Niente velo islamico per la donna che lavora, sì della Corte di giustizia Ue ma via gli altri simboli di culto: pure il crocifisso?

Donne afghane in un negozio che vende burqa

Vietare alle donne di indossare il velo islamico sul posto di lavoro non comporta discriminazione. A patto, però, che si faccia lo stesso anche per tutti gli altri simboli di culto. A dirlo è la Corte di giustizia europea che ha preso posizione sul dibattito fortemente divisivo tra religione e laicità.

Il parere dell’aula di Lussemburgo arriva a circa 12 mesi da un altro pronunciamento, sollecitato dal tribunale del Lavoro francofono di Bruxelles, posto sulla stessa linea: se il datore di lavoro esige che i dipendenti siano vestiti in modo ‘neutro’, senza esibire alcun segno religioso, filosofico o spirituale in modo evidente, può farlo senza essere accusato di discriminazione. E quindi c’èm una “clausola” da rispettare: quella che la disposizione sia applicata “in maniera generale e indiscriminata”.

La risposta riguarda il ricorso di una donna belga di fede musulmana: nel

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Laicità e identità religiosa nella scuola multiculturale

Laicità e identità religiosa nella scuola multiculturale

di Gianluca Dradi

Le forti polemiche suscitate dalla decisione del consiglio di istituto di una scuola di Pioltello, di disporre un giorno di sospensione delle attività didattiche in occasione dell’ultimo giorno del Ramadan, offre il pretesto per una riflessione sul tema dello spazio che può essere riservato alle espressioni religiose all’interno della scuola pubblica, in un contesto ormai sempre più multiculturale.

Preliminarmente appare opportuno, sulla vicenda specifica, e per quanto si può ricavare dalle informazioni acquisibili attraverso gli organi di stampa, riconoscere la legittimità formale dell’operato della scuola che si è limitata a deliberare, ai sensi dell’art. 5 del DPR 275/1999, un adattamento del calendario scolastico, prevedendo un giorno di sospensione, da recuperare, in occasione della fine del Ramadan, atteso che il 40 % dei propri alunni sarebbe verosimilmente rimasto assente da scuola.

La norma citata viene applicata dalla generalità delle istituzioni scolastiche proprio in occasione dei “ponti” tra una festività e l’altra, considerando inutile tenere aperta la scuola quando appare verosimile che la maggioranza degli studenti rimarrebbe assente, nonché per venire incontro alle esigenze del personale residente fuori sede.

Precisato quindi che la decisione della scuola di Pioltello non è sorretta da una motivazione di contenuto religioso, ma si preoccupa semplicemente di essere inclusiva rispetto ad una rilevante quota della propria popolazione studentesca, l’episodio consente di proporre una riflessione sulle varie tipologie di manifestazioni religiose nella scuola: apposizione del crocifisso, presenza di alunne col velo islamico, benedizioni pasquali, apprestamento di presepi ecc.… E nel conseguente dibattito che nasce a seguito delle espressioni del sacro dentro un’istituzione pubblica ispirata al principio della laicità.

La laicità quale principio supremo dell’ordinamento

La Corte Costituzionale ha avuto plurime occasioni per precisare il concetto di laicità. Si segnala, in particolare, la sentenza n. 203 del 1989, nella quale la Corte afferma che gli articoli 2,3,7,8,19 e 20 della Costituzione concorrono a strutturare il principio supremo della laicità che caratterizza la nostra forma-Stato.

Tale principio si declina come equidistanza rispetto alle diverse confessioni religiose e non confessionalità dell’azione pubblica.

Ma, precisa la Corte, il principio di laicità non risponde ad un concetto ideologizzato ed astratto di estraneità rispetto alle istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini, implicando, invece, la «non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni», e, come precisato dalla Corte Cost. nelle sentenze n. 67/2017 e n. 254/2019, la «tutela del pluralismo a sostegno della massima espressione della libertà di tutti».

In altri termini, il concetto di laicità fatto proprio dalla nostra Costituzione non è sinonimo di chiusura di fronte al fenomeno religioso, ma significa apertura all’inclusione dei diversi orientamenti religiosi, nonché riconoscimento del loro valore in quanto tratto distintivo dell’identità personale e per il contributo che i valori religiosi possono apportare alla crescita della società.

L’uguaglianza dei cittadini e delle confessioni religiose davanti alla legge, può avvenire verso il basso o verso l’alto: nel primo caso, neutralizzando lo spazio pubblico rispetto al fenomeno religioso, nel secondo caso, invece, riconoscendo il valore delle diverse identità di fede e tutelando il loro diritto di esprimersi.

Come esempio di questo secondo modo di intendere il concetto si può citare la sentenza 440/1995 della Corte Cost. che, nel dichiarare l’incostituzionalità parziale del reato di bestemmia[1], precisa che «la scelta attuale del legislatore di punire la bestemmia, una volta depurata del suo riferimento ad una sola fede religiosa, non è dunque di per sé in contrasto con i principi costituzionali, tutelando in modo non discriminatorio un bene che è comune a tutte le religioni che caratterizzano oggi la nostra comunità nazionale, nella quale hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse».

La laicità che riconosce il valore pubblico del fattore religioso significa quindi equidistanza dalle diverse confessioni, ma al tempo stesso tutela di tutti i valori religiosi.

Così concepita diviene anche un utile strumento di governance di una società complessa, multietnica e multiculturale, in quanto mezzo di dialogo che consente il confronto tra diverse visioni e valori su un piano di parità.

Come affermato da Pastore[2], infatti, «le società multiculturali (…) hanno bisogno di uno stato imparziale (e non neutrale, nel senso di indifferente), dove le molteplici identità possano rivelarsi, riconoscersi reciprocamente ed essere trattate con eguale considerazione e rispetto».

L’esperienza del sacro nelle istituzioni scolastiche

In una società che si definiva secolarizzata, sta invece emergendo con forza il tema del sacro e la richiesta di riconoscimento delle proprie identità culturali e valoriali da parte delle comunità immigrate e, come reazione, da parte di gruppi autoctoni che sentono minacciati i propri valori.

La scuola è il luogo per eccellenza in cui una società pluralista deve trovare il modo di incontrarsi e non scontrarsi. Perché è caratterizzata da un modello educativo e formativo «fondato sui valori dell’inclusività, dell’interculturalità, della democrazia e della non discriminazione», come recita l’art. 2 del D.lgs. 64/2017. Perché è «una comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni» (art. 1 DPR 249/1998), dunque il luogo di formazione della cittadinanza, che ha nel suo DNA la funzione di tenere insieme il mondo civile, educandolo ed istruendolo.

E dentro la scuola queste istanze di affermazione delle identità religiose si esprimono in vari modi.

Alcuni, come l’indossare il velo islamico, piuttosto che la kippà ebraica o il clergyman del sacerdote che insegna religione, non dovrebbero suscitare dubbi sulla loro ammissibilità, in quanto chiara espressione sia del diritto all’identità personale sia della libertà religiosa (ed appare ingiustificato imporre ad un credente di lasciare la sua fede fuori dall’aula). In proposito, seppure riferito al caso dell’annullamento di un’ordinanza sindacale che vietava il burqa, il Consiglio di Stato, con sent. n. 3076/2008, ha dichiarato che il nostro ordinamento consente che una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali.

Un altro esempio è quello delle scuole che, in occasione delle festività natalizie, hanno la tradizione di allestire il presepe: in questo caso penso che il comportamento di quelle istituzioni scolastiche che decidono di modificare le loro prassi al fine di non discriminare altre religioni sia una forma di ipercorrettismo: il presepe, infatti, non è un simbolo religioso, perché, seppur originato dalle tradizioni proprie del cristianesimo, ha essenzialmente una valenza storico-culturale, al pari delle tante opere del nostro ricco patrimonio artistico che raffigurano soggetti e temi religiosi.

Venendo invece ai simboli o riti religiosi, un caso ricorrente è quello delle benedizioni pasquali. Sulla questione è utile fare riferimento alla pronuncia del Consiglio di Stato, sent. n. 1388/2017, che ha sancito il principio secondo cui «Gli organi scolastici quali il Consiglio di Circolo e il Consiglio di Istituto sono legittimati ad autorizzare lo svolgimento di “benedizioni pasquali” o di altri atti di culto all’interno degli edifici scolastici pubblici quale forma di attività complementare alla didattica. […] Né all’ammissibilità delle pratiche di culto osta la circostanza che le stesse, essendo espressione di uno specifico credo religioso, ben difficilmente potranno essere condivise dalla totalità degli studenti, giacché è compito della scuola riconoscere e valorizzare i diversi orientamenti confessionali ed ideologici, creando un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto».

Come si può notare, la Corte, nel riconoscere dentro la scuola -alla condizione che ciò avvenga in orario extrascolastico e con partecipazione facoltativa- la possibilità di “cittadinanza” del rito della benedizione, fa riferimento al diritto di tutti gli appartenenti alle diverse confessioni religiose, con la conseguenza che analogo diritto di cittadinanza avrebbero anche riti di altre confessioni.

Del resto, pochi rammentano che l’art. 311 del testo unico delle leggi sull’istruzione (D.lgs. 297/1994) dispone che (sottolineatura aggiunta) «l’insegnamento religioso ed ogni eventuale pratica religiosa, nelle classi in cui sono presenti alunni che hanno dichiarato di non avvalersene [di insegnamenti religiosi], non abbiano luogo in occasione dell’insegnamento di altre materie, né secondo orari che abbiano per i detti alunni effetti comunque discriminanti». Quindi la norma ammette i riti a certe condizioni.

Altro caso, che in qualche misura richiama l’episodio dell’istituto comprensivo di Pioltello, è quello della sospensione delle lezioni in occasione di festività religiose diverse dalla cattolica.

Qui basti ricordare che ciò già avviene da molti anni, nei comuni piemontesi in cui esistono le comunità valdesi, in occasione del 17 Febbraio[3].

Inoltre appare significativo come il Governo italiano si sia difeso nella famosa causa Lautsi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, per come riportato nel seguente passaggio della motivazione della sentenza CEDU, Grande Chambre, Lautsi c. Italie (n° 30814/06), 18 marzo 2011 (sottolineatura aggiunta): «selon les indications du Gouvernement, l’Italie ouvre parallèlement l’espace scolaire à d’autres religions. Le Gouvernement indique ainsi notamment que le port par les élèves du voile islamique et d’autres symboles et tenues vestimentaires à connotation religieuse n’est pas prohibé, des aménagements sont prévus pour faciliter la conciliation de la scolarisation et des pratiques religieuses non majoritaires, le début et la fin du Ramadan sont “souvent fêtés“ dans les écoles et un enseignement religieux facultatif peut être mis en place dans les établissement pour “toutes confessions religieuses reconnues“ (§ 74)[4]».

Si può concludere la casistica con il tema dell’apposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e come esso sia stato risolto dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, con sent. n. 24414/2021.

Il caso specifico originava da un conflitto tra gli studenti di una classe, che chiedevano il crocifisso, ed un docente che vi si opponeva in nome della laicità “alla francese” (nel senso dell’assoluta neutralità dello spazio pubblico), sentendosi coartato nella sua libertà di insegnamento dalla presenza del simbolo religioso.

La suprema Corte, in primo luogo, rammenta che la fonte normativa che prevede che tra gli arredi delle aule scolastiche sia ricompreso il crocifisso (art. 118 del R.D. 965/1924) deve essere interpretata in senso conforme alla Costituzione: nel contesto nel quale quella norma fu emanata, la religione cattolica era la religione di stato e questo spiegava il carattere obbligatorio dell’esposizione del crocifisso. Dopo la promulgazione della Costituzione e la revisione dei patti lateranensi, avvenuta nel 1984, l’esposizione autoritativa del crocifisso non è più ammissibile perché incompatibile con la distinzione degli ordini dello Stato e delle confessioni religiose.

Il crocifisso di Stato nelle scuole pubbliche, spiega sempre la Corte, entra in conflitto anche con un altro corollario della laicità: l’imparzialità e l’equidistanza che devono essere mantenute dalle pubbliche istituzioni nei confronti di tutte le religioni, indipendentemente da valutazioni di carattere numerico, non essendo più consentita una discriminazione basata sul maggiore o minore numero degli appartenenti all’una o all’altra di esse. Ed entra in conflitto con il pluralismo religioso come aspetto di un più ampio pluralismo dei valori.

Ma l’illegittimità dell’obbligo di esposizione non si traduce automaticamente nel divieto di affissione: «la disposizione regolamentare non può più essere letta come implicante l’obbligo di esporre il crocifisso nelle scuole, ma va interpretata nel senso che l’aula può accoglierne la presenza allorquando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, nel rispetto e nella salvaguardia delle convinzioni di tutti, affiancando al crocifisso, in caso di richiesta, gli altri simboli delle fedi religiose presenti all’interno della stessa comunità scolastica e ricercando un ragionevole accomodamento che consenta di favorire la convivenza delle pluralità».

La Corte offre dunque un’interpretazione evolutiva che tramuta l’obbligo di esposizione del crocifisso in una facoltà, affidandone la decisione alle singole comunità scolastiche.

Detta altrimenti: la parete dell’aula nasce bianca, ma può anche non restare spoglia ed accogliere la presenza di simboli religiosi per soddisfare un bisogno degli studenti.

Il tema del possibile conflitto va risolto caso per caso, alla luce delle concrete esigenze, nei singoli istituti scolastici, con la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti e con il metodo della ricerca del più ampio consenso possibile.

In tale modo il simbolo del cristianesimo, inserito in un contesto aperto alla presenza di simboli di altre religioni o di altre culture propri dei membri della comunità scolastica e quindi alla plurale ricchezza dei contributi offerti, concorre a delineare uno spazio pubblico condiviso, caratterizzato da una molteplicità di ragioni dialoganti e ispirato a una neutralità accogliente delle identità.

Il ruolo dell’autonomia scolastica

Le decisioni in materia di simboli e riti religiosi nella scuola laica e multiculturale è opportuno e necessario siano assunte dalle istituzioni scolastiche e non affidate ad autorità esterne.

Già il Consiglio di Stato, con sent. n. 1388/2017, ricordava come l’art. 4 DPR 275/1999[5], «ammette esplicitamente, con l’espressione “riconoscono e valorizzano le diversità”, tutte quelle iniziative che si rivolgano, piuttosto che alla generalità unitariamente intesa degli studenti, soltanto a determinati gruppi di essi, individuati per avere specifici interessi od appartenenze, per esempio di carattere etico, religioso o culturale, in un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di integrazione».

Afferma inoltre la citata sentenza della Cassazione che l’autonomia, oggi riconosciuta anche a livello costituzionale dall’art. 117, significa inserire dentro il pubblico quei margini di flessibilità e di adattabilità ai diversi contesti che l’uniformità normativa non garantisce.

Ne deriva che spetta agli organi collegiali scolastici, che di quell’autonomia sono i registi, la competenza in ordine a scelte che investono la creazione di un ambiente condiviso nel quale si svolgono le relazioni tra docenti, alunni e famiglie, come pure l’eventuale gestione dei conflitti che ne possano derivare.

Si può concludere con la seguente citazione della Corte: «la strada da percorrere […] è quella dell’accomodamento ragionevole [che] è il luogo del confronto: non c’è spazio per fondamentalismi, per dogmatismi o per posizioni pretensive intransigenti che debbano valere in ogni caso nella loro pienezza irrelata.

L’accomodamento ragionevole è basato sulla capacità di ascolto e sul linguaggio del bilanciamento e della flessibilità. Valorizza le differenze attraverso l’avvicinamento reciproco orientato all’integrazione tra le diverse culture. La dimensione che lo caratterizza è quella dello stare insieme, improntata ad una logica dell’et et, non dell’aut aut.

Seguendo questa prospettiva, le soluzioni vanno ricercate in concreto, non sulla linea di chiusure e di contrapposizioni, ma attraverso un dialogo costruttivo in vista di un equo contemperamento delle convinzioni religiose e culturali presenti nella comunità scolastica, dove la plurale e paritaria coesistenza di laici e credenti, cattolici o appartenenti ad altre confessioni, è un valore inderogabile».

Ovviamente, affinché questa autorevole indicazione sia concretamente perseguibile, è richiesto a tutti i componenti della comunità scolastica un atteggiamento di disponibilità e tolleranza rispetto alle posizioni culturali espresse dagli altri. In presenza di soggetti che brandiscono “valori non negoziabili”, il principio della ragionevolezza e della ricerca del più ampio consenso possibile, finirà altrimenti per tradursi, inevitabilmente, nel classico principio maggioritario per l’assunzione delle decisioni.

[1] reato previsto dall’art. 724 C.P. nei confronti di chi inveisce “contro la Divinità o i simboli o le persone venerati nella religione di stato”; la incostituzionalità è stata dichiarata per il riferimento esclusivo ai simboli/persone venerate dalla religione cattolica.

[2] B. Pastore, Società multiculturale e laicità, in R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), La laicità crocifissa? Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Torino, 2004

[3] Il 17 Febbraio 1848 Re Carlo Alberto concesse i diritti civili e politici ai sudditi valdesi.

[4] secondo le indicazioni del Governo, l’Italia apre lo spazio scolastico anche alle altre religioni. Il Governo indica quindi in particolare che non è vietato indossare da parte degli studenti il ​​velo islamico e altri simboli e indumenti con connotazioni religiose, sono previste misure per facilitare la conciliazione tra scolarizzazione e pratiche religiose non maggioritarie, l’inizio e la fine del Ramadan sono “celebrati spesso” nelle scuole e l’insegnamento religioso facoltativo può essere istituito negli istituti per “tutte le confessioni religiose riconosciute”.

[5] “Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema (…) concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo”

Esposizione crocifisso in aule scolastiche

L’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italianeStato dell’arte: origini, diffusione e disamina normativa

di Dario Angelo TUMMINELLI, Carmelo Salvatore BENFANTE PICOGNA, Zaira MATERA

In questi ultimi tempi si è molto discusso sull’opportunità o meno di esporre il crocifisso sulle pareti delle aule scolastiche italiane.

Invero il tema dell’affissione del crocifisso negli edifici pubblici non è nuovo, anzi è, spesso, oggetto di dispute e scontri, a volte dai toni accesi, talora sfocianti in controversie e contese approdate nelle aule dei Tribunali, con pretese di rimozione dalle mura avanzate da movimenti e associazioni laicali, o da altre confessioni religiose nonché da atei e agnostici.

La rappresentazione dell’uomo sulla croce è indubbiamente il simbolo più diffuso e segno distintivo di una pluralità di confessioni cristiane in tutto il mondo e, sopra tutte, di quella cattolica.

Prima di addentrarci nel merito del tema è opportuno ricostruirne i passaggi storico-normativi. Benché allo stato attuale non esista una disposizione normativa generale e organica che imponga l’esposizione del crocifisso sulle mura nei locali pubblici e, nella fattispecie, nelle aule scolastiche, proveremo comunque a ricostruire brevemente l’assetto normativo alla luce degli orientamenti giurisprudenziali.

Per quanto riguarda le aule scolastiche, invero, esistono ben due Regi Decreti, risalenti all’epoca fascista, promulgati nel 1924 e nel 1928.

Sebbene piuttosto datati sono tuttora in vigore in quanto mai abrogati da successive disposizioni normative, come del resto confermato dal parere 27 aprile 1988 n. 63/1988 “non appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute né può configurarsi una nuova disciplina dell’intera materia, già regolata dalle norme anteriori” (v. infra).

Entrando nel dettaglio si tratta del Regio Decreto 30 aprile 1924, n. 965 “Ordinamento interno delle Giunte e dei Regi istituti di istruzione media” pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 148 del 25 giugno 1924 e del Regio Decreto 26 aprile 1928, n. 1297 “Approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare” pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 167 del 19 luglio 1928 – Suppl. Ordinario n. 167.

Nulla invece venne stabilito nell’anno successivo (1929) nei Patti Lateranensi, accordi sottoscritti l’11 febbraio 1929, resi esecutivi in Italia con la legge n. 810/1929 relativamente all’esposizione del Crocifisso nelle scuole, come in qualsiasi altro pubblico ufficio.

Fatta questa premessa entriamo maggiormente nel dettaglio.

Il primo dei due, in ordine cronologico, in vigore dal 10 luglio 1924, stabilisce per l’istruzione media all’art. 118 che: “Ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re” mentre il secondo (regio decreto), in vigore dal 30 ottobre 1928, stabilisce all’art. 119 che: “Gli arredi, il materiale didattico delle varie classi e la dotazione della scuola sono indicati nella tabella C allegata al presente regolamento”. Ebbene andando a visionare la tabella C ritroviamo al primo punto, come arredo scolastico immancabile (dalla prima alla quinta classe) il crocifisso ancor prima del ritratto di S.M. il Re.

È chiaro che le citate disposizioni normative sono incomplete e riguardano esclusivamente le scuole elementari e medie, lasciando indefinita la questione negli altri ordini e gradi scolastici in particolare: scuole dell’infanzia, allora “materne”, istituti di secondo grado “superiori” nonché le istituzioni accademiche “Università”.

In quel contesto storico-culturale-sociale, tuttavia, era stata chiaramente palesata la “ratio legis” risalente all’epoca. Infatti nel richiamare l’esposizione del simbolo cristiano e nel collocare il crocifisso accanto al ritratto del Re e della bandiera, esso era chiaro segno e richiamo ai valori unificanti della nazione come evidenziato nella sentenza del Consiglio di Stato del 15 febbraio 2006 “Il crocifisso costituisce, infatti, anche un simbolo storico – culturale; esso rappresenta un segno di identificazione nazionale; esso rappresenta, insieme ad altre forme di vita collettiva e di pensiero, uno dei percorsi di formazione del nostro Paese e in genere di gran parte dell’Europa”.

Con il passare degli anni, soprattutto di questi ultimi decenni, però, le dispute si sono fortemente incancrenite, le polemiche inasprite vertevano più che altro a politicizzare e strumentalizzare l’uso del crocefisso. Queste approdarono inevitabilmente nei palazzi di Giustizia e nelle Corti adducendo la violazione dei principi costituzionali di laicità dello Stato, di libertà di religione e di insegnamento e violazione del principio di imparzialità.

I giudici aditi, in veste di giudice del lavoro, tuttavia si sono fin da subito manifestati incompetenti a decidere sulla materia, dato che le poche disposizioni normative, le indicazioni ministeriali (circ. n. 68 del 22 novembre 1922, circ.  n. 2134-1867 del 26 maggio 1926, circ. 367/2527 del 19 ottobre 1967, nota prot. n. 2667 del 3 ottobre 2002) e talora le circolari interne di istituto diramate dai Dirigenti scolastici, non erano vere e proprie leggi dello Stato, ma semplici atti/provvedimenti amministrativi interni alla scuola, la cui competenza spettava ai vari Tribunali Amministrativi Regionali (T.A.R.).

Approfondimento Invero i giudici nel manifestare la propria incompetenza, rinviavano in via incidentale (la questione sollevata) alla Corte Costituzionale per il giudizio di legittimità costituzionale. La Corte Costituzionale, con ordinanza del 15 dicembre 2004, n. 389 ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità, dell’art. 676 del Testo Unico D.lgs. 16 aprile 1994 n. 297, relativi alla manutenzione e gestione degli edifici scolastici, arredi compresi e dall’art. 119 R.D. 26 aprile 1928 n. 1297, tabella C, e dall’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 in quanto norme regolamentari prive di forza di legge, peraltro presupponendone di fatto la vigenza.

Un primo parere fu quello del Consiglio di Stato espresso nell’aprile del 1988, (parere n. 63 del 27.04.1988), in Adunanza della Sezione II, su espressa richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione in merito al quesito: “Insegnamento della religione cattolica ed esposizione dell’immagine del Crocifisso nelle aule scolastiche”. Il Consiglio di Stato ritenne all’epoca pienamente legittime e tutt’oggi operanti i due citati regi decreti in quanto mantengono la loro validità fino a che non intervenga, nelle more, “un atto o fatto giuridico a valenza abrogativa”.

Si evidenzia che la Sezione ritenne all’epoca di dover sottolineare che: “il Crocifisso o, più semplicemente, la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa”. Per completezza si riporta lo stralcio delle conclusioni: “Conclusivamente, quindi, poiché le disposizioni di cui all’art. 118 del R.D. 30 aprile 1924, n. 965 e quelle di cui all’allegato C del R.D. 26 aprile 1928, n. 1297, concernenti l’esposizione del Crocifisso nelle scuole, […], deve ritenersi che esse siano tuttora legittimamente operanti”.

Successivamente la stessa sezione del Consiglio di Stato (n. sezione 4575/03-2482/04), sempre in Adunanza, ritornò sulla questione sollevata, con parere postumo (n. 556 del 15 febbraio 2006) sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (ai sensi dell’art. 11, secondo comma, D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199), depositato presso il Segretariato Generale in data 03 novembre 2003, proposto dall’UAAR “Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti” dove nel P.M.Q., parte conclusiva delle sentenze, dopo una analisi puntuale del diritto e una lunga e dettagliata esposizione, la sezione espresse parere  negativo con respingimento completo del ricorso, chiarendo che: “le norme recate dall’art. 118 del r. d. 965/24 e dall’art. 119 del r. d. 1297/28 non confliggono affatto con il testo unico e restano dunque in vigore in forza dello stesso art. 676”.

Sulla questione si è anche espressa, recentemente, la Corte di Cassazione civile, Sezioni Unite, con sentenza n. 24414 del 09 settembre 2021.

La suprema Corte, in merito all’impugnazione della sentenza della Corte d’appello di Perugia, sezione lavoro, n. 165/14, ha stabilito definitivamente che, l’affissione sulle mura del crocefisso pur non essendo imposta dalla legge, non può essere ritenuto atto discriminatorio nei confronti di chi non confessa il credo religioso e/o comunque non lo condivide.

Approfondimento I fatti risalgono all’anno scolastico 2008/2009. Un docente di ruolo in materie letterarie venne sottoposto a procedimento disciplinare, con irrogazione della sanzione da parte del Dirigente scolastico. Al docente era stato addebitato la condotta discriminatoria in quanto prima dell’inizio delle sue ore di lezione nella classe rimuoveva temporaneamente ma sistematicamente, il crocifisso dalla parete dell’aula scolastica, per poi riappenderlo successivamente al termine delle sue lezioni, manifestando così il suo pensiero e la chiara disapprovazione ma contravvenendo difatti ad una esplicita circolare diramata del Dirigente scolastico. Quest’ultimo, infatti, aveva accolto la richiesta di affissione del simbolo religioso proveniente dalle studentesse e dagli studenti dell’Istituto riuniti in assemblea.

Nella citata sentenza la Corte ha stabilito che ogni istituzione scolastica autonoma può disporre se esporlo o meno, garantendo tuttavia un equo bilanciamento ovvero “ragionevole accordo” fra le parti in gioco che abbiano posizioni diverse, rispettando in tal modo le diverse sensibilità all’interno della comunità scolastica. (fonte Wikipedia)

Si da menzione come approfondimento di due sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) che sul tema si è espressa a Strasburgo con la sentenza del 03 novembre 2009 “Soile Tuulikki Lautsi v. Italia” accogliendo l’istanza di rimozione in quanto “violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni e del diritto degli alunni alla libertà di religione” e successivamente con sentenza del 18 marzo 2011 respingendo la richiesta: “nulla prova l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo religioso sui muri delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni; non è quindi ragionevolmente possibile affermare che essa ha o no un effetto su persone giovani le cui convinzioni sono in fase di formazione”. (fonte Wikipedia)

Va anche data menzione della Legge n. 121 del 1985 rubricata in “Ratifica ed esecuzione dell’accordo con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modifiche al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede” pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 85 del 10 aprile 1985 – Suppl. Ordinario, dispone all’articolo 9 che: “La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i princìpi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”, che i principi e i segni cristiani ovvero il crocefisso “fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”.

In definitiva, la fragilità del quadro normativo, rimanda all’autonoma scelta delle singole istituzioni scolastiche, il cui organo collegiale di governo (Consiglio di Istituto) deve decidere se esporre o meno il crocifisso, dopo aver attentamente e ragionevolmente valutato le sensibilità delle diverse convinzioni dei soggetti interessati.

Si conclude con il richiamo alla recente proposta di Legge (disegno di legge) approdata alla Camera dei Deputati di iniziativa della Lega, al cui art. 3 si prevedono sanzioni pecuniarie per chiunque rimuova o denigri o vilipenda il Crocifisso, fino ad un’ammenda che varia da 500,00 a 1.000,00 Euro.

Riferimenti normativi

REGIO DECRETO 30 aprile 1924, n. 965 “Ordinamento interno delle Giunte e dei Regi istituti di istruzione media”

REGIO DECRETO 26 aprile 1928, n. 1297 “Approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare”

PATTI Lateranensi del 11 febbraio 1929

LEGGE 27 maggio 1929, n. 810 “Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929”

LEGGE 28 luglio 1967, n. 641 “Nuove norme per l’edilizia scolastica e universitaria e piano finanziario dell’intervento per il quinquennio 1967-1971”

LEGGE n. 121 del 1985 rubricata in “Ratifica ed esecuzione dell’accordo con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modifiche al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede”

DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 24 novembre 1971, n. 1199 “Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi”

DECRETO LEGISLATIVO 16 aprile 1994 n. 297, “Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado”, art. 676

CONSIGLIO di STATO del 27 aprile 1988, parere n. 63 “Insegnamento della religione cattolica ed esposizione dell’immagine del Crocifisso nelle aule scolastiche”

CONSIGLIO di STATO con sentenza del 15 febbraio 2006

CORTE COSTITUZIONALE, ordinanza del 15 dicembre 2004, n. 389

CORTE DI CASSAZIONE civile, Sezioni Unite, sentenza n. 24414 del 09 settembre 2021

CORTE Europea dei Diritti dell’Uomo sentenza del 03 novembre 2009 “Lautsi v. Italia” ricorso no. 30814/06

CORTE Europea dei Diritti dell’Uomo sentenza 18 marzo 2011

CIRCOLARE del Ministero della Pubblica Istruzione, n. 68 del 22 novembre 1922

CIRCOLARE del Ministero della Pubblica Istruzione n. 2134-1867 del 26 maggio 1926

CIRCOLARE del Ministero della Pubblica Istruzione, n. 367/2527 del 19 ottobre 1967 “Edilizia e arredamento di scuole dell’obbligo”

NOTA del Ministero dell’Istruzione del 3 ottobre 2002, Prot. n. 2667 “Esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche”

DIRETTIVA MIUR 3 ottobre 2002, prot. n. 2666

PARERE Avvocatura dello Stato di Bologna del 16 luglio 2002

Sitografia