L’eterno Ulisse. Prima di Dante, in Dante, dopo Dante

Chi è per noi Ulisse? Ulisse è molto di più dell’eroe astuto: è archetipo ed emblema della condizione umana, è l’eterno Ulisse.

Ulisse

I – Ulisse prima di Dante

Ulisse, leggendario eroe dell’avventura e dell’astuzia, non godeva delle simpatie di Leopardi. Per il Leopardi dello Zibaldone l’ Ὀδυσσεύς omerico, destinato ad essere diversamente ripreso nell’Ulixes latino, è un personaggio “quasi odioso”, che non pare “né giovane né bello”, ideato da un Omero ormai vecchio che vede questo suo eroe come un “perfetto politico”, nel quale i lettori accorti riscontrano un “eccesso di sapienza e senno”. L’Ulisse dell’Odissea, come l’Enea di Virgilio e  il Goffredo del Tasso e a differenza di Achille ed Ettore dell’Iliade,  manca di amabilità:

“Or dunque volgendoci a’ poemi epici veggiamo nell’Odissea che Ulisse, molto stimabile, in molte parti ammirabile e straordinario, in nessuna amabile, benché sventurato per quasi tutto il poema, niente interessa.”

Il giudizio leopardiano, simile a una ingenerosa stroncatura, spinge a chiedersi se il personaggio di Ulisse fosse stato concepito per essere amabile. Italo Calvino ci ricorda in proposito un’osservazione del filologo classico Alfred Heubeck nel suo Commentario all’Odissea: Ulisse, oltre ad essere un “eroe epico” come “paradigma di virtù aristocratiche e militari”, è anche “l’uomo che sopporta le esperienze più dure, le fatiche e il dolore e la solitudine”. Il suo è “un mitico mondo di sogno, ma questo mondo di sogno diviene contemporaneamente l’immagine speculare del mondo reale dove viviamo, nel quale dominano bisogno ed angoscia, terrore e dolore, e nel quale

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Virgilio, ci manchi!

Virgilio, ci manchi!

di Antonietta Cataldi

     Voglio dare voce a tutti i genitori che, dinanzi alla crisi in cui sembrano irrimediabilmente immersi tanti giovani oggi, vengono accusati di immaturità, di giovanilismo, di disattenzione, di incompetenza. Ebbene sì, è colpa nostra ma non è vero che non li guardiamo, che non ci occupiamo di loro. Il fatto è che, quando cerchiamo di parlare, veniamo subito respinti. Non siamo stimati, non siamo visti come interlocutori utili o credibili. Per questo motivo preferiscono vivere all’interno di un gruppo di loro pari o fissi davanti a uno schermo popolato di anonimi guaritori. Abbiamo provato a chiedere aiuto, a consultarci con i nostri vecchi, con esperti, con persone che, fino ad alcuni anni fa, i ragazzi avevano stimato e anche amato. Inutilmente.  Non sappiamo più cosa fare. Vediamo che sono infelici, che la loro vita è un buco nero dal quale non siamo in grado di farli uscire, di salvarli. E mi viene in mente Virgilio.  Anche loro, come Dante nella Divina Commedia, sono in una selva oscura popolata di mostri che non consentono loro una via d’uscita. Ecco, forse, un tentativo da fare sarebbe che noi genitori, possibilmente padre e madre insieme, trovassimo una persona disposta a porsi accanto a nostro figlio o a nostra figlia con autorità ma senza pretese. In fondo, è ciò che viene raccontato nel secondo canto dell’Inferno. Certo, ciò non fu possibile ai nostri progenitori, che sperimentarono subito la difficoltà di crescere figli.

     Il problema, per Adamo ed Eva, fu che erano i soli adulti sulla terra quando si trovarono a gestire Caino e la sua rivalità con Abele. Non sappiamo se abbiano commesso errori, giacché ogni figlio cerca il modo per farsi amare dai genitori, anche a dispetto dei fratelli, e, nel migliore dei casi, lo trova. Dalla Bibbia apprendiamo solo che il problema si pose nel rapporto dei due ragazzi con Dio e nella maggiore devozione rivelata da Abele. Caino si dimostrò irritato dal fatto che la sua offerta non fosse stata gradita e abbattuto per la sconfitta; riconobbe la propria colpa ma si lamentò della condanna all’esilio. Non gli bastò la garanzia di non essere ucciso, con la promessa, da parte di Dio, di infliggere la vendetta sette volte a chi lo avesse fatto. Poca cosa, rispetto alla moltiplicazione della violenza che si generò col tempo nell’animo di quel giovane assassino, a giudicare dalla sua dichiarazione che si sarebbe vendicato settantasette volte contro chi avesse ucciso il suo sesto discendente. Meglio lasciar passare i millenni e pensare, per i peccatori, a interventi paragonabili a quelli proposti nella Divina Commedia. Vediamoli nell’ordine.

      In cielo c’è una donna gentile, la Madonna, immagine di maternità universale, che prova dolore per la condizione in cui si trova Dante e intercede in suo favore presso Dio. Chiede aiuto a Santa Lucia con parole che qualunque madre userebbe rivolgendosi a persona che sa essere sempre stata cara al proprio figlio: “Or ha bisogno il tuo fedele di te, e io te lo raccomando”[1]. Lucia subito si muove, va da Beatrice e, con tono quasi di rimprovero, la interroga: “ché non soccorri quei che t’amò tanto?”[2],  non senti l’angoscia della sua sofferenza? Questo basta per farla andare subito da Virgilio e affidare quell’uomo in pericolo di perdizione a colui che è stato il suo grande maestro di poesia.

     Immaginiamo questo iter nella nostra realtà.  Un genitore che capisce che c’è un problema ma non sa o non può affrontarlo direttamente, ne parla con una persona amica, la quale può ritenere utile l’intervento di chi il giovane ha amato da adolescente. Costui o costei suggerisce come figura idonea quella di una persona molto stimata ai tempi della scuola. Con o senza i vari passaggi, il prescelto potrebbe essere un giovane adulto, un amico fuori dal giro, un fratello maggiore ormai psicologicamente autonomo, un cugino o anche uno zio, un nonno o un estraneo, un sacerdote, un insegnante, purché non ingombrante, disposto ad essere semplicemente una presenza, un’ombra che non intende comandare o giudicare ma solo pronta ad aiutare quando le paure si ingigantiscono. I giovani, di paure, ne hanno tante, paralizzanti, e gli adulti, quando vengono percepiti come meritevoli di rispetto, sanno fare prodigi. Ho in mente i casi, vissuti da testimone a distanza di molti anni, di due professoresse che si sono trovate a correggere elaborati sconcertanti: uno con la descrizione viva, bruciante, di uno stupro subìto; l’altro con la definizione del proprio “inferno”. In entrambi i casi le famiglie non avevano capito niente, non avevano colto il mare di sofferenza. Ecco perché un estraneo sensibile, competente, a volte può riuscire dove tanti sembrano fallire. L’amore non basta, anche perché spesso è cieco.

     Salvare un giovane è un compito difficile, è quello al quale è stato chiamato Virgilio, che compare come una figura evanescente. Dante non sa chi sia ma è disperato e gli chiede aiuto. Quando poi apprende la sua identità, ne riconosce l’autorevolezza e, chiamandolo sempre “Maestro”, a lui si affida. Gli chiede di essere difeso dalla belva che lo minaccia ma Virgilio gli spiega che deve seguire un altro percorso. La salvezza si raggiunge conoscendo e riconoscendo gli effetti del male ma non lo si può fare da soli: c’è bisogno di una guida. Così, mano nella mano, con volto sorridente, gli spiega la realtà di quel mondo e cosa vuol dire perdere “il ben de l’intelletto”[3]. Poi, quando Dante piange nel sentire i forti lamenti delle anime immerse nel dolore, lo rassicura e, all’ultima richiesta di spiegazioni, con gentilezza lo chiama “Figliuol mio“[4].  È la prima volta che il suo tono diventa familiare, prima del terremoto che spaventa il suo protetto al punto da farlo svenire.

     Si preparano a scendere nell’inferno, Virgilio per primo, ma Dante si accorge che il maestro è “tutto smorto“[5]. Interpretando il suo aspetto come segno di timore, gli chiede come possa seguirlo se ha paura anche lui che di solito gli funge da sostegno. Non ha capito che il pallore è solo manifestazione della pietà che prova per le anime del Limbo, alle quali egli stesso appartiene. È l’angoscia di chi, non per colpe commesse ma per non essere stato battezzato, si trova escluso in eterno dalla visione di Dio. Il dolore di questa condizione, propria dei bambini morti privi di battesimo ma legata anche, come nel caso di Virgilio, all’essere vissuti “nel tempo de li dei falsi e bugiardi”[6], cioè prima di Cristo, avvicina Dante all’interlocutore, al quale si rivolge con tono più accorato: “Dimmi, maestro mio, dimmi segnore”[7]. Non esiste nessuno immune dal dolore: è un progresso sul piano emotivo. Dante ha potuto cogliere l’umanità di Virgilio e ne trae conferma dalle parole di Francesca da Rimini: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.”[8]

     Il rapporto tra i due diventa sempre più intenso: a Dante risulta spontaneo riferirsi a Virgilio come al “mar di tutto il senno”, alla “virtù somma”, a “lo savio mio”, al “savio gentil”, al “maestro mio”, al “buon maestro”, a “‘l savio mio maestro”, ma soprattutto come a “‘l mio buon duca”, “lo duca mio”, la mia guida. Vuol dire riconoscere il suo ruolo e il proprio bisogno. Dal canto suo, Virgilio sempre più spesso lo chiama “figlio” e “figliolo mio”, dando al proprio compito una dimensione genitoriale che non esclude il rimprovero, anche duro, all’occorrenza. È quanto accade quando Dante piange nel vedere il corpo stravolto dei maghi e degli indovini[9] e quando si sofferma ad ascoltare un litigio tra falsari[10].

     Occasione di fermezza è anche il desiderio di conoscenza di Dante il quale, come capita agli alunni curiosi e impazienti, talvolta non si pone limiti, col rischio di risultare molesto. Rendendosene conto, decide: “Allor con gli occhi vergognosi e bassi, temendo no ‘l mio dir li fosse grave, infino al fiume del parlar mi trassi”[11]. Quando poi, più avanti, Virgilio lo rassicura che non solo riceverà risposta alla domanda che gli pone ma anche che sarà soddisfatto il desiderio che gli nasconde, Dante si giustifica: “Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m’hai non pur mo a ciò disposto”[12], gli nasconde ciò che prova solo per parlare poco ed è ciò che anche adesso la sua guida gli ha chiesto di fare. Ha trovato la misura: “Tanto m’è bel, quanto a te piace: tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace”[13],  mi è gradito tutto quello che piace a te: tu decidi e sai che non mi allontano dal tuo volere, e conosci ciò che non viene detto.

     Il rispetto e l’obbedienza diventano sintonia, così che arrivano le lodi. Pensiamo a quella, esaltante, plateale, che conclude il contrasto con Filippo Argenti. Dante, che in precedenza si è lasciato inopportunamente turbare dal dolore dei dannati, rimane del tutto indifferente dinanzi a questo “spirito maladetto” e Virgilio prima impedisce che l’arrogante con ira rovesci la loro barca e dopo manifesta tutta la propria soddisfazione al discepolo, che racconta: “Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi ‘l volto e disse: «Alma sdegnosa, benedetta colei che ‘n te s’incinse!»”[14]. Non ci può essere riconoscimento maggiore: Anima capace di sdegnarsi, benedetta colei che fu incinta di te!  Analoga esaltazione il maestro manifesta per la tremenda invettiva di Dante contro i papi simoniaci che si sono fatti “dio d’oro e d’argento”. Racconta: “I’ credo ben ch’al mio duca piacesse, con sì contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse. Però con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s’ebbe al petto, rimontò per la via onde discese. Né si stancò d’avermi a sé distretto”[15], credo proprio che alla mia guida piacesse, dato che seguì sempre con aria felice il suono delle parole di verità che esprimevo. Perciò mi prese con tutte e due le braccia e, dopo avermi sollevato fino al petto, ripercorse la strada da cui era disceso e non si stancò mai di tenermi stretto a sé.

     Gli slanci e le manifestazioni di consenso, espressi con una fisicità sconosciuta tra adulti con ruoli diversi, ci devono far riflettere sul bisogno di affetto che non si riduce con l’età e che contribuisce a dare conforto e sicurezza. Tra Virgilio e Dante ormai non c’è solo obbedienza, c’è comune sentire. Ne è un esempio l’atteggiamento nei confronti dei sodomiti, gli omosessuali, l’incontro coi quali occupa due canti. Virgilio non solo presta attenzione alle loro grida ma dice a Dante: “Or aspetta, a costor si vuole esser cortese.”[16] L’esortazione alla sosta e al dovere della cortesia nei confronti di quelle anime è superflua perché Dante, se non fosse per la paura del fuoco, si getterebbe ad abbracciarle, a cominciare da quella di Brunetto Latini, suo antico maestro. Infatti, fermo restando il loro destino, che in un caso sembrerebbe addirittura legato al danno prodotto dalla presenza di una “fiera moglie”[17], cioè di una moglie scontrosa, c’è rispetto e stima per le loro persone, per la loro statura di letterati e guerrieri, per le loro virtù civili e la loro nobiltà  d’animo.

     È il contrario di quanto accade con un’altra categoria di dannati, ai quali pure sono dedicati due canti ma dai quali Virgilio invita Dante ad allontanarsi. Si tratta dei barattieri, cioè dei truffatori che, attraverso inganni e raggiri, hanno mirato sempre e soltanto al proprio beneficio. Sono numerosi nella terra in cui “del no, per li denar, vi si fa ita”[18], lì dove, per denaro, qualunque no diventa sì. Forse, ancora oggi, ne sappiamo qualcosa. Il rapporto tra i due è divenuto via via più stretto, così che Dante, quando ha paura, si stringe a Virgilio, mentre costui lo trae a sé, come sempre fa quando vuole proteggerlo. I gesti di entrambi sono di grande tenerezza. Per evitare che rimanga impietrito guardando la Gorgone, lo fa girare e gli copre gli occhi con le proprie mani[19]. Quelle stesse mani, “animose”, cioè in atto di incoraggiamento, lo spingono a parlare con Farinata, accompagnate dall’esortazione: “Le parole tue sien conte”[20], le tue parole siano adeguate.

     Lo prende per mano per accompagnarlo vicino al cespuglio in cui è prigioniero un suicida che inutilmente piange, avendo rifiutato il proprio corpo in vita[21]. Ancora “caramente” lo prende per mano per avvertirlo che gli appariranno, come una strana sequenza di torri, i giganti che, disposti intorno alla parete del pozzo infernale, vedrà sporgere dalla voragine solo fino all’ombelico[22]. Istiga il Minotauro che vuole impedire il loro passaggio in modo da farlo infuriare e, approfittando delle sue smanie, far passare Dante[23].

     Si sente responsabile di questo essere timoroso che Caronte ha definito “anima viva”[24]. Perciò, via via che il loro rapporto diventa più stretto, passa dal tenerlo per mano, come davanti alla porta dell’Inferno, al sostenerlo con le braccia quando il percorso è difficile, tant’è che Dante riferisce che, appena salì in groppa a Gerione, il maestro “con le braccia m’avvinse e mi sostenne”[25].

     Quando ci sono da affrontare difficoltà particolari, il maestro ha un attimo di forte turbamento ma trova subito la soluzione. Dante racconta: “con quel piglio dolce ch’io vidi prima a piè del monte, le braccia aperse” e mi afferrò. Segue una similitudine: “E come quei ch’adopera ed estima, che sempre par che ‘nnanzi si proveggia”, come chi agisce e valuta, così che mostra sempre di provvedere in anticipo, mentre lo spinge verso la cima di una sporgenza, ne osserva un’altra e gli dice: “Sovra quella poi t’aggrappa, ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia”[26], poi aggrappati a quella, ma prima prova se è tale da poterti reggere.

     Virgilio è una guida perfetta, seria, prudente, ma, quando il discepolo, giunto in cima, si sente esausto e si siede, non esita a cambiare tono “Omai convien che tu così ti spoltre”, ormai è il caso che tu ti scuota di dosso la pigrizia, perché, sedendo sulle piume, non si arriva alla fama, e nemmeno stando sotto le coperte, perché, chi consuma la propria vita senza fama, lascia di sé sulla terra un ricordo simile al fumo nell’aria e alla schiuma nell’acqua. Perciò alzati e supera la difficoltà di respiro col vigore che vince ogni battaglia se non si lascia abbattere dal peso del suo corpo. A questo invito perentorio, Dante reagisce: “Levàmi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch’i’ non mi sentia”, allora mi alzai, mostrandomi provvisto di una lena maggiore rispetto a quella che mi sentivo e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito”. L’esortazione genera una nuova dimensione nel loro rapporto, sicché il discorso tra i due si conclude semplicemente con un invito all’allievo ad agire: “Altra risposta”, disse, “non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta si de’ seguir con l’opera tacendo”[27], non ti do altra risposta che agire, perché la domanda legittima deve essere seguita dall’azione senza parole.

     E’ una lezione di vita. Egli stesso ne è un esempio perché, nel momento più difficile, tocca a lui la parte più faticosa, quella dell’uscita dall’inferno.

     Se veniamo un attimo ai nostri giorni, ci rendiamo conto che, per un giovane che ha perso il senso dell’esistenza, abbandonare la realtà, umana o virtuale, che comunque sembrava offrirgli un rifugio, deve essere drammatico. Ecco perché, a questo punto, è la guida a doversi assumere tutto il peso e la responsabilità del passaggio.

     Tornando alla Divina Commedia, pensiamo che l’anima di Dante è salva in quanto sta sfuggendo alla condanna eterna ma ha ancora tanto da capire, tanto da imparare prima di poter procedere da sola. Ancora una volta, dovrà essere la guida a prendere tutte le decisioni. E’ allora, quando sono giunti nel fondo dell’inferno, costituito da un lago ghiacciato, dopo che Dante ha visto Lucifero con le sue tre facce, le gigantesche ali di pipistrello e il corpo peloso, è quello il momento di ripartire. E’ un momento quasi cinematografico: l’uscita  avviene attraverso la discesa lungo il corpo de “lo ‘mperador del doloroso regno”[28]. Dante riferisce che Virgilio aveva stabilito tutto nei dettagli: “Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai”, il discepolo si avvinghiò al suo collo mentre lui, la guida, quando furono ben aperte le ali di quello che era stato l’angelo più bello del Signore prima di precipitare orribilmente, “appigliò sé a le vellute coste” si aggrappò ai fianchi pelosi e, “di vello in vello”, da un ciuffo di pelo all’altro, giù discese fino al punto in cui la coscia si articola e s’ingrossa l’anca. Erano al centro della terra e, per salire nell’emisfero australe, dove s’innalza la montagna del Purgatorio, dovevano capovolgersi e girare la testa in direzione delle gambe del mostruoso gigante, aggrappandosi al pelo “com’om che sale”. Tutto questo Virgilio fece “con fatica e con angoscia”, infine “ansando com’uom lasso”[29], ansimando come un uomo sfinito.

Ci vuole tanto amore per agire così, un amore che Virgilio ha già dimostrato quando Dante era atterrito al sopraggiungere dei diavoli: “Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch’al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese, che prende il figlio e fugge e non s’arresta, avendo più di lui che di sé cura”. Il maestro si era lasciato andare supino lungo la parete scoscesa “portandosene me sovra ‘l suo petto, come suo figlio, non come compagno”[30].

     Trovo stupenda la similitudine col gesto protettivo della madre che fugge per portare il figlio in salvo dall’incendio, sia perché l’amore non è una questione di genere, sia perché, come vedremo, anche nell’aldilà, non sempre risponde ai canoni. Sappiamo solo che, quando c’è, può dare fiducia, speranza, salvezza.

     Vediamo ora cosa accade nel Purgatorio, dove Virgilio viene definito “dolcissimo patre”[31] e – come abbiamo visto –  tale è  stato per Dante, che a lui si è affidato per la salvezza e tale continua ad essere nel regno in cui le anime espiano le proprie colpe in vista del Paradiso. Nell’Antipurgatorio, seguendo le istruzioni di Catone, pone “soavemente” tutte e due le mani aperte sull’erba tenera, ancora bagnata di rugiada, e gli lava le guance segnate dalle lacrime per renderne visibile il colore offuscato dall’inferno[32]. Soddisfa i suoi bisogni senza che nemmeno gli vengano manifestati, come quando, nella cornice degli iracondi, avvolta da un denso fumo, quale “scorta saputa e fida”[33], come guida esperta e fedele, gli si avvicina, gli offre l’appoggio della propria spalla e lo esorta a non separarsi da lui.

     Non che non sappia svolgere il proprio ruolo quando si tratta di incoraggiarlo a fare qualcosa che teme, ma lo fa sempre da “dolce padre”[34]. Insieme a Stazio, sono nella settima cornice; l’angelo della castità li esorta ad attraversare il muro di fuoco purificatore che permetterà loro di accedere all’ultima scalinata del monte ma Dante, pallido come un cadavere, non si muove. Quando – come vedremo – riesce a convincerlo, entra nel fuoco per primo, si fa seguire da lui e chiede a Stazio di stargli dietro, affinché la sua posizione sia la più sicura. Poi, superata la barriera di fiamme e saliti i primi gradini della scala, quando si devono fermare per la notte, ciascuno si distende su un gradino. Dante precisa: “io come capra, ed ei come pastori”[35]. Infatti Virgilio e Stazio fanno la guardia a lui come i pastori al gregge.

     Soffermiamoci un momento su come Virgilio ha indotto Dante ad affrontare la prova.  Dapprima gli ha spiegato che la fiamma non lo avrebbe potuto privare nemmeno di un capello; poi, turbato nel vederlo irremovibile, gli ha fatto notare: “Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro”[36]. Così il “savio duca” ha saputo vincere la sua ostinazione. Per questo ha sorriso “come al fanciul si fa ch’è vinto al pome”[37], come si fa col fanciullo che si lascia convincere da una ricompensa. E ancora di Beatrice gli ha parlato continuamente mentre erano dentro il fuoco, sostenendo: “Li occhi suoi già veder parmi”[38].

     Dopo tante aspettative, nel Paradiso terrestre infine Beatrice appare “dentro una nuvola di fiori”[39]. Dante è scosso dalla grande potenza del sentimentoche  –  rievoca  –  “m’avea trafitto prima ch’io fuor di puerizia fosse”[40], lo aveva colpito prima che fosse uscito dall’infanzia.  Si volta, “col respitto col quale il fantolin corre a la mamma quando ha paura o quando elli è afflitto”, con la fiducia di un bambino impaurito o sofferente, per dire a Virgilio: “Men che dramma di sangue m’è rimaso che non tremi”, non mi è rimasta nemmeno una goccia di sangue che non tremi, ma lui “n’avea lasciati scemi di sé”[41], ci aveva lasciati privi di sé. E piange, rievocando la tenerezza con cui gli aveva pulito le guance con le mani bagnate di rugiada.  Piange tanto da essere persino compatito dagli angeli, anche perché, in contrasto con la premura paterna di Virgilio, Beatrice si comporta con lui come la madre che “al figlio par superba”[42] perché gli si rivolge con tono aspro. Questo gli fa sentire come amaro il sapore del suo affetto. Eppure la donna ha pianto per lui. Glielo fa sapere lo stesso Virgilio nel suo ultimo discorso, quando ne ricorda “li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno”[43].

     Allora era disperata perché, dopo la morte, notando che Dante aveva preso una strada sbagliata, aveva tentato in ogni modo, attraverso ispirazioni divine, di richiamarlo alla fede. Inutilmente. L’unica possibilità rimasta era fargli vedere le condizioni dei dannati. Per questo era scesa all’inferno e aveva implorato l’aiuto di Virgilio. Ma ora che costui ha svolto la propria funzione, occorre che Dante si penta, che “sia colpa e duol d’una misura”[44], cioè che il suo dolore sia pari alla sua colpa e che il prezzo dell’espiazione sia pagato attraverso un “pentimento che lagrime spanda”[45].

     Da qui la sua severità, sconosciuta a Virgilio, il quale, in cima alla scala che porta al Paradiso terrestre, chiamandolo “figlio”, gli aveva spiegato di avere portato a termine il proprio compito: “Tratto t’ho qui con ingegno e con arte; lo tuo piacere omai prendi per duce”[46], ormai puoi prendere la tua volontà  come guida. Colui che al primo incontro Dante aveva chiamato “lo mio maestro e lo mio autore”[47], gli aveva segnalato il traguardo raggiunto: “Non aspettar mio dir più né mio cenno; libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: per ch’io te sovra te corono e mitrio”[48], non aspettarti più da me parole o gesti; il tuo arbitrio è libero, retto e incorrotto, e sarebbe un errore non seguirlo: perciò io ti proclamo signore e guida di te stesso[49].

      In quel momento Dante non sapeva che sarebbero state le sue ultime parole. Lo ha visto sorridere insieme a Stazio quando hanno sentito richiamare gli antichi poeti[50]; con loro ha assistito alla processione mistica[51] ma poi, quando, all’apparizione di Beatrice,  sbigottito, si è girato verso di lui per comunicargli la propria emozione, non lo ha trovato. Era uscito di scena con la grandezza della sua statura morale.

     Ecco, la sua uscita di scena è ciò su cui più dovremmo riflettere perché è il segno caratterizzante la sua azione: la levità. Tutti i suoi gesti hanno una delicatezza sconosciuta a tanti di noi genitori. Tendiamo ad essere pesanti, ingombranti, quando li affrontiamo, per essere sicuri dell’efficacia dei nostri interventi, dell’effetto delle nostre parole. E quando sembriamo disinteressarci dei nostri figli è per il senso di inadeguatezza che ci pervade. Non sappiamo essere maestri.

     Non è stato così per le generazioni passate, che erano istintive e non si ponevano problemi. Prendiamo il caso di quando avrebbero dovuto lasciar andare i giovani: a parte il richiamo alle armi e l’emigrazione per fame, riuscivano a condizionarli a vita. Un uomo di una certa età mi ha descritto con angoscia una scena, alla quale aveva assistito molti anni prima, in cui la propria madre rincorreva piangendo giù per le scale il figlio minore in partenza per andare a vivere altrove. Mi ha confessato di aver deciso in quel momento che non avrebbe mai causato il ripetersi di quello strazio e di non avere, per questo motivo, colto alcune occasioni che lo avrebbero portato ad abbandonarla.

     Certamente è un caso estremo ma, ancora oggi, sono tante le mamme chiocce e non sono pochi i padri che costruiscono la casa ai figli nel proprio paese e che portano avanti l’impresa che hanno creato con l’intento di lasciarla loro in eredità, sentendosi traditi se questi aspirano a fare altro.

     Non accettiamo di definire quello del genitore un difficilissimo compito a tempo, che potremo considerare assolto quando il figlio avrà capito cosa significa vivere e sarà, come dice Virgilio, signore e guida di sé stesso.

     Dobbiamo chiedere scusa per la nostra inutile invadenza, per la nostra incapacità di far crescere e lasciar crescere i ragazzi, per la presunzione di poterli proteggere e l’arroganza di volerli difendere incondizionatamente, senza mai uscire di scena dalla loro vita.  

     In fondo, tutto dipende dal fatto che siamo viziati: dal XIII secolo avanti Cristo siamo tutelati dalle tavole di Mosè e dal comandamento “Onora il padre e la madre” che – badiamo bene – accosta le due figure genitoriali pur non equiparandole, tant’è che, nel Siracide, uno dei Libri sapienziali della Bibbia, del secondo secolo prima di Cristo, si chiarisce: “Il Signore ha glorificato il padre al di sopra dei figli e ha stabilito il diritto della madre sulla prole”. Non ci possiamo meravigliare del potere che ci sentiamo in diritto di esercitare, anche se, già in quel testo, da alcuni precetti traspare l’onere della loro osservanza: “Chi onora il padre espia i peccati; chi onora sua madre è come chi accumula tesori”[52]. Il discorso si fa addirittura minaccioso, in caso di mancato rispetto della norma da parte di “chi teme il Signore”: “poiché la benedizione del padre consolida le case dei figli, la maledizione della madre ne scalza le fondamenta”[53]. Le indicazioni sono molto più toccanti quando riguardano i genitori in disgrazia: “Non vantarti del disonore di tuo padre, perché il disonore del padre non è gloria per te; la gloria di un uomo dipende dall’onore di suo padre, vergogna per i figli è una madre nel disonore”[54].  Trovo infine commovente l’invito al figlio di un genitore in condizione di fragilità: “Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Sii indulgente, anche se perde il senno, e non disprezzarlo, mentre tu sei nel pieno vigore”[55]. Tutte queste disposizioni sono sbilanciate a favore dei genitori, ai quali si deve rispetto, gratitudine e cura in quanto rappresentano l’autorità di Dio: onorarli significa onorare Dio.

     Passano tanti anni e, nel 60 dopo Cristo, San Paolo assume una posizione di maggiore equilibrio. Comincia: “Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto” ma, due righi dopo, aggiunge: “E voi, padri, non esasperate i vostri figli”[56]. Questi cominciano finalmente ad esistere come persone, non più solo come esecutori della volontà divina. Bisogna tuttavia arrivare all’inizio del XX secolo perché vengano giuridicamente riconosciuti loro dei diritti. Non ci possiamo sorprendere che tanti di noi genitori ancora non li prendano in considerazione e agiscano come se essi non esistessero. I nostri figli, dal canto loro, come tutti gli adolescenti, quando vogliono oltrepassare i confini e opporsi all’autorità, possono invischiarsi in situazioni pericolose rispetto alle quali non sappiamo come agire.

     Forse, tra qualche decennio, quando gli adulti saranno più preparati e consapevoli di quanto siamo noi, i casi da “selva oscura” saranno rari ma oggi, quando noi stessi siamo frutto di un’educazione legata al passato e ci permettiamo di ripetere che “ai nostri tempi …”, in questa fase di transizione, dobbiamo prendere atto dei nostri limiti e accettare di non potercela fare da soli. E’ a questo punto che ci rendiamo conto che … ci manca Virgilio.

[1] Inf III, 98-99.

[2] Inf. III, 104.

[3] Inf III, 18-20.

[4] Inf III, 121.

[5] Inf IV, 14.

[6] Inf I, 72.

[7] Inf IV, 46.

[8] Inf V, 121-3.

[9] Inf XX.

[10] Inf XXX.

[11] Inf III, 79-81.

[12] Inf X, 19-21.

[13] Inf XIX, 37-9.

[14] Inf VIII, 43-5.

[15] Inf XIX, 112 e 121-7.

[16] Inf XVI, 14-5.

[17] Ibidem, 45.

[18] Inf XXI, 42.

[19] Inf IX, 59-60.

[20] Inf X, 37-9.

[21] Inf XIII, 130-1.

[22] Inf XXXI, 28-33.

[23] Inf XII, 22-7.

[24] Inf III, 88.

[25] Inf XVII, 96.

[26] Inf XXIV, 20-30.

[27] Ibidem 16-78.

[28] Inf XXXIV, 28.

[29] Ibidem, 70-83.

[30] Inf XXIII, 37-51.

[31] Purg XXX, 50.

[32] Purg I, 121-9.

[33] Purg XVI, 8-15.

[34] Purg XXVII, 51.

[35] Ibidem, 86.

[36] Ibidem, 35-6.

[37] Ibidem, 45.

[38] Ibidem, 54.

[39] Purg XXX, 28.

[40] Ibidem, 41-2.

[41] Ibidem, 43-9.

[42] Ibidem 79-81.

[43] Purg XXVII, 136-7.

[44] Purg XXX, 108.

[45] Ibidem, 144-5.

[46] Purg XXVII, 130-1.

[47] Inf I, 85.

[48] Purg XXVII, 139-142.

[49] In questa, come in alcune altre occasioni, ho tratto spunto dal commento contenuto nell’edizione SEI del 2021.

[50] Purg XXVIII,144.

[51] Purg XXIX.

[52] Libro del Siracide 3:2-4.

[53] Ibidem 3:9.

[54] Ibidem 3:10-11.

[55] Ibidem 3:12-13.

[56] Lettera agli Efesini 6:1 e 4.

Leopardi e la fisica del suo tempo

In Giacomo Leopardi adolescente l’eco delle principali questioni fisiche e matematiche dibattute dai grandi della scienza a lui contemporanei.
Giacomo Leopardi (1798- 1837)
L’articolo di Matmedia “Leopardi fisico e matematico” propone una riflessione sulla formazione scientifica di Giacomo Leopardi,  formazione che avrà un ruolo fondamentale nel suo pensiero filosofico e influenzerà la sua poetica.
Le prime opere adolescenziali denotano grande erudizione ma anche capacità di sintesi e senso critico nelle argomentazioni. Ricordiamo, in proposito, le Dissertazioni filosofiche, comprendenti anche dieci  argomenti di fisica, scritte tra il 1811 e il 1812 ossia all’età di 13 e 14 anni  e la Storia dell’astronomia, scritta un anno più tardi.
Il suo talento precoce era favorito e  stimolato culturalmente dal padre Monaldo, molto esigente  riguardo all’istruzione dei figli e, nonostante le sue idee conservatrici, sempre pronto ad aggiornare  la sua biblioteca accogliendo le  novità in campo scientifico e filosofico
Giacomo e i suoi fratelli potevano  disporre, inoltre, di un piccolo laboratorio per gli esperimenti scientifici. “Studio matto e disperatissimo” da parte dell’adolescente,  ma anche  interesse per la conoscenza del mondo fisico, della Natura, del Cosmo  e grande fascino esercitato su di lui dai grandi scienziati  quali Copernico, Keplero, Galileo  e, soprattutto, Newton.
L’attenzione ai contributi scientifici  negli scritti  di Leopardi, da parte dei critici o interpreti, risale alla seconda metà  del secolo scorso.
Alcune intuizioni da parte di  Italo Calvino nelle “Lezioni americane” e i continui riferimenti alle “Operette morali” nelle sue “Cosmicomiche”, mettono in luce la consapevolezza scientifica che sta alla base di alcune immagini o riflessioni leopardiane, solitamente analizzate dal punto di vista stilistico o nel loro significato filosofico,
Walter Binni, uno dei maggiori studiosi della poetica e del pensiero di Giacomo Leopardi, ne suggerisce un “habitus  mentale” di derivazione scientifica  affermando che: «L’illuminismo fu non solo fornitore a Leopardi di materiali e stimoli filosofici e morali, ma scuola di coraggio della verità, di bisogno di estrema chiarificazione, di lucidità ad ogni costo sulla via del suo attivo pessimismo».
In  occasione della celebrazione del bicentenario della nascita del poeta  (nel 1998) e, qualche decennio più tardi, nel bicentenario  dell’infinito (nel 2019) si assiste sia  a una riscoperta e una valorizzazione dei saggi  di carattere scientifico del giovane Leopardi, sia a una rilettura in chiave moderna delle opere della sua maturità.
Secondo Pietro Greco, giornalista e divulgatore scientifico scomparso due anni fa,
«…L’evoluzione del rapporto tra Leopardi e la scienza si muove con velocità differenziali e direzioni diverse lungo almeno quattro direttrici, certo interconnesse, ma abbastanza autonome da poter essere individuate con una certa precisione…» (Città della scienza /centro studi/Leopardi-e-la-scienza-16 agosto 2016)
Le quattro direttrici di cui parla Greco possono essere ricondotte facilmente ad alcune tematiche di indubbia attualità:

Valore sociale della scienza
Esaltazione della ragione e del rigore scientifico per spiegare i fenomeni
Ricerca del “ senso del mondo”, percezione della complessità del reale
Sfiducia nel meccanicismo e rifiuto del riduzionismo intrinseco nella scienza

Nel saggio “L’infinita scienza di Leopardi”( 2019), gli autori (Giuseppe Mussardo , professore ordinario di Fisica Teorica alla SISSA di Trieste e Gaspare Polizzi, storico della filosofia e della scienza del Centro nazionale studi leopardiani) concentrano le loro riflessioni su tre temi fondamentali :

Leopardi e il cielo
Leopardi e la materia
Leopardi e l’infinito

ricollegabili facilmente agli studi di astronomia, chimica e fisica.
A  questo punto è opportuno osservare che, se è decisamente interessante  affrontare la poetica e il pensiero di Leopardi alla luce della sua formazione scientifica, altrettanto stimolante  potrebbe essere cogliere nelle opere di  Giacomo adolescente l’eco dei principali dibattiti degli scienziati a lui contemporanei e  pensare a un approccio  originale alla storia della fisica e della chimica.
A  partire dalle curiosità e dai  commenti di un giovane studente  meticoloso e tenace, brillante e desideroso di apprendere, possiamo riflettere sul  panorama scientifico  degli anni di passaggio dal XVIII a XIX secolo e su come venissero  affrontati alcuni temi significativi.
Senza aver la pretesa di una trattazione esaustiva, proponiamo due tematiche  abbastanza ampie  che saranno in seguito approfondite, con spirito specialistico, dagli scienziati  XIX secolo:

la struttura della materia e le sue proprietà
la questione copernicana

La struttura della materia e le sue proprietà
Da: Casa Leopardi, Giacomo e la Scienza, 1996
Dalla lettura delle 10 disertazioni di argomento scientifico 

Dissertazione sopra l’attrazione
Dissertazione sopra la gravità
Dissertazione sopra l’urto dei corpi
Dissertazione sopra l’estensione
Dissertazione sopra l’idrodinamica
Dissertazione sopra i fluidi elastici
Dissertazione sopra la luce
Dissertazione sopra l’astronomia
Dissertazione sopra l’elettricismo

emerge il modello di realtà che  Giacomo si era costruito e il quadro concettuale unitario entro cui articola  le spiegazioni dei fenomeni naturali.
Si tratta di esercitazioni scolastiche preparate per il saggio annuale con cui  Monaldo Leopardi era solito far concludere gli  studi dei tre figli, Giacomo, Carlo e Paolina.
Il tono è esplicativo, le argomentazioni puntano sulla citazione di fonti autorevoli o sull’evidenza sperimentale.
La fiducia nella forza della Ragione, la fedeltà  al modello  meccanicistico della realtà, il “culto” della figura di Newton, contrastano, agli occhi del lettore moderno, con alcune convinzioni che sarebbero state a breve superate dalle nuove scoperte e dai  mutamenti di carattere metodologico e filosofico che avrebbero caratterizzano il  secolo XIX . Eppure ci sentiamo trascinati dall’entusiasmo del giovane  conferenziere e seguiamo le sue dissertazioni e i suoi ragionamenti, riscontrando con piacere  alcuni sprazzi di modernità.
Del resto, anche tra gli scienziati dell’inizio del secolo si poteva riscontrare un certo disorientamento di fronte alla molteplicità e alla complessità dei risultati ottenuti, in particolare, in elettrochimica,  in elettromagnetismo e in ottica . Spesso  si cercava una spiegazione riconducibile ai vecchi modelli e, anche se venivano enunciate nuove leggi,  non si arrivava a ideare una teoria ampia e dal potere unificante . Solo nella seconda metà del secolo si avrà la sistemazione della termodinamica e l’elaborazione della teoria dei campi. Per una teoria atomica, nell’ambito della fisica classica, si dovrà aspettare il XX secolo.
Nella Dissertazione sull’estensione si legge:
«…Viene altresì annoverata tra le proprietà dei corpi appartenenti alla loro estensione la Divisibilità. Ciascun corpo è formato di particelle, e di molecole unite insieme per mezzo dell’affinità d’aggregazione, di cui sono dotate. Essi sono dunque divisibili, cioè le particelle possono essere slegate, e scomposte, le quali particelle essendo formate di altre molecole ancor più sottili possono anch’esse per conseguenza esser divise. Infatti, noi non possiamo immaginarci un corpo sebben minimo, nel quale non supponiamo due metà, e per conseguenza può senza dubbio affermarsi esser la materia divisibile in infinito numero di parti infinitamente picciole. Deve avvertirsi, che noi non intendiamo di dire che un corpo sia divisibile in infinito fisicamente, ma soltanto geometricamente, e per mezzo de’ voli astratti dell’umana immaginazione».
«Moltissimi sono quegli esperimenti, con i quali vollero i Fisici dimostrare la Divisibilità dei corpi in modo evidentissimo. Tra questi ell’è utilissima l’osservazione riportata dal celebre Poli circa i raggi della luce, poiché “quantunque, com’egli si esprime, siffatti lumi non decidano se il campo assegnato alla rapportata Divisione si estenda all’infinito, nulladimeno ci mostrano ad evidenza, che la materia è capace di esser divisa in un numero di parti così immenso, che giugne fino a stancare la più vivace immaginazione….
Se in una notte serena, segue il mentovato Scrittore, pongasi a cielo aperto una candela accesa, diffonderà questa tanta luce, che si potrà agevolmente scorgere fino alla distanza di due miglia ossìa di 10 mila piedi tutt’all’intorno. È noto presso de’ Matematici, che uno spazio sferico, che abbia il semidiametro di 10 mila piedi in se contiene 4. bilioni 190 mila 40 e più milioni di piedi cubici. … »
Compare poi in una nota la seguente precisazione
(1) I principj della moderna Chimica dimostrano che la luce, e la fiamma non si sviluppano dal corpo che brucia ma bensì dall’aria vitale allorché l’ossigeno passa nel combustibile insieme con il calorico, e con la luce, con cui era unito, e che abbandonando l’aria vitale, si svolgono, e formano il fuoco.
L’esempio è tratto   da un testo famoso e apprezzato, gli  Elementi di fisica sperimentale (1798) di Giuseppe Saverio Poli e Vincenzo Dandolo, aggiornato sugli ultimi risultati di Lavoisier ma legato inevitabilmente ai modelli  settecenteschi del fluido calorico e dei corpuscoli che stanno a fondamento dei fenomeni luminosi.
Il  concetto di affinità tra le molecole è affrontato in modo generico, come si evince anche dalle dissertazioni sull’attrazione e sulla gravità.
In particolare, vogliamo soffermarci su alcune affermazioni del giovane saggista  riguardo l’interazione gravitazionale, accomunata disinvoltamente ad altre  forze di natura attrattiva, come le forze di adesione o di coesione molecolare.
Affermazioni quali:«…non ha solamente luogo  tra i corpi celesti, considerati l’uno relativamente all’altro. Questa forza agisce altresì in tutte le parti della materia. I liquori si alzano nei tubi capillari al di sopra del loro livello a causa dell’attrazione del tubo….»   non sono, come potrebbe  sembrare,   frutto di un ingenuo fraintendimento da parte del giovane studioso, bensì rispecchiano la convinzione, in quel tempo abbastanza diffusa negli ambienti scientifici, che l’attrazione fosse una proprietà della materia e che si manifestasse, oltre che nella gravitazione,  in molti altri  fenomeni di interazione fra corpi  solidi o fluidi o anche tra corpuscoli dotati di massa.
Interessante è il confronto tra le  dissertazioni di Giacomo  e alcuni  brani tratti dalla Storia dell’astronomia dell’astronomo  Jean-Silvain Bailly ridotta in compendio da  Francesco Milizia ( 1791), uno dei testi  su cui Giacomo aveva studiato.
L’autore sembra abbastanza deciso nell’identificare le forze  di attrazione tra molecole e l’attrazione gravitazionale
«Le affinità chimiche, le dissoluzioni, le precipitazioni, le coagulazioni non sono che attrazioni. Queste molecole esercitano a piccole distanze proporzionalmente alle loro masse un’attrazione simile a quella che i globi celesti esercitano negli spazi dell’Universo a distanze enormi…».
«La causa della coesione è l’attrazione o sia la gravità; e siccome la coesione è più o meno in tutti i corpi, Newton con ragione ha conchiuso che la gravità è universale in tutte le parti della materia»
Ribadisce la spiegazione «gravitazionale» che  Newton fornisce per il fenomeno della rifrazione della luce:
«La luce s’inflette passando presso i corpi per l’attrazione che prova e la devia. Passando da un mezzo ad un altro più denso si refrange, va più veloce poiché vi è più attratta»
L’autorità del paradigma newtoniano è ancora molto solido negli ambienti scientifici del primo ‘800.
Sviluppatosi principalmente come empirismo in Inghilterra e come razionalismo in Francia.  aveva alimentato la convinzione che il modello meccanicistico fosse in grado di descrivere e studiare tutti i fenomeni naturali.
La legge di gravitazione universale, in particolare, con il suo potere unificante,  resta il modello da seguire, almeno per analogia,  nell’interpretare  fenomeni in cui intervengono mutue forze attrattive tra  corpi, dipendenti dalla loro distanza.
Come si può osservare nelle affermazioni di Bailly, l’indiscussa  autorità degli scritti newtoniani poteva arrivare a far interpretare in modo acritico, e in parte errato, il suo pensiero.
Newton è molto più cauto nell’estendere la legge di gravitazione universale  al di fuori della meccanica, anche se, in effetti, per  quanto riguarda l’ottica, pensava che la  rifrazione potesse essere  ricondotta ad un fenomeno di attrazione tra masse,  avvalorando  la sua ipotesi corpuscolare sulla natura della luce.
Se  avesse avuto l’opportunità di anticipare i risultati ottenuti nel 1850 da  Fizeau e Foucault  relativamente alla  velocità della luce, avrebbe osservato che questa è maggiore nel vuoto che non  in un mezzo materiale e sarebbe giunto ad altre conclusioni.
Il pensiero di Laplace  (Exposition du système du monde-1823)  appare invece molto più lucido e più vicino  alla posizione newtoniana ( Hypotheses non fingo)
«L’attrazione sparisce tra i corpi di una grandezza poco considerevole: essa riappare nei loro elementi sotto un’infinità di forme. La solidità, la cristallizzazione, la rifrazione della luce, il sollevamento e l’abbassamento dei liquidi negli spazi capillari, e in generale tutte le combinazioni  chimiche sono il risultato di forze la cui conoscenza è uno dei principali obiettivi dello studio della natura. Così la materia è soggetta all’impero di diverse forze attrattive: una di esse, estendendosi indefinitamente nello spazio, regge i movimenti della terra e dei corpi celesti; tutto ciò che riguarda la costituzione intima delle sostanze che li compongono dipende principalmente dalle altre forze la cui azione è sensibile solo a distanze impercettibili. E’ quasi impossibile, per questa ragione, conoscere le leggi della loro variazione con la distanza; fortunatamente, la proprietà di essere sensibili soltanto assai vicino al contatto basta per sottomettere all’Analisi un gran numero di fenomeni interessanti che ne dipendono».
L’opera di Laplace è del 1823.
L’invenzione della  pila di Volta aveva  indicato nuove vie di ricerca sull’elettricità. Nel 1808  il chimico inglese  sir Humpry Davy aveva ottenuto i primi risultati di dissociazione elettrolitica .
La comunità scientifica francese era  fortemente influenzata dal programma laplaciano, tendente a spiegare i fenomeni fisici a partire dalle proprietà di fluidi imponderabili (fluido elettrico vetroso o resinoso, fluido magnetico australe o boreale, calorico ecc. ecc.)  le cui particelle ultime  interagivano a distanza, tramite forze di tipo newtoniano.
La formalizzazione  poteva avvenire nell’ambito dell’apparato matematico che già aveva  segnato l’indiscusso progresso della meccanica e dell’astronomia.
Le esperienze di Cavendish e di Coulomb, mediante la bilancia di torsione, avevano dimostrato, già alla fine del ‘700,  l’analogia tra le leggi che descrivono le interazioni gravitazionali, elettrostatiche e magnetiche.
L’interazione corrente-magnete scoperta da  Oersted  nel 1820 sembrava invece difficilmente riconducibile allo schema newtoniano e questo  aveva costituito una vera e propria sfida  tra gli scienziati francesi, di cui sono noti gli importanti risultati,  sia sperimentali sia nella formalizzazione matematica ( esperienza di Arago, leggi di Ampère, di Biot-Savart e dello stesso Laplace).
Ormai è ben nota la differenza tra le varie forze di interazione conosciute, sia per quanto riguarda la natura delle particelle interagenti, sia  dal punto di vista dell’intensità delle forze.
Qualsiasi studente liceale sa, per esempio , che  l’attrazione  gravitazionale tra un protone e un elettrone è molto più  debole , di circa 40 ordini di grandezza, dell’interazione elettrostatica, la quale svolge , pertanto, un ruolo essenziale  nella struttura microscopica della materia.
Agli inizi del secolo  XIX,  invece ,  in assenza di opportune  valutazioni quantitative e  di conoscenze adeguate sulla struttura della materia, le interazioni tra particelle dotate di massa venivano assimilate alle interazioni  gravitazionali.
Va precisato, in proposito, che, sebbene  comunemente si attribuisca a Cavendish la determinazione della costante  di gravitazione  universale, la formulazione  moderna della legge  di  Newton è entrata nella letteratura scientifica solo  nelle seconda metà secolo.
I risultati del  noto esperimento di Cavendish furono formulati, invece, in funzione del valore della densità media  della Terra, ovvero del valore della sua massa, dedotto dal  rapporto delle forze esercitate, rispettivamente, dalla Terra e dalla massa “grande” utilizzata nell’esperimento, su una stessa massa, la massa  “piccola”  posta a distanza  da essa.
Ricordiamo, infine l’approccio innovativo da parte  di Faraday, che, rifiutando il modello delle particelle di fluido interagenti a distanza, spostò l’attenzione sulle proprietà dello spazio, sede dei fenomeni elettromagnetici, il quale  diventa «campo di forze». Le sue  proprietà sono descritte  dalle linee di forza o linee di campo, secondo  un modello che sarà poi formalizzato, dal punto di vista matematico, nella sintesi maxwelliana.
Ovviamente non possiamo aspettarci che, nella dissertazione sull’elettricismo, il giovane Giacomo possa conoscere o immaginare l’importanza che i fenomeni elettrici avrebbero acquistato  in campo scientifico, tecnologico e industriale.
La dissertazione spazia pertanto nel campo meteorologico ( pioggia, fulmine, terremoto, tromba d’aria ecc. ecc.) .
Le spiegazioni dei fenomeni  mostrano i limiti del modello del fluido elettrico che non riesce a suggerirne in modo esauriente l’origine e la natura, anche se  fornisce alcune indicazioni per  difendersi da  eventuali effetti dannosi.
La conclusione sembra un tentativo di dare maggiore dignità all’argomento:
«Tutto ciò, che abbiam detto contiene in brevi parole l’intera Teoria dell’elettricità. Non possiamo al certo bastantemente encomiare quei Fisici, i quali impiegar seppero i loro lumi nel discuoprire la cagione, e l’origine di sì spaventosi fenomeni per poi dar campo alle ricerche intorno al modo di preservarsi da loro terribili effetti. Non si scorgerebbe certamente nelle Fisiche dottrine un sì gran numero d’inutili questioni se tutti i Filosofi impiegar sapessero la loro scienza nella ricerca soltanto di quelle cose, che ridondar possono in qualche modo a pro del genere umano. > >
La consapevolezza della rilevanza del progresso degli studi sui fenomeni elettrici traspare invece in una delle ultime poesie di Leopardi: la “ Palinodia al Marchese Gino Capponi” (1835).
Le moderne applicazioni dell’’elettricità, citata attraverso gli epigoni Volta e Davy , non riescono a vincere le forze inevitabili dell’egoismo umano.
L’entusiasmo e la fiducia nel valore sociale della Scienza ha lasciato il posto alla delusione e al pessimismo di fronte a una società che insegue il mito del progresso  dimenticando però gli ideali di  verità e di giustizia.
…………..Ardir protervo e frode, Con mediocrità, regneran sempre, A galleggiar sortiti. Imperio e forze, Quanto più vogli o cumulate o sparse, Abuserà chiunque avralle, e sotto Qualunque nome. Questa legge in pria Scrisser natura e il fato in adamante; E co’ fulmini suoi Volta nè DavyLei non cancellerà, non Anglia tutta Con le macchine sue, nè con un Gange Di politici scritti il secol novo. Sempre il buono in tristezza, il vile in festa Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse In arme tutti congiurati i mondi Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti Il debole, cultor de’ ricchi e servo Il digiuno mendico, in ogni forma Di comun reggimento, o presso o lungi Sien l’eclittica o i poli, eternamente Sarà, se al gener nostro il proprio albergo E la face del dì non vengon meno…… > >
 La questione copernicana
 Ha senso parlare ancora, ai tempi di Leopardi , di una questione copernicana?
Quando il giovanissimo Giacomo affrontava  gli studi di astronomia,  la teoria eliocentrica era già consolidata in ambito scientifico, accettata anche da scienziati cattolici o luterani . La Chiesa cattolica  però, non aveva ancora abrogato il Decreto della Congregazione dell’Indice del 1616, cosa che avvenne  qualche decennio più avanti  con la riabilitazione di tutte le opere di ispirazione copernicana.
In alcuni ambienti cattolici particolarmente intransigenti c’era , pertanto, una certa cautela  nell’insegnare  o propagandare il sistema copernicano come modello della realtà fisica, in accordo con la  prefazione del De revolutionibus orbium coelestium   ( rivelatasi in seguito apocrifa e attribuita al teologo  luterano  Andrea Oslander ) che parlava di “ipotesi matematica”.
Lo stesso Monaldo Leopardi continuò a dichiararsi anticopernicano convinto, fino a sfidare la Chiesa dalle pagine del periodico “La voce della ragione “ , da lui diretto, difendendo, da un lato, le decisioni dell’Inquisizione romana e , dall’altro,  cercando di demolire con argomentazioni di carattere scientifico  le prove sperimentali addotte dai sostenitori del sistema eliocentrico.
Si comprende pertanto  perchè nella Dissertazione sull’Astronomia, uno dei componimenti scolastici presentati nei saggio annuale  di casa Leopardi nel 1812, il giovane Giacomo tesse le lodi del sistema copernicano “il più ammissibile fra tutti i sistemi celesti” ma aggiunge nel finale la seguente riflessione:

L’ambiguità della posizione della Chiesa Cattolica fece scalpore, anche in campo internazionale,  quando, nel 1818 il Maestro del Sacro Palazzo negava al canonico Settele ,docente alla Sapienza di Roma,  l’imprimatur  per il secondo volume del trattato  “Elementi di ottica e astronomia” in quanto fondato sul sistema copernicano.
Il Santo Uffizio fu costretto a intervenire con un apposito  decreto ( nel 1822) e avviare un processo di riabilitazione di tutte le opere  di ispirazione copernicana che si concluse nel 1835, sotto il papato di Gregorio XVI.
Appena un anno dopo la Dissertazione , Giacomo completa la sua  “Storia dell’astronomia”  nella quale  l’adesione al copernicanesimo è  più decisa , tra l’entusiasmo di spirito illuminista per la forza della Ragione e il riconoscimento dell’esistenza di un  Dio «autore e regolatore  dell’ammirevol macchina dell’Universo».
Il  progresso dell’astronomia  si trasforma nello strumento che libera l’uomo dalle  superstizioni e dalle credenze errate e lo conduce alla civiltà e alla vera Sapienza, mentre le implicazioni di carattere  filosofico sembrano restare in secondo piano.
I riferimenti alle dispute intorno alla pluralità dei mondi e all’abitabilità dei corpi extraterrestri dimostrano, comunque,  che Giacomo aveva ben recepito i punti salienti e anche  i nodi di questo secondo aspetto della nuova questione copernicana. Con molta franchezza, infatti,  conclude che sono tutte discussioni inutili e oziose, dalle quali non è possibile «ritrarre il minimo frutto». La controversia infatti non potrà «mai venire alla conclusione», essendo questa «la più insolubile di tutte le questioni».
Il rifiuto  dell’antropocentrismo, un tempo tacciato di eresia, ben si conciliava invece  con lo spirito egualitario degli Illuministi.
Le  intuizioni di Giordano Bruno   sulla pluralità e infinità dei mondi,  giudicate  a suo tempo  inverosimili e diaboliche, avevano acquistato una base di credibilità, almeno a livello di possibilità.
Pur riconoscendone l’infondatezza  sia al livello sperimentale, sia dal punto di vista  speculativo,   queste idee erano patrocinate dai più eminenti astronomi del XVIII secolo, incontrati da  Giacomo nei libri della biblioteca paterna   (Lalande, Bailly, William Herschel) .  La forza dell’analogia, l’inconsistenza di una situazione privilegiata da assegnare alla terra ( unita alla mancanza di nozioni sulla genesi della materia vivente) sembrano punti a favore dell’esistenza di altre forme di vita o di altri sistemi solari simili al nostro .
Non mancavano  poi alcune opere di fantasia come l’ironico Micromega di Voltaire  o di divulgazione scientifica, come I Colloqui sulla pluralità dei mondi ( 1686 ) di Bernard le Bovier de Fontenelle e il poema  dai toni preromantici “ Complaint or night thoughts on life , death and immortality” (1742-45),del poeta ecclesiastico  inglese Edward Young.
Quest’ultimo, di cui Leopardi conosceva probabilmente la traduzione italiana di L.A. Loschi, vede  nella pluralità dei mondi e nell’infinità dell’universo la testimonianza dell’infinita onnipotenza di Dio  Creatore che non può  rimanere limitata nell’angusto  spazio del nostro pianeta.
Copernico continua poi ad essere presente in più punti della produzione leopardiana,  a prova del fatto che le letture giovanili  avevano avviato un processo di interiorizzazione,  sfociata poi  nel  pensiero filosofico e  nella sublime arte poetica.
«Una prova di quanto influiscano i sistemi puramente fisici sugl’intellettuali e metafisici, è quello di Copernico che al pensatore rinnova interamente l’idea della natura e dell’uomo concepita e naturale per l’antico sistema detto Tolemaico; rivela una pluralità di mondi, mostra l’uomo un essere non unico, come non è unica la collocazione, il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l’infinità delle creature che secondo tutte le leggi d’analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analoghi al nostro, e quelli anche che saranno, benchè non ci appariscano, intorno agli altri soli cioè le stelle, abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima; scuopre nuovi misteri della creazione, del destino della natura, della essenza delle cose, dell’esser nostro, dell’onnipotenza del creatore, dei fini del creato ec. ec. »(Zibaldone, 84, 18209)
«Il sistema di Copernico insegnò ai filosofi l’uguaglianza dei globi checompongono il sistema solare (uguaglianza non insegnata dalla natura,anzi all’opposto), nel modo che la ragione e la natura insegnavano agliuomini ed a qualunque vivente l’uguaglianza naturale degl’individui diuna medisima specie». (Zibaldone, 975, 22 aprile 1821) (28).E’ noto il divertente dialogo “Copernico” delle Operette morali in cui la rivoluzione  copernicana nasce da una esigenza  del Sole che chiede a Copernico di concedergli il meritato riposo e di  costringere l’oziosa Terra a mettersi in movimento.
Forse  è meno noto questo brano  della storia dell’astronomia di cui il “Copernico” sembra essere lo sviluppo e l’ approfondimento:
«Quell’ardimentoso Prussiano che fe’ man bassa sopra gli epicicli degli antichi e spirato da un nobile estro astronomico, dato di piglio alla terra, cacciolla lungi dal centro dell’Universo ingiustamente usurpato, e a punirla del suo ozio, nel quale avea marcito, le addossò una gran parte di quei moti, che venivano attribuiti ai corpi celesti, che ci sono d’intorno».
I notissimi versi del “Canto notturno di un pastore errante” composto  tra il 1829 e il 1830 , ci hanno tante volte coinvolto nelle domande senza risposta sul destino e sull’identità dell’uomo
E quando miro in cielo arder le stelle;Dico fra me pensando:A che tante facelle ?Che fa l’aria infinita, e quel profondoInfinito seren ? che vuol dir questaSolitudine immensa ? ed io che sono ?
Quanti di noi le hanno confrontate con le parole di sir John Herschel  (1792 –1871) (matematico e astronomo figlio di William)?
«A quale scopo, scrive dobbiamo supporre che le stelle siano state disperse nell’immensità dello spazio? Non sarà stato senza dubbio per illuminare le nostre notti, oggetto che potrebbe meglio svolgere una luna piu di quanto non farebbe la millesima parte della nostra, né per brillare come uno spettacolo vuoto di senso e di realtà e ci perdiamo in vane congetture. Questi astri sono, è vero, utili all’uomo come punti permanenti ai quali può rapportare tutto con esattezza; ma bisognerebbe aver ricevuto ben poco frutto dallo studio dell’astronomia per poter supporre che   l’uomo sia il solo oggetto delle cure del suo Creatore e per non vedere, nel vasto e sorprendente  apparato che ci circonda, luoghi destinati ad altre razze di esseri viventi».
Un secolo dopo  Hubble enunciava la  legge che confermava  il modello di un universo in espansione, popolato da innumerevoli galassie distinte dalla nostra Via Lattea.
La Terra non è il centro dell’universo, non lo è il Sole, non lo è la Via Lattea.
Nel XX secolo la cosmologia, studio  dell’Universo nella  sua totalità su grandi scale, ormai separata  dall’astronomia, è una scienza osservativa  che non ha abbandonato  i suoi aspetti speculativi.  I tre principi che ne stanno alla base richiamano le antiche dispute dei filosofi  ma  hanno un chiaro significato di ipotesi di lavoro.
Primo assunto è l’isotropia dell’Universo  (principio cosmologico)   complementare all’omogeneità  di tutti i punti di osservazione (principio copernicano).
Si sente la necessità di un terzo principio, il principio antropico:
“I valori osservati delle quantità fisiche o  cosmologiche non sono equiprobabili ma sono  limitati  dal prerequisito che l’universo cui danno luogo, a un certo punto della sua storia, permetta l’esistenza di una forma di vita come la nostra, basata sul carbonio” (principio antropico debole di Barrow-Tipler) .
Nuovi interrogativi attendono una risposta: il nostro universo è il risultato di  un’eccezionale coincidenza cosmica o esistano infiniti universi fisici e noi abitiamo in uno di quelli che sono adatti alla vita?

Laureata in matematica, all’Università “La Sapienza” di Roma  . Vincitrice di concorso a cattedra per la classe matematica e fisica, ha  insegnato a Roma nel liceo scientifico  “Cavour” e ha collaborato con la S.S.I.S del Lazio in qualità di insegnante accogliente per i tirocinanti. In pensione dal 2009, ha partecipato al progetto del MIUR “La prova scritta di Matematica degli esami di Stato nei Licei Scientifici: contenuti e valutazione”  . Collabora alle attività di formazione della Mathesis.

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