Il furor del Conte Ugolino
Il dramma di un padre amoroso che soffre per le sofferenze dei figli. Il furor del Conte Ugolino.
Dedico questo saggio
a Pier Francesco Savona
alunno di ieri
dal quale oggi apprendo
Il testo
Inferno, XXXII, 124-139; 1-91:
Bocca degli Abati, “malvagio traditor”, si ostina nel rifiuto di dire il suo nome a Dante, benché questi lo abbia preso per la collottola, cominciando a strappargli ciocche di capelli e minacciando di strapparglieli tutti. Un altro dannato, udendo le urla di Bocca simili a latrati, gli si rivolge svelandone il nome. A questo punto Bocca, che ormai potrà essere svergognato da Dante una volta ritornato sulla Terra, si vendica nominando diversi altri traditori affinché siano svergognati anch’essi. Dopo di che Dante e Virgilio si allontanano da “ello”. I versi
Di consueto in Ugolino si vede raffigurato il dramma di un padre amoroso che soffre per le sofferenze dei figli.
Dramma al quale il lettore si sente spinto a partecipare fino a porre in oblio il peccato di tradimento che l’anima dannata sconta con l’eterna condanna. Viene sentito come solo traditore l’Arcivescovo Ruggieri, l’anima dannata sul quale l’odio di Ugolino è destinato a sfogarsi in eterno senza appagamento, come se esercitasse una vendetta divina nel momento stesso in cui sconta così la sua pena. Come vedremo, Dante qui ripropone in termini sconvolgenti il problema della giustizia, uno dei grandi temi della sua opera, se non il più grande, perché è il tema della giustizia in politica.
Sembra che Dante personaggio partecipi al dolore di Ugolino con una sorta di simpatia.
Eppure può essere ipotizzata una diversa lettura dell’episodio, tenendo presente quanto Vittorio Russo argomenta circa l’uso dantesco del termine “dolore”. Nella psicologia morale del cristianesimo, quale essa risulta da una serie di fonti fra cui spicca ovviamente la Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, il dolore è passione negativa che s’identifica con la cattiva ira, quella “ira mala” da cui sono esenti i “pacifici” (Purgatorio, XVII, 68-69) e che è “dolor … cum appetitu vindictae”. Nel segnalare i nuovi riscontri linguistici, Enrico Malato non ritiene di poter accettare del tutto la nuova interpretazione che ne consegue.
Mette infatti a confronto i passi seguenti:
“Infandum, regina, iubes renovare dolorem” (Eneide, II, 3)
“Nessun maggior dolore – che ricordarsi del tempo felice – nella miseria” (Inferno, V, 121-123)
“Tu vuo’ ch’io rinovelli – disperato dolor che ‘l cor mi preme” (Inferno, XXXIII, 4-5)
In chiave cristiano-medioevale il dolore di Ugolino è da considerare inseparabile dall’adirata bramosia di vendicarsi. Invece per Enrico Malato alla luce dei passi sopra citati il termine “dolore” nell’episodio deve continuare ad essere inteso nel senso per noi più comune.
Eppure si può andare ancora oltre e formulare l’ipotesi che Dante abbia voluto raffigurare in Ugolino una simbiosi di dolore e furore degenerata in vera e propria follia.
Per collaudare questa proposta di lettura, conviene innanzitutto andare oltre il ritaglio antologico dei versi dedicati a Ugolino, immergendosi nei canti che lo precedono e rievocando l’atmosfera di degrado in cui esso si colloca. Degrado che investe anche la figura di Ugolino in quanto traditore, sebbene la critica di ascendenza romantica inaugurata da Ugo Foscolo lo faccia risaltare come uomo piuttosto che come dannato, quasi che le estreme sofferenze patite facessero sbiadire la sua condizione di peccatore.
Nel cerchio ottavo, decima bolgia, la rabbia dei falsari di persone si fa furore.
Degenera in follia. Lo preannunciano esempi tratti dal mito. Giunone si vendica di Atamante rendendolo così “insano” da fargli tendere le reti per catturare la moglie e i due figli nelle sembianze di leonessa e leoncini, sbattendone mortalmente uno contro un macigno e spingendo la madre a precipitarsi in mare con l’altro (Inferno, XXX, 1-12). Ecuba, “trista, misera e cattiva” per la caduta di Troia, “dolorosa” per aver visto morta Polissena e morto Polidoro sulla riva del mare, divenne “forsennata” al punto che “latrò sì come cane” per il “dolor” che le rese “la mente torta” (Inferno, XXX, 13-21). Si noti come qui l’uscire fuor di senno comporti il degrado nella bestialità e come il dolore nel senso di rabbiosa e furibonda ira sia causa di follia.
Dopo che nel canto XXXI è avvenuto l’incontro coi giganti e ha avuto luogo la discesa nel nono cerchio, nel canto successivo si vede derivare dal fiume di Cocito un lago ghiacciato ove sono confitti nella prima zona o Caina i traditori dei congiunti (Inferno, XXXII, 1-69), nella seconda zona o Antenora i traditori politici (Inferno, XXXII, 70-139; XXXIII, 1-90), nella terza zona o Tolomea i traditori degli ospiti (Inferno, XXXIII, 91-157), nella quarta zona o Giudecca i traditori dei benefattori fra cui Giuda traditore di Cristo e Bruto e Cassio traditori di Cesare, maciullati nelle tre bocche di Lucifero, in quella centrale Giuda, in quelle laterali Bruto e Cassio (Inferno, XXXIV, 1-69). Queste anime vengono trattate come degne di estremo sdegno quali esponenti di un’umanità degradata.
L’incontro con i traditori politici, fra i quali Ugolino, si colloca in questo clima di perversione suprema, al punto che Dante stesso si adira contro un dannato.
Dopo averlo percosso accidentalmente nel viso col piede, diventa violento contro di lui che si ostina nel non volergli rivelare la sua identità: lo prende “per la cuticagna”, lo minaccia di strappargli tutti i capelli, glieli serra fra le mani e comincia a staccargliene “più d’una ciocca”, fermandosi solo quando un altro dannato gli svela che il “malvagio traditor” è Bocca degli Abati, il quale poi per vendicarsi gli fa i nomi di diversi altri traditori politici (Inferno, XXXII, 73-123).
Dopo l’alterco con Bocca degli Abati, Dante vede “due ghiacciati in una buca – sì che l’un capo a l’altro era cappello”. Trovandosi di fronte al dannato che fa da cappello e rode il cranio dell’altro “come ’l pan per fame si manduca”, nel vedere che sfoga un suo odio con quel “bestial segno”, gli chiede chi egli sia (Inferno, XXXII, 124-139):
Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.
“O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi ’l perché”, diss’io, “per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch’io parlo non si secca”.
Il “bestial segno” indica come in quel traditore si manifesti la “matta bestialitade” di cui al canto XI dell’Inferno, ove Dante si ricollega alla φηριότης che Aristotele nell’Etica Nicomachea annovera fra i mali morali, così come tremendo male morale è in Tommaso d’Aquino la bestialitas. Ed è da notare che per Giovanni Boccaccio la bestialità è matta in se stessa, ovvero coincide con la follia. All’inizio del canto XXXIII la bestialità di Ugolino viene ribadita con l’espressione “fiero pasto”, che equivale allo sbranare ferinamente una preda. Il “dolor” è associato alla ferocia derivante dall’ira, ovvero a un furor rabbioso destinato a durare in eterno nel rodere il teschio dell’Arcivescovo Ruggieri, del quale Ugolino si era fidato e che lo aveva tradito (Inferno, XXXIII, 1-9):
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.
Forse Ugolino solleva soltanto la bocca e non drizza il volto sul collo, mentre le lacrime come per gli altri dannati gli si ghiacciano e la voce fuoriesce roca dalla gola.
La tragica vicenda della morte per fame dei prigionieri privati del cibo nella torre carceraria si inserisce fra questi versi e i versi in cui, una volta conclusa la sua narrazione, Ugolino manifesta ancora il suo odio maniacale storcendo lo sguardo e riprendendo a rodere il teschio coi denti paragonati alle zanne di un cane (Inferno, XXXIII, 76-78):
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti.
Si noti la violenza espressiva del verso 78 per il suo ritmo anomalo con quell’accento sulla nona sillaba, che mette in estremo risalto la ferocia del “can”. E si noti anche l’esasperato realismo della scena, in cui le anime sono presentate come se avessero i loro corpi, che riavranno invece soltanto nel dies irae.
Il realismo fa porre in oblio questa circostanza, che Dante metterà in luce nella seconda cantica.
Quando Dante personaggio si accorge che Virgilio non ha corpo, perché non proietta ombra, resta interdetto finché non gli giunge una spiegazione del mistero, spiegazione che rimanda al mistero dell’operato della virtù divina (Purgatorio, III, 31-33):
A sofferir tormenti e caldi e geli
simili corpi la virtù dispone
che come fa non vuol ch’a noi si sveli.
Quale è la reazione di Dante mentre Ugolino narra la tragica vicenda da lui vissuta nel carcere ove ebbe a patire la morte per fame coi quattro figli?
Due dei quali erano in realtà nipoti, divenuti figli nella finzione poetica per accentuare la tragicità della vicenda. Dante, si duole Ugolino, è “crudel”, perché non piange con lui. In realtà Dante, mentre ascolta, sente crescere in sé lo sdegno non tanto per la sorte di Ugolino, in cui continua a vedere il traditore politico, quanto per le sofferenze dei figli. Una volta finita la narrazione della tragedia svoltasi in quel tetro carcere, simile a un inferno sulla Terra, l’indignazione erompe nella tremenda, iperbolica, apocalittica invettiva contro i Pisani, responsabili di avere martoriato degli innocenti. Dunque siamo di fronte all’episodio non tanto della paternità sofferente, quanto dell’innocenza violata (Inferno, XXXIII, 79-90):
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ‘l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
Che se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
e li altri due che ’l canto suso appella.
Innocente Ugolino, in quanto traditore, non lo è, Dante, dopo averlo incitato a parlare all’inizio, non ritiene di dovergli parlare alla fine.
A differenza di come si comporta con Francesca, alla quale si rivolge dicendole “i tuoi martiri – a lacrimar mi fanno tristo e pio” (Inferno, V, 116-117), in questo canto si lascia alle spalle il furor del dannato (Inferno, XXXIII, 91-93) con un “passammo oltre”:
“Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.”
Lascia comunque perplessi quell’invettiva in cui per vendicare quei figliuoli innocenti viene invocata la distruzione di ogni persona in Pisa. Paradossalmente è come se Dante condividesse la furia del dannato. In tutto ciò, laddove Benedetto Croce incredibilmente vede in Ugolino un “giudice dei giudici” che “ferocemente, ferinamente, pur vendica l’umanità”, Teodolinda Barolini ravvisa invece “l’emblema definitivo della politica perversa e dell’umanità fallita”.
La lettura di Francesco De Sanctis ha già in sé gli elementi atti a corroborare la tesi di quel furor di Ugolino che per noi è una manifestazione della follia del dannato: il rodere il teschio è “un atto così fuor dell’umano, così ferino”. Nella ferinità si annida l’irrazionale, la privazione della ragione. È sintomatico il lapsus del De Sanctis che, nel riportare il verso “ambo le man per lo dolor mi morsi”, sostituisce “furor” a “dolor”. L’illustre critico ascolta proveniente da Ugolino “una voce che non sai più se sia d’uomo o di belva” e gli attribuisce “un sentimento di furore canino”, continuando ad associare il “dolore” al “furore”:
“Ma quanto dolore ha prodotto tanto furore!”
Non sfugge al De Sanctis la bestialità di Ugolino:
“Prima che morisse il corpo, morto era l’uomo; sopravviveva la belva, mezza tra l’amore e il furore, i cui ruggiti spaventevoli non sai se esprimano suono di pietà o di rabbia.”
Nella prospettiva del furor di Ugolino può essere riconsiderato il dubbio suscitato dal verso “Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”, con cui il discorso del dannato si conclude. In proposito si sono creati due opposti schieramenti critici, favorevole l’uno, sfavorevole l’altro alla tesi dell’ antropofagia o tecnofagia o cannibalismo di Ugolino.
Fra i sostenitori di quest’ultima annoveriamo proprio il De Sanctis, che non a caso usa il termine “delirio”:
“Forse, mentre la natura spinge i denti nelle misere carni, in quell’ultimo delirio della fame e della vendetta quelle sono le carni del suo nemico […]”
Senonché, se intendiamo il dolore come sentimento legato all’odio verso l’Arcivescovo Ruggieri, è da ritenere che la tesi favorevole sia da escludere. Vero è che Dante disponeva di fonti in cui padri o madri straziavano la carne dei figli, compreso il De bello judaico di Giuseppe Flavio segnalato da Rossana Fenu Barbera in aggiunta alle fonti già note, ma non è detto che un poeta debba sempre riprendere pedissequamente i passi ai quali attinge. Può sembrare che il padre si sia deciso a sfamarsi delle carni dei figli, proprio perché essi stessi gli si erano offerti come cibo. Riconsideriamo però la scena nella parafrasi di Jorge Luis Borges:
“Nel fondo glaciale del nono cerchio, Ugolino rode infinitamente la nuca di Ruggieri degli Ubaldini, e si forbisce la bocca insanguinata coi capelli del reprobo. Solleva la bocca, non il volto, dal feroce pasto, e narra che Ruggieri lo tradì e lo incarcerò coi suoi figli. Dall’angusta finestra della cella vide crescere e decrescere molte lune, fino alla notte in cui sognò che Ruggieri, con mastini affamati, dava la caccia sul fianco di un monte a un lupo e ai suoi lupacchiotti. All’alba sente i colpi del martello che mura l’uscio della torre. Passano un giorno e una notte, in silenzio. Ugolino, spinto dal dolore, si morde le mani; i figli credono lo faccia per fame, e gli offrono la loro carne, da lui stesso generata. Tra il quinto e il sesto giorno li vede morire ad uno ad uno. Poi resta cieco e parla coi suoi morti e piange e li tasta nel buio; poi la fame poté più del dolore.”
William Empson ha mostrato come nella poesia ricorrano diversi tipi di ambiguità, voluta o meno che sia, e come ciò influisca sull’interpretazione, mettendone in forse i limiti. Borges ritiene per l’appunto che Dante abbia fatto volutamente ricorso all’ambiguità, per generare nel lettore nient’altro che il sospetto senza certezza di un Ugolino spinto dalla fame a cibarsi delle carni dei figli:
“Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa ondulante imprecisione, questa incertezza, è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, lo sognò Dante, e così lo sogneranno le generazioni.”
Così l’interpretazione risulta sospinta nella sfera dell’ambiguità. Possiamo però discostarci da Borges. Osserviamo che quel padre, per quanto moribondo per l’inedia, non può essersi indotto a violare le spoglie dei figli innocenti da quel suo furioso dolore: la dolorosa follia lo spingerà a voler fare a brani solo la persona di colui che, avendolo tradito, lo tradì e lo destinò insieme con quegli innocenti allo strazio dell’agonia nel “doloroso carcere”.
Resta aperto il problema destinato a lasciare assai perplesso il lettore.
Si è visto che il De Sanctis intuisce la follia di Ugolino fin quasi a metterla in piena evidenza, mentre Stazio, fonte di Dante per l’episodio in esame, è esplicito e perentorio nel definire amens, ossia fuori di sé, dissennato, forsennato, pazzo, Tideo che rode le tempie di Menalippo (Tebaide, VIII, 751). Ebbene, come si concilia la tesi della follia di Ugolino con la “tecnica lucidamente matematica” ravvisata da Daniele Mattalia nel suo racconto, caratterizzato per giunta secondo Teodolinda Barolini da “estrema astuzia narrativa”?
La risposta è nella definizione di “lucida follia” come “delirio di rivendicazione”.
I rivendicativi possono essere dissennati e offuscati mentalmente e ad un tempo coscienti e lucidi a livello espressivo. Vi è una connessione altalenante fra le due dimore psichiche. Una volta ricevuto un torto, si mostrano tanto precisi nel definirne modalità e circostanze quanto violenti nel volersene vendicare. Così Ugolino, ricevuta la richiesta di interrompere l’iroso, disperato e macabro sfogo della sua follia, con una ben calcolata retorica della realtà vuole coinvolgere chi l’ascolta e renderlo partecipe del suo dramma. Comincia a rievocare la drammatica atmosfera in cui si andò svolgendo la lenta agonia sua e dei suoi figli. Al di fuori della torre carceraria la luna e il sole continuano a scandire il corso del tempo nell’eternità del cosmo. Un sogno premonitore, anzi un incubo profetico, rende inquieto quel padre, che si desta nel cuor della notte e ode i figli chiedere pane nel sonno.
Nell’accorgersi che Dante resta impassibile, lo accusa di insensibilità.
Perché è così crudele? Perché non partecipa al suo disdegno nei confronti di quel traditore insignito della carica arcivescovile? Perché non piange con lui? La porta della torre carceraria viene inchiodata, segno che non sarà più fornito cibo ai prigionieri, condannati alla tortura della morte per inedia. Il padre resta come pietrificato. Ammutolisce. Non riesce più nemmeno a piangere. Piangono i figli. Uno di loro si accorge della stranezza dello sguardo paterno e gliene chiede ragione. Il padre si sforza di trattenere il pianto e continua a tacere.
Giorni e notti trascorrono inesorabili.
Nella prigione tenebrosa filtra un raggio di sole e illumina i volti dei figli simili ormai a quello che deve essere ormai lo stesso aspetto del padre, smunto, emaciato, ansioso, stravolto, atterrito. Dolore per la sua e loro sorte insieme all’anelito di vendetta contro l’arcivescovo lo spingono a mordersi le mani, la destra, la sinistra. I figli credono invece che lo faccia per fame e si offrono come cibo a lui che li aveva generati, riecheggiando Cristo che nella tradizione evangelica si rivolge ai discepoli: “Prendete e mangiate: questo è il mio corpo”. Il padre si sforza di apparire calmo.
Giorni e notti trascorrono inesorabili.
Padre e figli rimangono in silenzio, finché un figlio si getta ai piedi del padre supplicandolo di aiutarlo e in quella supplica muore. Nei giorni successivi uno dopo l’altro muoiono gli altri tre figli. Nel buio del carcere il padre ormai cieco va a tentoni su quegli amati cadaveri, chiamandoli per due giorni ancora, come se potessero udirlo, ma i morti, si sa, non risorgono. Poi muore anch’egli per fame. Il tragico racconto finisce. Finisce anche la lucidità. Irrompe l’irrazionale. Ugolino stravolge gli occhi e rode il teschio coi denti simili alle zanne di un cane feroce, segno di ripresa dell’intento bestiale di sbranare l’ecclesiastico che aveva tradito lui aristocratico. Alla luce dell’opera di Michel Foucault sulla follia diremmo che simili folli qualche tempo dopo sarebbero stati emarginati dalla società.
Non mancano commentatori che vedono in Ugolino uno strumento della giustizia divina.
Invece quella pazza brama di vendetta è una condanna aggiuntiva per il traditore politico che rode il capo del traditore politico. Nell’episodio di Ugolino è insito il monito di Dante ai politici affinché vogliano e sappiano agire con giustizia al cospetto di Dio. Monito che resta fortemente suggestivo anche nella prospettiva di un rapporto fra giustizia e religione non più corrispondente alle odierne teorie del diritto.
Riferimenti
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