“Al di là della scuola del merito c’è la scuola della relazione e dell’impegno”. L’INTERVISTA
A qualche giorno di distanza dalla notizia del cambio del nome al Ministero della Pubblica Istruzione con l’inserimento della parola MERITO e in occasione della Giornata Mondiale della Gentilezza ho individuato nel dott. Francesco Babbini – psicoterapeuta Cognitivo Costruttivista che da anni si interessa di apprendimento e si occupa di prevenzione al bullismo – chi poteva chiarirmi profondi dubbi sul senso del “fare scuola”. Ne è emersa un’intervista ricca di spunti di riflessione e di approfondimento per me illuminante che potete leggere a seguire.
La pandemia ha segnato profondamente tutte le relazioni, quelle tra adulti e quelle tra adulti e bambini: quanto pensi che sia importante per un alunno il rapporto con il proprio insegnante per migliorare la qualità della propria vita e del proprio apprendimento e come fare per rendere questo rapporto positivo?
A mio parere, avere una buona relazione con gli insegnanti è un prerequisito essenziale perché l’alunno possa apprendere figuriamoci quanto questo possa impattare in termini di qualità di vita. Questo lo dico soprattutto pensando ai più piccoli e quelli in cui il linguaggio non aveva raggiunto una complessità tale da poter compensare le restrizioni relazioni a cui la pandemia ci aveva costretto.
Humberto Mauturana, che con Francisco Varela ha scritto due libri fondamentali ma anche introvabili oggi (L’albero della conoscenza” e “Autopoiesi e cognizione”), riteneva che la comunicazione non fosse un semplice passaggio dell’informazione da un soggetto ad un altro ma un processo di condivisione e di co-costruzione di significato possibile solo quando tra le persone si è creata una relazione e una cultura/linguaggio condiviso.
Detto questo, non conoscendo la ricetta generale che favorisce la creazione di rapporti positivi tra insegnante e alunni, mi limiterò a citare quelli che ritengo essere i suoi ingredienti principali.
- Il primo è quello di considerare gli alunni, anche quando molto piccoli, come esseri attivamente impegnati nel processo di conoscenza. Quello della conoscenza infatti non può che essere un processo attivo in cui le nuove informazioni vengono filtrate per essere poi “semplicemente” assimilate o integrate attraverso un processo di accomodamento (risistemazione) di quelle già assimilate (Piaget , L’epistemologia Genetica)
Proprio per questo si potrebbe anche sostenere che la misura dell’apprendimento non può essere mai direttamente riconducibile alla mera attività dell’insegnante.
- Il secondo ingrediente è provare a coltivare una sorta di curiosità verso le diverse modalità di apprendimento degli alunni.
Riconoscere e rispettare le peculiarità degli alunni può aiutare anche a bilanciare il concorso di responsabilità, alleggerendo in parte il carico di responsabilità degli insegnanti e, forse, aumentare la consapevolezza degli studenti e quindi anche la loro autostima.
- Il terzo ingrediente principale credo infine sia la fiducia. Qui mi devo anche confessare. Purtroppo, o per fortuna, non sono stato un ottimo studente ma, della mia storia scolastica, ricordo abbastanza bene la differenza di atteggiamento di chi mi criticava con l’intenzione di stimolarmi e di chi invece mi criticava solo per categorizzarmi come ragazzo svogliato e poco dotato.
Maturana diceva che “L’amore ci dà la possibilità di condividere la vita e il piacere di vivere esperienze con altre persone. Questa dinamica relazionale è all’origine della vita umana e ha determinato l’emergere del linguaggio, responsabile dei legami della comunicazione e che include azioni, emozioni e sentimenti “.
Per ridurre il pathos potremmo qui declinare l’amore al concetto di accettazione, dove accettare significa comprendere e rispettare l’altro per creare un clima di fiducia e distensione che faciliti la comunicazione e quindi anche l’apprendimento.
Ormai si è sempre più consapevoli del pericolo della classificazione e delle etichettea scuola, il rischio di etichettare anche se in buona fede è costante e ci porta ad attenzionare più ciò che non funziona e i limiti di un alunno. Quali secondo te etichette in cui è più facile incappare e come evitarle?
Io credo che le etichette più pericolose oggi nelle scuole siano quelle relative ai disturbi dell’apprendimento.
Professionalmente ammetto di non essermi mai troppo avvicinato a questo campo di studi, che sicuramente è stato di utilità per molti ragazzi che faticano ad integrarsi ad un programma didattico forse troppo incalzante.
Il mio rapporto professionale con la scuola è più legato alle dinamiche relazionali tra studenti, insegnanti e genitori soprattutto declinate nei progetti di prevenzione del bullismo.
In queste mie esperienze ho potuto conoscere molti studenti inizialmente molto inibiti dall’etichetta ricevuta che mi chiedevano: “posso scrivere anche io?”.
Ragazzi molti intelligenti e con pensieri spesso complessi ma soprattutto mediamente molto originali ed innovativi che neppure gli errori grammaticali riscontranti ne riducevano il senso.
Non penso che le categorie siano da bandire in assoluto, anzi in un mondo complesso probabilmente possono aiutare a non sentirsi persi. Penso tuttavia che sia molto probabile che sentirsi categorizzati possa non essere piacevole, eccessivamente stabilizzante (rischia di rallentare il processo di apprendimento) e deresponsabilizzante (sono fatto così, non ci posso fare niente!).
Da qualche parte ho letto che pure Albert Einstein, stando a informazioni sulla sua scrittura e sulla forma di pensiero immaginativa, oggi sarebbe probabilmente rientrato nella categoria dei dislessici e disortografici. Mi sono chiesto che effetto avrebbe avuto su di lui una tale diagnosi. Non potendo avere risposta resterò col dubbio che, prima di ricorrere all’etichetta quantitative di “disturbo dell’apprendimento”, possa risultare maggiormente utile utilizzarne di qualitative e proposizionali tipo “percorsi di apprendimento”.
Mi rendo conto tuttavia che con tutti i problemi che la scuola sta attraversando, tra classi pollaio, problemi di organico e precariato, questo comporterebbe un cambio di paradigma metodologico che l’istituzione non sarebbe in grado di affrontare se non scaricandola sulle spalle già troppo cariche degli insegnanti.
E per quanto riguarda l’insegnamento-apprendimento della matematica?
Sulla matematica secondo me è un problema di pregiudizio piuttosto che di categorie. Tante volte ho sentito dire che gli studenti più bravi in matematica sono maschi e se asiatici ancora meglio.
Non so se effettivamente siano state riscontrate delle differenze strutturali e/o funzionali a livello della corteccia cerebrale o di tipo culturale ma vero il rischio, in questo caso, credo sia “solo” la profezia che si autoavvera.
Personalmente, se effettivamente si dovesse numericamente riscontrare una differenza di genere o di cultura, mi chiederei più con quali altre modalità di insegnamento le differenze potrebbero ridursi.
Oggi la matematica è ancora troppo spesso collegata alla razionalità e alla concretezza e troppo poco alla logica e alla creatività. Considerato che il mondo in cui viviamo è invece guidato dall’economia, dall’informatica e dalla statistica, quindi dai numeri, sarebbe utile che il contributo arrivasse da quante più persone possibili.
Ultimamente il cambio di nome che ha riguardato il Ministero dell’Istruzione ha generato un enorme dibattito e tantissime proteste da parte degli insegnanti per la presenza della parola MERITO. Tu cosa ne pensi? Quali i rischi di una “SCUOLA DEL MERITO”?
Su questa domanda devo ammettere di fare fatica a non avvertire un po’ di irritazione.
Io credo, o spero, sia stata solo una scelta politica per acquisire consenso in un paese che ha sempre avuto problemi a riconoscere e valorizzare i meritevoli.
Tuttavia, letto così, il merito sembrerebbe applicabile sia agli studenti che agli insegnati/lavoratori.
Nel caso degli studenti io direi che l’etichetta merito sia totalmente inappropriata rispetto alla funzione che ho sempre attribuito alla scuola e che Enrico Galiano ha riassunto così: ”la scuola non è il posto dove si premiano i migliori: è quello dove si va a tirare fuori il meglio da ciascuno studente e studentessa…”
Avere un ottimo rendimento scolastico sicuramente è un comportamento da valorizzare, di cui andare fieri ma col termine “merito” si rischia di dividere gli studenti in serie B e studenti di serie A.
Il percorso di apprendimento dei bambini/ragazzi spesso non è costante e categorizzare il merito troppo frettolosamente o troppo superficialmente rischierebbe, a mio parere, di allontanare dalla scuola proprio i ragazzi che avrebbero più bisogno di essere avvicinati.
Questa che pure potrebbe sembrare un polemica secondo me è una questione sostanziale che poteva essere evitata rimandando a valori diversi come l’impegno la partecipazione perché non avrebbe rischiato di intaccare la fiducia degli studenti che più avrebbero bisogno di trovarla.
Sempre parlando di merito, quali sono le caratteristiche di un insegnante “meritevole”? Cosa fa di un insegnante un buon insegnante?
Questa è una domanda alla quale mi piacerebbe davvero dare una risposta anche perché, troppo spesso, gli insegnanti diventano il parafulmine di un sistema che negli ultimi anni anziché essere riformato è stato forse solo rattoppato.
Si dice che l’insegnante, per fare il proprio lavoro, debba essere capace di sedurre, catturare l’attenzione dei ragazzi, rinvigorire la loro voglia di conoscenza aiutandoli nel compito di dare senso alle proprie esperienze.
Messa così sembra che il prerequisito di un insegnante sia quello di essere un semidio!
Seppure come ideale (il saggio maestro) piaccia molto anche a me ritengo che qui non più che di merito quanto più si debba parlare di eccellenza.
L’insegnante è sicuramente una professione complessa e di estrema responsabilità ma resta pur sempre un lavoro fatto da persone che per essere definite meritevoli non devono e non possono essere necessariamente accostate a delle figure mitologiche.
Allontanandosi da questa strada tuttavia il rischio sembra diventare quello opposto: cercare dei parametri puramente quantitativi che misurano esclusivamente il rendimento degli alunni magari attraverso degli appositi test.
Un’eccessiva semplificazione del lavoro che un insegnante svolge e che non tiene di conto di troppe variabili.
Io dico che prima di stabilire quali siano le caratteristiche di un insegnante meritevole bisognerebbe stabilire quale sia la funzione principale a cui è chiamata la scuola. Una distinzione non di poco conto. Per esempio potremmo pensare che il principale obiettivo della scuola sia quello di preparare i ragazzi a competere nel mondo del lavoro. Oppure pensare che la scuola abbia un obiettivo più sociale: contribuire alla formazione di una futura società più equa, consapevole e quindi adattabile ai contesti sociali in continui mutamenti.
Due obiettivi anche in contraddizione tra loro.
– Infine, tornando alla parola iniziale RELAZIONE, come dovrebbe essere una relazione ottimale anche tra l’insegnante e il proprio dirigente scolastico?
Io mi sono formato come terapeuta costruttivista, una teoria sviluppata in psicologia da George Kelly. Secondo questo approccio le persone sono continuamente impegnate in una relazione duale con l’ambiente circostante: conoscono il mondo mentre conoscono sé stesse. Questo implica che tanto meno chiaro mi è il mondo in cui sono immerso tanto meno chiara sarà l’idea di chi sono e/o cosa mi sta accadendo.
Viceversa tanto più chiaramente la persona è in grado di definire sé stessa tanto più definito sarà il mondo esterno.
Ne va di conseguenza che avere una maggiore chiarezza del contesto può aiutare a programmare le nostre azioni anticipandone gli effetti sul contesto.
Senza addentrarmi troppo, col rischio di complicare la faccenda, io penso che sia fondamentale per un insegnante avere una relazione sincera col dirigente scolastico. Una relazione che minimizzi il più possibile le ambiguità e che possa chiarire il ruolo che si è chiamati a ricoprire. Definire i ruoli a mio parere è il prerequisito per creare un rapporto di fiducia. Sentire che l’altro comprende e rispetta quello che sono può aiutare a concentrare la nostra attenzione su quello che faccio per cercare di farlo al meglio mettendo in discussione sé stessi solo in minima parte e solo se necessario.
Chi è il dott. Francesco Babbini?
Il Dott. Babbini si è laureato in Psicologia presso l’Università degli Studi di Firenze nel 2003 con una tesi di ricerca sperimentale sui processi di apprendimento e memoria.
Si è specializzato in Psicoterapia nel 2011presso il CESIPc (Centro Studi in Psicoterapia Cognitivo Costruttivista) di Firenze.
Nel Campo della ricerca ha maturato la sua esperienza al CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) di Pisa, dipartimento di Neurobiologia (2002-2003). Lo studio ricercava evidenze sul ruolo che le influenze ambientali e i processi neurobiologici svolgono sui processi cognitivi di Apprendimento e Memoria.
Il Dott. Babbini opera come libero professionista nella provincia di Firenze dal 2012, e dal 2020 anche nella provincia di Prato. Come formatore ha tenuto diversi seminari nel campo della comunicazione e sul tema della conoscenza di sé dal 2015 al 2017. Sempre dal 2019 è coordinatore in Toscana del progetto di prevenzione al bullismo “Stop Bullyng 2.0” e poi di “Crescere Insieme” promosso ed organizzato da Sipea in collaborazione con Csen.
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