Stamattina ho deciso di fermarmi ad aspettare. Eccolo. Il Suv bianco accosta, il guidatore in giacca a cravatta fa un cenno di saluto con il capo mentre si sente una telefonata di sottofondo e tu scendi con lo zaino appoggiato su una spalla. Capelli lisci, a metà schiena, jeans, felpa, scarpe da ginnastica. Non capisco se ricambi il saluto. Ti vedo mescolarti alle decine di ragazzi e ragazze che singolarmente o a piccoli gruppi si avviano verso l’ingresso dell’istituto. Per un po’ sparisci, poi ricompari una cinquantina di metri più avanti zigzagando tra le auto di madri e padri impazienti di andare al lavoro o tornare ai loro affari e prosegui con sicurezza oltre quel formicaio. So dove andrai, anche oggi. Il tempo lo permette e anche oggi lo passerai sull’altalena. Quella del parchetto. Come giovedì scorso. E come il martedì della settimana precedente. E come la settimana prima ancora.

Oggi però, cara ragazza, non starai sola tutta la mattina perché ho deciso di non farmi gli affari miei. Non mi è difficile trovare un argomento di conversazione con un’adolescente che ha la prospettiva di passare 6 ore sola sul seggiolino di un’altalena in una calda giornata di ottobre. E che, ne sono certa, non vorrebbe essere lì. Io sto con gli adolescenti tutti i giorni, tutto il giorno. Soprattutto, non ho dimenticato come ci si sente da adolescenti. Nella luce e nel buio. Penso che quel periodo della mia vita sia stato per me così emotivamente complicato che è impresso nella mia mente come se fosse ieri.

Pertanto, non mi è difficile scoprire che non stai “tagliando” il compito di matematica o la versione di latino, ma proprio la scuola. Mi spieghi che al pomeriggio fai compiti, studi e ogni mattina ti alzi con l’idea di entrare e poi… poi non ce la fai. “Mi viene la nausea al pensiero di entrare lì dentro. Anche se non so perché”. Mi confessi.  Il seggiolino dell’altalena ti aspetta e ti attira come una calamita. Mi dici anche che lì le ore passano così veloci che non ti viene neppure voglia di guardare il cellulare. Mentre sei lì seduta, il mondo va avanti e ti trascina con sé per poi scaricarti alle due del pomeriggio, quando il Suv ripasserà a prenderti al semaforo. “Hai provato a parlarne con i tuoi genitori? Con gli insegnanti?”. “Con gli insegnanti, no. Ho fatto moltissime assenze finora, ma nessuno mi ha chiesto qualcosa. Manco si ricordano come mi chiamo. Sono al primo anno di liceo e forse sono abituati a quelli che vanno a singhiozzo per poi mollare e non se ne preoccupano. Ai miei genitori ho detto che non sono andata a scuola qualche volta. Ho detto che non ce la facevo ad entrare e mia madre mi ha detto che lei non ha la nausea alla mattina quando deve entrare in ufficio, ma che le viene proprio da vomitare. Ma che se lo fa piacere, come papà si fa piacere il suo capo che lo chiama tutte le mattine alle 7,45 mentre mi porta a scuola. Prima mi abituo, meglio è”.

Mi guardi con un mezzo sorriso, indecifrabile.

“E per le giustifiche?” “Mi hanno dato la password del registro elettronico perché, come dice mia madre, ci manca ancora che devo gestire anche quello”.

Sto in silenzio. Mi guardo intorno e il mondo va avanti trascinando con sé anche me. Non so a che ora avrà intenzione di scaricarmi e per un po’ mi lascio trasportare nella nebbia dei pensieri, dei dubbi, delle domande, delle paure. Devo scendere da questa giostra, mi dico. E devo far scendere anche te, in qualche modo. Anche se andare avanti e indietro dà sicurezza. Si torna sempre da dove si è venuti. É forse la stessa sicurezza che hanno trovato i tuoi insegnanti che si sono abituati alla frequenza a singhiozzo di alcuni primini o i tuoi genitori che si sono abituati alla telefonata delle 7,45 o al vomito prima della porta dell’ufficio.

Tu però meriti di più. Voi tutti meritate di più. Di più di un seggiolino di un’altalena.

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