insegnanti (che preferiva chiamare direttrici). Metodo significa seguire una strada, sceglierla, progettarla e seguirla predisponendosi ad affrontare inevitabili ostacoli contestualizzati nel tempo e nello spazio sociale e culturale, è forma mentis e modus operandi, capacità di pensiero e competenza nell’azione. Montessori parla di bambini, ma le sue intuizioni sono generalizzabili a giovani e ad adulti anche oggi e sarebbe utile una lettura “di prima mano” dei suoi testi, magari anche- perché no- per dissentire in modo argomentato o leggere i continui cambiamenti ripetutamente preannunciati per scuola da una prospettiva un po’ diversa.

2. Partire dal bambino per migliorare l’uomo.

In attesa di verificare quali esiti produrranno le “innovazioni” annunciate con enfasi e in via di attuazione, l’augurio è che non si trascuri la visione di un percorso unitario(verticalità) finalizzato alla costruzione progressiva “dell’uomo e del cittadino” a cui tendono i profili in uscita di tutti gli ordini e gradi scolastici. Tenendo conto che, in qualsiasi disciplina, passare dal pensiero pratico al pensiero logico è fondamentale (transitando dalle operatività concrete basate principalmente sulla percezione e sul pensiero pratico) all’operatività fondata sulla rappresentazione mentale mediata dal linguaggio per la costruzione del pensiero logico. Tanto più oggi, ma ancora di più domani- così pare- che la maggior parte delle attività umane tende e tenderà a ruotare sempre più attorno alla gestione dei nuovi linguaggi informatici, spostando la centralità dell’agire e del controllo dall’uomo alla macchina. In tutto il mondo occidentale la rarefazione delle conoscenze si accompagna all’automazione della produzione materiale e culturale, alla sua concentrazione e, ovviamente, si intreccia con gli obiettivi del sistema economico-politico che seleziona le professionalità che saranno necessarie per le mete che sono di suo interesse. Che non sempre coincide con l’interesse e il bene comune. Quali professionalità richiederà la costruzione del ponte di Messina a ingegneri, tecnici, operai, manovali? Quali sistemi di competenze dovranno sviluppare le aziende agricole per stare sul mercato e per accedere ai sussidi del PNRR? O, ancora, di quali competenze e di quali sistemi di valutazione dovranno avvalersi il sistema sanitario e il sistema di istruzione (i due ambiti di cura per definizione) per un welfare che non si limiti ad assistenza caritatevole o a percorso di socializzazione, ma si configurino come centri di diritti/doveri di cittadinanza e di democrazia? Quali medici e quali insegnanti saranno selezionati e scelti e sulla base di quali principi e di quali criteri? Si spera non solo sulla base della conoscenza delle tecnologie disponibili, ma anche per la consapevolezza di un’etica che considera l’istruzione e la salute non solo come valori dipendenti dalla crescita economica. Ciascuno di noi non è solo ciò che definisce la natura, siamo ciò che esprime la nostra cultura, intesa anche come capacità morale. La cultura deriva dall’educazione della mente, per questo il sapere da preservare e da trasmettere è un problema centrale per ogni società e dovrebbe riguardare tutti, in primis gli intellettuali, perché da questa riflessione dipenderà il futuro nostro e di chi verrà dopo di noi. Il dibattito su una educazione adeguata ai nuovi scenari è presente già da anni tra intellettuali di alto livello: E.Morin, H. Gardner, N. Postman, Z. Bauman, U. Margiotta- per citarne qualcuno-  il cui pensiero è rintracciabile in documenti  messi a punto per un generativo progetto educativo comune come Le Raccomandazioni del 2006/2018 per le competenze chiave e l’apprendimento permanente dell’UE, o i 17 goals dell’Agenda 2030 dell’ONU.  Gli interventi sia pro sia contro i cambiamenti che via via vengono annunciati da ministri che si  susseguono in tempi ravvicinati, si concentrano di volta in volta o contemporaneamente sulle questioni del rapporto tra scuole statali e paritarie, sull’insegnamento delle discipline STEM o delle lingue straniere, sulla durata/riduzione a quattro anni dei percorsi  tecnici e professionali….e su una miriade di aspetti, senza dubbio importanti, ma che se continuano ad essere annunciati e affrontati in modo superficiale e settoriale, non produrranno grandi risultati, nonostante l’impegno di tempo e di risorse dedicate. Nella scuola, come in tutte le organizzazioni complesse, se si modifica un tassello non si può ignorare l’effetto domino che si innesca: tutti i cambiamenti che ne derivano devono essere affrontati con adeguati strumenti concettuali, teorici e tecnici, in questo ordine di importanza.  Il filosofo Carlo Sini da anni ripete che l’intelligenza non sta nello strumento esosomatico che si utilizza, ma nelle azioni di chi lo utilizza per i propri obiettivi e scopi. Allora, forse, prima di imparare a usare l’intelligenza artificiale bisognerebbe imparare (e quindi insegnare) a usare la propria intelligenza umana. La novità dei professionali e tecnici di quattro anni? Ci può stare, come molti dei cambiamenti che il MIM auspica e propone, ma questa è la cornice; e il quadro? Il quadro sono le conoscenze, le abilità, le competenze, le metodologie, i risultati attesi, la valutazione, i dati e le evidenze, il chi fa cosa, le responsabilità… Di questo si dovrebbe parlare. Ma chi dice, se non ci sono documenti ufficiali completi ed esaustivi, su cui discutere, ma soprattutto tempi congrui per un confronto, anche acceso, ma rispettoso delle competenze, delle attribuzioni e delle posizioni di chi discute? Nel merito, in particolare, del potenziamento delle discipline STEM (scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche), è un po’ che se ne parla. Cosa significa che “serve un potenziamento”? Su quali operazioni prima pratiche e poi mentali si fonda ad esempio la competenza matematica, con quali continuità/discontinuità? E quali sono le affinità tra questo settore disciplinare e il settore delle discipline umanistiche? Risponde a verità che le scienze dure insegnano abilità necessarie e quelle umanistiche solo “contenuti”?  Considerando che non ci sono contenuti in astratto, ma abilità altre, che si tratti di discipline umanistiche o scientifiche, le operazioni mentali che un individuo mette in atto sono le stesse (astrarre, generalizzare, analizzare, sintetizzare, confrontare…) applicate a contesti diversi, con oggetti diversi, per scopi che possono apparire diversi se ci si limita alle abilità, ma che diventano meno settoriali se ci riferisce alle competenze e quindi ai maggiori spazi di autonomia personale o ai livelli molteplici della realtà.  

3. Le discipline STEM.

“Posso dire che, tra tutte le mie esperienze scolastiche, la traduzione dal latino è stata l’attività più vicina alla ricerca scientifica, cioè alla comprensione di ciò che è sconosciuto.”

Così il genetista Luca Cavalli Sforza in un articolo, pubblicato su la Repubblica il 27.11.1993, in cui metteva in guardia i politici del tempo dal rischio che comportava l’abbassare  il livello delle nostre scuole- del liceo in particolare- per imitare il fallimentare esempio americano e sottolineava l’uso delle lingue classiche, in particolare gli esercizi di traduzione, come utile strumento per sviluppare le capacità scientifiche; tradurre, sosteneva, è un lavoro intellettuale impegnativo che richiede una lunga serie di ipotesi e di verifiche fino ad arrivare a un significato coerente con la struttura e con il lessico del testo.

Tornando alla matematica, le basi su cui si fonda sono la logica e l’aritmetica. La logica riguarda il ragionamento ed è strettamente legata alla competenza linguistica posseduta, lessicale e sintattica. Le operazioni logiche della mente sono schemi di azione interiorizzati e verbalizzati, attraverso i quali l’informazione percettiva si trasforma in informazione rappresentativa e poi in logica. Le rappresentazioni percettive (vale anche le sequenze) sono guidate dall’input percettivo-visivo; le sequenze logiche sono operazioni mentali guidate dal linguaggio. Le principali “operazioni” che favoriscono l’organizzazione logica e il suo sviluppo sono la sequenza, la classificazione e la seriazione. La sequenza -compresa la sequenza ricorrente dove più elementi sono trattati come un singolare, ad esempio i dittonghi e i trittonghi o l’insieme cucchiaio, coltello, forchetta- si fonda sulle relazioni che vengono poste tra elementi contigui spazialmente o temporalmente per dare ordine- prima diretto e poi inverso- a ciò che viene percepito e agito, per esempio apparecchiare o le azioni sui numeri e sulle lettere quando si compongono le parole. La classificazione (con oggetti, percettiva, per esclusione e per inclusione, gerarchica, per intersezione) si basa sul riconoscimento di differenze e di somiglianze che permettono le prime associazioni che si fondano sulle emozioni e perciò sono soggettive (mi piace/non mi piace), poi su criteri più oggettivi come disuguaglianza/uguaglianza o diversità/ similitudine. È necessario qui richiamare l’attenzione sulla capacità di descrizione, quale presupposto del paragonare e poi del classificare, e sul ruolo del lessico specifico sempre per collegare la mappa semantica con quella episodica e pratica. La seriazione implica almeno tre elementi, che si differenziano per un’unica caratteristica, di cui uno sia maggiore del precedente e minore del seguente e abitua a inserire ogni elemento come termine mediano tra due elementi. L’uso del linguaggio è ancora una volta fondamentale: più grande di/meno grande di, più di/meno di, il più grande/il più piccolo…   

Non basta mostrare ai bambini “come si fa” perché è difficile ricordare ciò che non si è compreso.  Ogni bambino deve avere la possibilità di operare con molti tipi di “oggetti”, nel rispetto dei ritmi personali che segnalano la sua diversità “fisiologica”, avendo cura che i diversi passaggi siano accompagnati da verbalizzazioni chiare e precise che permettono l’integrazione della mappa episodica nei concetti. In questo modo il fare permette di capire il significato dell’azione e di comprenderne il senso, nel contesto complessivo. Come insegnanti, sappiamo bene quanto di affettivo/emotivo ci sia nelle mappe episodiche, ad ogni età e nelle differenze individuali, ivi comprese le differenti forme di disabilità.  Perché questa insistenza sulla scuola dell’infanzia e primaria? Perché è qui che si pongono le basi per gli apprendimenti e i percorsi futuri e  per  l’inclusione sociale che passa attraverso lo sviluppo al massimo possibile delle capacità personali, si formano le strutture mentali che permettono di tamponare gli svantaggi socio-culturali e magari di contrastare la proliferazione di diagnosi di disturbi specifici di apprendimento- che esistono e sono da prendere molto seriamente- ma a volte non sono altro che la conseguenza di disturbi specifici o generalizzati di insegnamento ( a questo proposito il riferimento è a Dehaene). Quando ci si sente sconfitti dall’impatto frustrante con attività e argomenti presentati a un livello troppo complesso per il quale non si è pronti, una delle difese dall’insuccesso è quella dell’evitamento: se non faccio, non sbaglio. Che, se ci pensiamo, è un comportamento intelligente di autotutela che anche gli adulti usano, a tutti i livelli.

L’aritmetica. Cominciamo col dire che il termine aritmetica, dal greco aritmos, ci ricorda che se alla musica si tolgono la melodia e il ritmo, rimangono i rapporti numerici che la sottendono. Poi, una domanda fondamentale: cos’è il numero? Chi deve insegnare a usare e a operare con i numeri, deve avere chiara una risposta, a cominciare da chi lavora con i bambini piccoli, fino a chi lavora con gli studenti della scuola secondaria.  Per l’educazione dei piccoli, fondamentale per il prosieguo di tutta la formazione/istruzione, una delle definizioni più generative- che ho usato nei corsi di formazione-aggiornamento per gli insegnanti è quella di Silvio Ceccato “Il numero nasce dal singolare che si ripete”, cioè si costruisce con la ripetizione del singolare, individuato sia come oggetto sia come azione.  È un insieme di simultaneità e di successione, non a caso una delle componenti centrali del “fare la conta” è il ritmo che frammenta ogni movimento focalizzando l’attenzione su ogni unità del frammento.  Il richiamo al ritmo è importante perché è una costante nella vita di ciascuno. I numeri possiedono un aspetto di pensiero e uno di linguaggio e l’applicazione ripetuta delle regole di sequenza e di ricorrenza verbale facilita il compito.  

Conoscere i nomi dei numeri non è un’attività meccanica come spesso si tende a pensare, anche se all’inizio i bambini probabilmente li considerano attributi di oggetti o di attività (palla, palla, palla; salto, salto, salto; ancora, ancora, ancora), costituiscono poi una classe come i colori o i cibi. Ad esempio, la scoperta della regola di generazione dei nomi a livello orale è un processo di elaborazione mentale attiva che richiede il tempo necessario di esercitazione e di riflessione per essere automatizzata. Il nostro cervello sa cogliere immediatamente la quantità, ma per far di conto e maneggiare simboli più o meno astratti serve esercizio continuo, come Dehaene ha ben illustrato.  Ma come si formano i numeri nella mente?  I passaggi sono molti e tutti richiedono l’agire concreto, la focalizzazione dell’attenzione sui diversi step, ciascuno dei quali deve essere padroneggiato prima di passare al successivo. Per ragioni comprensibili, si elencano i principali.

Della codifica verbale dei numeri si è già detto. Proseguendo : imparare a contare (anche contare oltre, senza cominciare sempre dall’inizio); la conservazione del numero, indipendentemente dagli attributi percettivi di forma, colore, grandezza, disposizione nello spazio(Piaget); aggiungere e togliere, abituando a espressioni come più e meno che abituano a pensare a situazioni non numerabili, compresa la misura dello spazio; la rappresentazione del numero ( usando simboli che ricordino il singolare come I-○-●) privilegiando la rappresentazione analogica ordinata; l’introduzione delle cifre rappresenta il passaggio  al codice ideografico che lega direttamente il segno al significato di pensiero; ordinalità e cardinalità, il lavoro su entrambe le concezioni aiuta lo sviluppo di tre potenti strutture logiche: la reversibilità, la transitività (che apre la strada alla misura)- il controllo di più variabili in una serie ordinata, ogni elemento è contemporaneamente maggiore del precedente e minore del seguente; le operazioni con le cifre: addizione e sottrazione, moltiplicazione e divisione.

È importante insegnare a individuare le operazioni in frasi che non contengono numeri, ma si riferiscono a situazioni di vita quotidiana: ho accorciato una gonna, ho avuto altri libri in regalo, abbiamo raddoppiato le vendite, si sono spente alcune candele, ti darò la metà… che avvicinano alla comprensione dei testi dei problemi ed evitano che ci si focalizzi sui soli dati numerici; le frazioni, lo spazio e la misura; il tempo, la sua misura e il rapporto con la velocità.  

In ogni ordine e grado dei percorsi di istruzione/formazione, è importante che l’insegnamento/apprendimento proceda per domande; sono le domande che creano dissonanza (Festinger) e in ciascuno la necessità di trovare/ricevere la risposta che porta all’equilibrazione, un nuovo equilibrio che genera soddisfazione e interesse per la risposta e predisposizione a nuove domande e a nuovi saperi. In questo si manifesta la competenza dei docenti. A conclusione di ogni unità di apprendimento, è poi necessario sincerarsi che tutti abbiano compreso, attraverso domande di riepilogo che permettono a tutti di ripercorrere e di fissare l’attività svolta, ciò che è stato appreso, ciò che rimane in sospeso. Domande che riguardano la comprensione delle relazioni tra oggetto trattato e le azioni messe in atto; la rievocazione dell’organizzazione sequenziale delle attività; la generalizzazione che permette di estendere i collegamenti e le relazioni ad oggetti analoghi attraverso il paragone; la riflessione critica per trovare elementi positivi e negativi in ogni situazione/attività. Il domandare e la guida alle risposte saranno calibrati sull’età, sui livelli di autonomia e di competenza dei gruppi di apprendimento e dei diversi allievi. Questo riporta il discorso sulla concretezza delle azioni di orientamento, che sono prima di tutto comportamenti e azioni di insegnanti e allievi, e sui focus contemporaneamente individuali e sociali di tutto ciò che si fa a scuola. Ciascuno di noi, isolato dal contesto- famiglia, gruppo classe, piccolo gruppo, grande gruppo dei pari, in rapporto uno a uno- non è comprensibile agli altri. La scuola è lo sfondo sociale allargato in cui un bambino prima, poi un adolescente o un giovane adulto, viene a trovarsi e dove deve cercare un orientamento che gli permetta di raggiungere la sua meta in ambito cognitivo, metacognitivo e sociale, con la collaborazione di adulti che lo aiutino a individuare gli strumenti più congeniali. Perché, questo va sottolineato con forza, insegnanti e allievi, al di là dello iato generazionale e dei problemi che conosciamo, nella scuola realizzano una forma di comunicazione sistematica e strutturale, una delle poche nel complicato contesto attuale.

4. Una scuola secondaria all’altezza del compito.

Sapranno le scuole, nel breve volgere di questi mesi, costruire e condividere i complessi significati indicati nelle Linee guida finalizzate all’introduzione nel PTOF delle scuole, dall’infanzia alla secondaria di secondo grado, per lo sviluppo e il rafforzamento delle discipline STEM? Questa è una domanda che viene da molti problemi e altrettanti ne genera. La tempistica e i passaggi che permetteranno di interpretare concettualmente e operativamente quanto previsto dai documenti a cui le Linee Guida fanno riferimento, per verificare quanto già è in linea e quanto va modificato e per  non limitarsi a cambiare le carte invece che le pratiche, sono incalzanti.. Servono strumenti culturali, tecnici, operativi e tecnologici per “innovare” che altro non è che “risignificare” il patrimonio culturale che ci appartiene, per vivere in questo mondo in continuo movimento, ricordando con Maturana e Varela che la scelta delle operazioni concrete o concettuali appartiene all’osservatore, non all’osservato. Non basta che le discipline Stem attraversino Ptof, progetti, carte, pubblicazioni, piattaforme, reti, corsi di aggiornamento. Le scuole, ciascuna scuola, devono interpretare i vincoli della necessaria convergenza verso quelle competenze che devono essere integrate negli insegnamenti disciplinari, come fanno comprendere il riferimento alle Raccomandazioni sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente del 2018 del Consiglio dell’Unione Europea, agli ordinamenti e ai curricoli nazionali. La ricerca di una ri-significazione integrata delle discipline, da condurre anche sulla contiguità e ausiliarità epistemologiche, dovrebbe consentire di  trovare convergenze semantiche e sintattiche evitando accostamenti di natura esclusivamente tematica, tenendo presenti tre livelli: a) il livello epistemologico-linguistico che riguarda lo statuto disciplinare necessario per una autentica comunicazione tra discipline e la condivisione di termini e di concetti; b) il livello applicativo della soluzione sinergica e integrata dei problemi complessi che la realtà presenta; c) il livello generativo, di nuove forme di conoscenza e di paradigmi “nuovi” derivanti dalla contaminazione dei saperi disciplinari. Se si parla di interdisciplinarità/multidisciplinarità, il presupposto sono le discipline, intese come modi di guardare la realtà (paradigma e metodo); se si parla di transdisciplinarità (termine coniato da Piaget nel 1963) si parla della visione multifocale del reale e del vivere, dei problemi che via via si presentano. Feyerabend, in “Dialogo sul metodo”, ebbe a scrivere “La transdisciplinarità è lo spazio di frontiera, insieme interno ed esterno alle singole discipline e condiviso, ove tutte si incontrano in un luogo senza luogo, nel quale i problemi fondamentali dell’uomo e della vita trovano il loro “giusto posto”. Quello che poi E. Morin avrebbe chiamato “l’era della teoria aperta, multidimensionale e complessa”. 

Per tornare al testo delle linee guida, un passaggio di criticità è rappresentato dal paragrafo “Valutazione delle competenze Stem”, fatto forse inevitabile mancando, nelle Linee, un rimando esplicito alla progettazione dei percorsi e delle attività per lo sviluppo delle competenze che sono e rimangono patrimonio e responsabilità dell’allievo, a cui possono essere insegnati saperi (dichiarativi e procedurali) ma non competenze: la costruzione della conoscenza, che permette l’interazione del mondo cognitivo, relazionale, emotivo, etico, è personale. Prima della valutazione, che non è solo formativa ma anche sommativa e diagnostica, serve, allora, la selezione e la ri-significazione dei contenuti disciplinari, una diversa focalizzazione delle abilità, la costruzione di contesti di apprendimento e di climi, di nuovi approcci verticali e orizzontali alla contemporaneità che va presentata nella sua complessità. Ad esempio, è necessario presentare i vantaggi che le tecnologie come chatGPT possono portare, ma parallelamente occorre segnalare che le stesse producono quantità rilevanti di anidride carbonica. Nella tabella che segue è riportato un esempio di “convergenza” delle discipline su una competenza (una delle 4C), operazione da fare in fase di progettazione del percorso di insegnamento/ apprendimento.  Ovviamente gli oggetti e i criteri di valutazione saranno resi noti agli studenti per l’autovalutazione, passaggio ineludibile per il conseguente auto-orientamento.  

5. La rana bollita.

Se si vuole veramente considerare la formazione una condizione strutturale del tempo e della temperie culturale, che risulti adeguata anche alle richieste del mondo del lavoro, ai mutamenti repentini, occorre che i cambiamenti siano proposti in tempi congrui perché chi il cambiamento lo deve attuare, cioè le scuole, abbiano la possibilità di comparare le nuove richieste con ciò che già viene praticato, con le situazioni di contesto, con le risorse disponibili, non solo finanziarie. La formazione, per i giovani, può diventare veramente la ricerca del significato e del senso dello “stare a scuola,” attraverso percorsi che escludano il vagare tra le mode e mettano in evidenza la riflessione condivisa sui temi, sul significato e sul senso dell’imparare, partendo da attività o da azioni praticate, supportate dagli opportuni e irrinunciabili riferimenti teorici- per i quali occorre sempre una terminologia specifica- verificando di poter autonomamente e non meccanicamente applicare regole generali a casi particolari per comprendere il mondo e cercare di cambiarlo. Mettere a fuoco l’incidenza che le diverse modalità di stare a scuola hanno sull’attenzione, la percezione, la memoria, il linguaggio… sul grado di astrazione che permettono o richiedono, sulla ricaduta che producono sul pensiero riflessivo e critico, sono aspetti che andrebbero considerati in tutte le discipline e che andrebbero esplicitati.

Se non si vuole che la scuola, e quindi la società, faccia la fine della rana della storia, pur nella difficoltà della sfida va sottolineata la necessità di una rivisitazione dei fini dell’educazione, istruzione formazione, prima, e nella ricerca dei mezzi e dei modi poi.  N. Chomsky ha utilizzato la storia della rana bollita come metafora per descrivere la tendenza dell’essere umano ad adattarsi a situazioni confuse senza reagire, fino a quando la situazione diventa chiaramente pericolosa, cioè quando ci si sente completamente impotenti e non ci sono più le condizioni per reagire in modo razionale, tenendo conto di tutti gli aspetti. È una sensazione che chi lavora nella scuola ha provato spesso negli ultimi venticinque anni. Un po’ alla volta sono cambiate le cose, senza un disegno strutturale e complessivo; la qualità e i livelli degli apprendimenti e delle competenze continuano ad abbassarsi e non c’è una direzione di senso chiara e coerente su cui investire per invertire la rotta, per promuovere la ricerca culturale, didattica e organizzativa che può aiutare a uscire dal terreno sterile dell’autoreferenzialità. E non ci si accorge neppure del paradosso: la marginalizzazione di una professione- l’insegnante- che è quella che determina tutte le altre. In sintesi, una suggestione che ci viene da A. N. Whitehead, matematico e filosofo: una teoria educativa dovrebbe essere enunciata in una concezione generale dell’umano e del mondo, piuttosto che all’interno di un discorso finalistico (leggasi il successo nel mercato del lavoro) in base al quale valutare l’efficacia degli interventi educativi e la selezione delle abilità su cui investire. Se il mercato del lavoro cambia, le persone devono possedere gli strumenti (cognitivi, metacognitivi, relazionali) per affrontare i cambiamenti e per rimanere nel circuito in modo accettabile, da intendere non solo come occupazione ma come occupabilità.   

RIFERIMENTI

Ceccato, S., (1980), Il punto 1 e 2. Perché tuo figlio pensi così, Milano, IPSOA

Dehaene, S., (2010), Il pallino della matematica, Milano, Raffaello Cortina

Feyerabend, P., (1989) Dialogo sul metodo, Bari, Laterza

Festinger, L., (2009- 3^ ed.) Teoria della dissonanza cognitiva, Milano, Franco Angeli

Margiotta, U., (2015), Teoria della formazione, Roma, Carocci

Maturana, H, Varela, F., (1992), Macchine ed esseri viventi, Roma,   Astrolabio.

Montessori, M. (1960 IV ediz.), Educazione alla libertà, Bari, Laterza

Montessori M., (1970), Manuale di Pedagogia Scientifica, Firenze, GiuntiBemporad Marzocco

Morin, E., (1973) Il paradigma perduto, Milano, Mimesis

Piaget, J., (1945-1972), La formazione del simbolo nel bambino,  Neuchatel- Firenze, Delachaux e Niestlé- La nuova Italia  

Russo, L., (2016-4^ ed.), Segmenti e bastoncini, dove sta andando la scuola, Milano, Feltrinelli

Sini, C., (2009), L’uomo, la macchina e l’automa, Torino, Bollati Boringhieri

Whitehead, A.N, (2022), I fini dell’educazione, Milano, Raffaello Cortina Ed.

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