I banchi a scuola. Servono ancora?
ARTICOLO SCRITTO DA: FRANCESCO LAVANGA, FORMATORE E AUTORE DI SCUOLA OLTRE
Immaginiamo per un attimo di fare un viaggio nel passato per mettere a confronto, rispetto ad oggi, tutte le trasformazioni che il mondo ha attraversato.
Immaginiamo di essere catapultati negli anni ’50 del Novecento. Tutto sarebbe completamente diverso; ad esempio l’organizzazione delle città, i mezzi di trasporto e così via.
Moltissime cose che conosciamo non erano ancora nemmeno state immaginate. D’altronde proveniamo dal mondo 70 anni dopo, non ci sarebbe da sorprendersi.
Passeggiando, ad un tratto, ci imbattiamo in una scuola e decidiamo di entrare a dare un’occhiata per vedere com’è un’aula. L’espressione di sorpresa ci ricopre il viso. Già, ma non per com’è diversa, ma per com’è identica alle aule che conosciamo.
Adesso torniamo nel nostro tempo. Riflettiamo. L’unica cosa che è cambiata rispetto a 70 anni fa sono le lavagne, che sono diventate digitali, e poco altro. La cattedra, i banchi e la loro disposizione nello spazio dell’aula sono esattamente le stesse.
Gli studi e le ricerche nel campo dell’educazione e della formazione e le strategie didattiche che ne derivano hanno dimostrato come spesso, se non sempre, tale setting dello spazio sia inefficace per l’apprendimento degli studenti e delle studentesse, all’infuori di specifici momenti didattici.
Come osservano Rivoltella e Rossi (2017): “l’ambiente di apprendimento scaturisce dall’intersezione di tre elementi fondamentali: gli attori con le loro intenzioni e i loro scopi; le trame di relazioni in cui tali soggetti sono implicati; infine, gli ambienti fisici, gli strumenti e gli artefatti culturali che li connotano. È per questo motivo che i processi di apprendimento non emanano da un ambiente neutro o si sviluppano a partire da un vuoto, ma vengono elaborati in un setting culturalmente connotato”.
Dunque, mantenere l’ambiente di apprendimento esattamente come 70 anni fa implica riprodurre anche la cultura che veniva promossa in passato. Questo, al di là dei personali orientamenti pedagogico-didattici, non è più possibile in un mondo che è strutturalmente cambiato e dove i bisogni e i modelli di apprendimento degli studenti e delle studentesse sono completamente trasformati.
Allora perché non facciamo niente in proposito? Il dito solitamente è puntato verso le lacune del Governo e la continua sottrazione di denaro pubblico, di anno in anno, al mondo della scuola, che non permetterebbero una vera innovazione nelle scuole italiane.
L’ultima novità a livello nazionale è stata l’introduzione dei banchi a rotelle promossi dall’allora Ministra, Lucia Azzolina. Sappiamo tutti com’è andata a finire, ma l’obiettivo di questa riflessione non è analizzare se e come i banchi a rotelle possono essere migliori o peggiori dei banchi tradizionali.
Che cosa è possibile fare dunque per cambiare lo stato attuale delle cose visto il contesto scolastico italiano? Gli spazi all’interno della classe, seppur con alcuni limiti, possono essere cambiati senza spendere un euro e senza mobilitare associazioni di categoria, sindacati, dirigenti scolastici, ecc…
Sembra che sia stata dimenticata la creatività. E non ne serve molta per trasformare gli spazi attuali. Ad esempio, i banchi possono essere spostati ai margini dell’aula e le sedie disposte in cerchio per facilitare la comunicazione e la relazione educativa, o possono essere assemblati diversamente per facilitare il lavoro a piccoli gruppi favorendo la collaborazione e l’apprendimento tra pari.
Indubbiamente una superficie di lavoro serve comunque agli studenti e alle studentesse, ma i banchi e le cattedre costituiscono delle barriere forti alla fluidità della comunicazione per come sono tradizionalmente disposti. Prendete un qualsiasi libro di interior design e noterete come ci sono innumerevoli soluzioni che possono sostenere l’agire didattico. Il concetto di spazio in termini educativi è fortemente coltivato nell’età dell’infanzia, ma pare che dalle scuole secondarie di I grado in poi tale concetto venga dimenticato.
Eppure, tutti sappiamo come sia importante il “corpo” nei processi di apprendimento. Nonostante questo, chiediamo ai discenti di stare fermi e immobili seduti in un banco per ore e ore. Servono superfici di lavoro, non strumenti/gabbie che contengono le pulsioni adolescenziali e che bloccano il potenziale di ogni singolo studente e studentessa.
Facciamoci ispirare dalle loro idee. Integriamole nel nostro modello didattico. Chiediamo loro che cosa vogliono. In che modo desiderano apprendere. Non dimentichiamo mai che nell’età adolescenziale i discenti attraversano il loro massimo potenziale intellettuale. Impariamo a orientare le loro energie facendo sì che diventino nostri alleati, e non nemici da domare. Proviamo a immaginarli come colleghi in erba che possono portare nuova linfa alle nostre vite.
Attraverso l’integrazione dei nostri modelli di insegnamento con le loro idee è possibile fare uno sforzo di creatività e innovare le proprie lezioni con attività diverse da quelle tradizionali. È necessario un reale passaggio dal paradigma dell’apprendimento passivo ad uno attivo; non solo a parole, ma con i fatti. Indubbiamente è molto impegnativo e richiede tempo sviluppare lezioni efficaci, ma se nessuno, o pochi, si attivano al riguardo, la situazione non potrà che peggiorare.
Non diamo tutto per scontato. Non pensiamo che non sia possibile fare niente. Il solo pensarlo ci impedisce di andare oltre i limiti imposti dall’esterno. Insomma, se da una parte è vero che il supporto governativo è venuto sempre meno e che la scuola è stata lasciata sola nell’affrontare tutte le problematiche dell’educazione e della formazione, dall’altra è pur sempre vero che è possibile attuare cambiamenti che nel loro piccolo possono risvegliare l’interesse e il coinvolgimento degli studenti e delle studentesse.
Il futuro è in mano di coloro che si stanno formando oggi, la speranza di una trasformazione positiva è riposta in loro. Se siamo noi i primi a riprodurre gli errori del passato, come pensiamo che le cose possano cambiare?
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