Un riesame del passato

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All’inizio del IX libro delle sue Storie, Tito Livio racconta l’episodio culminante delle guerre sannitiche, quando nel 321 a.C. i due eserciti romani furono attratti nell’imboscata delle Forche Caudine e fatti prigionieri. Allora i capi sanniti decisero di chiedere consiglio a Ponzio Erennio, padre del loro comandante, su come comportarsi con i prigionieri, ed il vecchio consigliò loro di lasciarli andare tutti liberi, senza torcere loro un capello; ma poiché questa soluzione non fu gradita perché sembrava troppo clemente, lo stesso messaggero fu mandato di nuovo da Erennio perché indicasse un’altra soluzione, e questa volta l’anziano saggio suggerì di uccidere tutti i Romani. Davanti a due risposte così discordanti, il figlio pensò che suo padre fosse rimbambito per la vecchiaia; ma Erennio, portato in assemblea, spiegò chiaramente le sue soluzioni: con la prima i Romani sarebbero stati riconoscenti e si sarebbero gettate le basi per un trattato di pace ed amicizia, con la seconda sarebbero stati indeboliti a tal punto che per molti anni non sarebbero stati in grado di riaversi dalla disfatta e di rinnovare la guerra. Ma le proposte del vecchio furono entrambe rifiutate, ed i Romani furono costretti a passare sotto il giogo: un’umiliazione questa che accese gli animi di odio e fece sì che la guerra continuasse fino alla completa sconfitta e sottomissione dei Sanniti.

L’episodio di storia romana mi è tornato in mente in questi giorni, quando ho seguito in TV la miniserie “Esterno notte”, dedicata al più buio episodio della storia della Repubblica italiana, il rapimento di Aldo Moro ed il massacro dei cinque uomini della sua scorta, il 16 marzo del 1978. All’episodio seguì un periodo di 55 giorni in cui Moro fu tenuto rinchiuso in un covo delle Brigate Rosse detto “prigione del popolo”, fino ad essere ucciso il 9 maggio dello stesso anno. I terroristi avevano chiesto di trattare con lo Stato barattando la liberazione dello statista con quella di alcuni brigatisti incarcerati, ma gli uomini allora al potere, ed in particolare i capi della Democrazia Cristiana, non vollero trattare perché ciò avrebbe significato un implicito riconoscimento del gruppo terroristico ed una irreparabile sconfitta dello Stato. Così Moro andò incontro alla morte, della quale, come insinua il programma televisivo suddetto, non tutti sembravano essere scontenti; anzi, essendo stato Moro un fautore del cosiddetto “compromesso storico” tra la DC ed il PCI (che aveva superato nelle elezioni del 1976 il 34 per cento dei voti) qualcuno, al di qua e al di là dell’Atlantico, pareva auspicare la scomparsa di colui che avrebbe voluto far partecipare i comunisti alla gestione dello Stato. Le insinuazioni su un’eventuale responsabilità degli Stati Uniti nel rapimento Moro furono poi smentite e non se ne trovò mai alcuna prova; ma è comunque vero che la DC non fece tutto ciò che era in suo potere perché l’ostaggio fosse liberato, come dimostra l’indignazione della famiglia dello statista (e della moglie Eleonora in particolare), che rifiutò persino i funerali di Stato in segno di protesta.

Io ebbi modo di seguire direttamente la vicenda, perché nel 1978 avevo 24 anni, ero appena laureato e seguivo con continuità quel che accadeva in quei terribili “anni di piombo”, dove gli attentati e gli omicidi a scopo politico avvenivano molto di frequente. Era il periodo in cui il terrorismo, rosso e nero, si era sviluppato a tal punto da rendere possibile un delitto come quello di Moro e degli uomini della sua scorta. Da tempo, leggendo i giornali e guardando la TV, io avevo l’impressione che lo Stato fosse troppo debole con gli estremisti ed i terroristi, in sostanza lasciati liberi di agire: nelle università spadroneggiava la sinistra extraparlamentare che occupava le Facoltà, impediva le lezioni e commetteva ogni sorta di violenze (compresi efferati omicidi) contro gli avversari politici, i quali a loro volta reagivano colpendo e persino uccidendo alcuni dell’altra fazione. Vivevamo un clima di guerra civile che oggi sembra lontano, ma che invece a noi che c’eravamo è rimasto ben impresso: e le autorità pubbliche lasciavano che tutto ciò avvenisse senza mai adottare delle leggi speciali che la situazione avrebbe richiesto, tanto che i violenti e i terroristi, anche quando venivano arrestati, trovavano la comprensione, se non la connivenza, di parte della stampa, della politica e della magistratura, e se la cavavano con pene irrisorie. Era tollerata soprattutto la violenza di sinistra, in virtù di una presenza massiccia di professori universitari e di magistrati indottrinati alle teorie marxiste allora tanto di moda.

Questa debolezza dello Stato rese possibile il delitto Moro, con il quale le coscienze si risvegliarono, ma era ormai troppo tardi. Di tutti i partiti del cosiddetto “arco costituzionale” soltanto uno, il PRI (partito repubblicano) fece una proposta discordante con la maggioranza, ovviamente subito scartata: quella di rimettere in vigore il codice militare di guerra, che prevedeva anche il ripristino della pena di morte. La proposta era pienamente motivata, perché se i brigatisti avevano dichiarato guerra allo Stato, lo Stato aveva il pieno diritto di rispondere con la stessa moneta; e mi ricordo che io non solo approvai quella proposta, ma pensai che l’avrei applicata in un modo particolare, ossia rispondendo al ricatto delle Brigate Rosse con un altro ricatto, quello di giustiziare ogni giorno un brigatista prigioniero fino a quando Aldo Moro non fosse stato liberato. Ho sempre pensato infatti (e lo penso ancora) che alla violenza terroristica non si possa rispondere con gli appelli e l’indulgenza, perché chi comprende solo il linguaggio delle armi e del terrore si ferma solo se con lui viene applicato lo stesso linguaggio. Se qualcuno vuole spararti ti puoi salvare solo sparandogli per primo: questo dimostra la storia, e ciascun regime politico fino alla seconda guerra mondiale non avrebbe esitato ad applicare queste misure, anche nelle nazioni cosiddette “democratiche” (vedi gli Stati Uniti d’America).

Questa sarebbe stata la seconda proposta fatta da Erennio ai Sanniti, quella cioè di annientare il nemico, cosa che a mio parere sarebbe stata del tutto legittima da parte dello stato italiano attaccato dalle Brigate Rosse. Se tuttavia ci fosse stata la volontà sincera di liberare Aldo Moro, la DC avrebbe potuto seguire – in quella specifica fattispecie – la prima proposta del vecchio sannita, trattando con i terroristi e liberando i brigatisti prigionieri. Questa soluzione, che ripugna a chi ha il senso dello Stato, avrebbe però consentito di risolvere il problema momentaneo della prigionia dello statista, o almeno sarebbe stato un tentativo ammirevole in tal senso; invece la soluzione che fu adottata, quella di non trattare e di non tentare ogni mezzo a disposizione per trovare il covo dei terroristi, fu la peggiore in assoluto, perché portò alla morte di Moro ed alla completa sconfitta di una classe politica vigliacca e indolente, che non ebbe il coraggio di combattere e si chiuse nei palazzi lasciando l’ostaggio al suo destino.

Cosa accadde dopo? I democristiani ed i loro successori si vantarono ridicolmente di avere sconfitto il terrorismo; invece io sono convinto che la stagione terroristica finì perché implose dall’interno, nel senso che quelle persone e quei gruppi si resero conto dell’inutilità della loro lotta e dell’impossibilità di attuare una rivoluzione in poche decine (o al massimo centinaia) quali erano. Il regime democratico non ha mai combattuto veramente il terrorismo, quindi non si può vantare di averlo vinto: e questo risulta evidente anche da quello che è accaduto dopo, quando gli assassini sono stati finalmente arrestati. Cosa avrebbe dovuto fare di loro uno Stato forte, che voglia chiamarsi tale? Come anche Platone c’insegna, i delitti contro lo Stato sono i più gravi che qualcuno possa commettere, perché lo Stato siamo tutti noi: quindi, quando i brigatisti trucidarono i cinque agenti della scorta e poi lo stesso Moro, è come se avessero ucciso tutti noi. In nessun modo avrebbero dovuto ottenere clemenza, perché i loro delitti erano atroci e imperdonabili: se non si voleva ripristinare la pena di morte, che sarebbe stata sacrosanta per assassini di quella specie, si sarebbe almeno dovuto condannarli al carcere duro a vita, farli marcire per sempre in una cella di due metri per tre a pane e acqua, in modo che pagassero veramente le loro colpe e terminassero così loro vita sciagurata. Invece cosa fu fatto? Furono condannati a pene molto più leggere di quelle che avrebbero meritato e dopo pochi anni, in virtù di leggi assurde come quella sui cosiddetti “collaboratori di giustizia” costoro, fingendo un pentimento o una dissociazione, sono di fatto usciti di galera molto prima di altre persone molto meno efferate e colpevoli di loro. Oggi sono tutti in libertà, la società li ha riaccolti come se belve simili potessero redimersi, lavorano, hanno anche profili social e vivono tranquillamente in barba alle famiglie di coloro che hanno ammazzato, e alcuni sono stati persino chiamati a fare lezioni all’università e sono stati intervistati dai giornali come fossero eroi.

Di fronte a scempi come questo viene da chiedersi se la democrazia sia veramente il miglior regime possibile, visto che la nostra si è vilmente arresa ai terroristi e non è stata capace di compiere l’unico gesto degno di uno stato forte, quello di eliminare fisicamente i propri nemici, o almeno farli sparire per sempre dalla vista delle persone oneste. Se democrazia significa debolezza, viltà, meschinità di chi si lascia colpire così gravemente senza avere l’animo di reagire, allora non ho timore di affermare che forse sarebbe preferibile qualcosa di diverso.

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