Quando non c’erano le calamite da frigo: i souvenir di Canova

Pare che Antonio Canova (1757-1822) fosse una vera celebrità internazionale, un artista talmente famoso che, nel primo Ottocento, il suo atelier era una meta turistica tra le più gettonate di Roma, specialmente per i viaggiatori del Grand Tour.

Angelica Kauffmann, Ritratto di Antonio Canova, 1815

Tanti sono i pittori che hanno rappresentato quello studio, pieno di bozzetti. In questo acquerello, realizzato alla fine del Settecento, si possono osservare appesi al soffitto i cosiddetti telai metrati, strumenti usati per prendere le coordinate spaziali dei punti del bozzetto in gesso e riportarli sul blocco di marmo, una procedura che ho raccontato in questo articolo. Questa operazione era condotta in genere dagli aiutanti dello scultore.

Francesco Chiarottini (1748-1796), Lo studio di Canova

Alla stessa epoca appartiene questo ritratto di Canova nel suo studio, accanto alla statua dell’Amorino realizzata nel 1793 per John David La Touche di Marlay. Le altre opere rappresentano alcune importanti commissioni avute fino a quel momento.

Domenico Conti, Ritratto di Antonio Canova nel suo studio, 1793

Di poco precedente è un dipinto in cui lo scultore mostra un modello di Amore e Psiche a Henry Tresham, un pittore inglese che faceva l’intermediario tra gli artisti di Roma e i collezionisti d’oltremanica.

Hamilton Hugh Douglas, Antonio Canova nel suo studio con Henry Tresham e un modello della scultura di Amore e Psiche, 1788-1791

Nei decenni successivi lo studio è stato riproposto anche da autori che non hanno conosciuto Canova, perché nati dopo la morte dello scultore. Ma evidentemente quell’artista era talmente leggendario che, nonostante il Neoclassicismo fosse tramontato da un pezzo, rimaneva il simbolo universale della vera arte.

Qui è raffigurato mentre lavora al bozzetto di Paolina Borghese come Venere Vincitrice (1804-1808). La donna, sorella di Napoleone Bonaparte e moglie del principe romano Camillo Borghese, si sta rivestendo con l’aiuto di un’ancella, dopo aver posato sdraiata su un’agrippina.

Lorenzo Valles (1831-1910), Paolina Borghese nello studio di Canova

In questo dipinto del 1880 lo scultore è ritratto invece mentre osserva a distanza la versione in argilla di un gruppo scultoreo (un particolare del Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria). Nella stanza anche una modella (che nella realtà Canova non usava) e un committente inglese (il duca di Bedford) seduto in attesa. Tutto intorno altri bozzetti in gesso e in terracotta di opere esistenti.

Pompeo Calvi, Interno del laboratorio di Canova a Roma, 1880

Ma dov’era questo celebre studio? In effetti ce ne sono stati tre. Quando Canova arriva a Roma nel 1779 ottiene uno spazio dentro l’Ambasciata della Serenissima a Palazzo Venezia, assieme a una pensione per sostenersi nell’Urbe. In quello studio iniziano a transitare molto presto committenti italiani e stranieri.

Ma nel 1783, con l’arrivo di un nuovo ambasciatore, l’artista sceglie di spostarsi in via delle Colonnette, vicino Piazza del Popolo, in un grande studio ricoperto esternamente dai frammenti classici della sua collezione. Il piano terra ero la spazio pubblico mentre il piano superiore era quello privato in cui lo scultore teneva la sua collezione di dipinti e la biblioteca. Questo studio, definito da Stendhal “luogo unico sulla terra” è quello più celebre.

Roberto Roberti (1786-1837), Lo studio di Canova in Roma

Ma a Roma ce n’è anche un altro, noto oggi come Atelier Canova Tadolini, che lo scultore lasciò nel 1818 al suo allievo più fidato, Adamo Tadolini, perché riproducesse le copie delle sue sculture. Oggi quello studio, che ha ospitato quattro generazioni di artisti, è un ristorante molto particolare, in cui si mangia tra statue in gesso e bassorilievi.

Attorno al successo di Canova, intanto, era nato un fiorente mercato di veri e propri ‘souvenir‘ costituiti dalle miniature delle sue opere e destinato a tutti i viaggiatori del Grand Tour che volevano portare con sé il ricordo del maestro (non potendosi permettere le sue costose sculture). Un po’ come il merchandising che si trova oggi all’interno dei musei, ma senz’altro più raffinato…

Questi oggetti non erano creazioni di Canova o della sua bottega ma di tanti artisti locali che grazie a queste riproduzioni davano lustro allo scultore e al contempo ci guadagnavano anche loro. Tra questi prodotti c’era il cofanetto a forma di libro di Francesco Carnesecchi (1796-1872) del 1822-1844 con le riproduzioni in gesso delle sculture di Canova da un lato e di Bertel Thorvaldsen (un importante artista neoclassico danese che visse in Italia per oltre quarant’anni) dall’altro. Ecco il lato con le opere di Canova e il relativo elenco.

Lo stesso manufatto, con una selezione di opere differente, era proposta anche da Pietro Paoletti (1801-1847). Questi piccoli bassorilievi erano prodotti in serie partendo da uno stampo in negativo inciso a mano dall’artista su pietra.

Giovanni Liberotti aveva creato addirittura un sistema di bacheche impilabili per potersi portare a casa tutte le bellezze del Grand Tour, dalle statue dei Musei Vaticani a quelle di Napoli, oltre alle immancabili opere di Canova. In alternativa si poteva optare per il volumetto da libreria.

 

Molto apprezzate erano anche le miniature dei leoni che Canova scolpì per la base del monumento funerario a Clemente XIII in San Pietro. Queste sono in marmo giallo antico e risalgono alla fine del XVIII secolo.

Le statue invece venivano riprodotte in scala in bronzo o alabastro, come questi esempi ottocenteschi.

Più particolari erano i ciondoli ottenuti incidendo il calcedonio con i profili creati da Canova, come questo esemplare intagliato da Luigi Pichler (1773-1854) nel 1815.

Benedetto Pistrucci (1783-1855), incisore di gemme e medaglista, proponeva invece delle placchette di ardesia con le miniature modellate in cera gialla. In alcune creava addirittura delle originali composizioni, come quella in cui Napoleone come Marte pacificatore di Canova è in piedi su una biga per il suo trionfo.

Questi ‘capricci’ canoviani erano spesso realizzati attraverso stampe. Quelle di Michele Fanoli (1807-1876) degli anni ’40 dell’Ottocento rappresentano grandi spazi in cui le statue sono ambientate come in un museo immaginario.

Più tradizionali sono le incisioni di Raffaello Morghen del 1787 e 1790 che riproducono Teseo e il Minotauro e la tomba di Clemente XIII. Queste stampe contribuirono enormemente alla diffusione dell’opera di Canova quando l’artista era in vita e alla creazione della sua fama.

I viaggiatori del Grand Tour, insomma, avevano a disposizione una grande varietà di souvenir canoviani da portare a casa: medaglie in gesso, ciondoli in pietra, modellini in marmo, statuine in bronzo e stampe di ogni genere.

Tutto questo ci fa capire qualcosa in più del sistema dell’arte del passato, un meccanismo che non è poi molto diverso da quello attuale e che ci ricorda che l’arte non è mai disgiunta dagli aspetti economici e commerciali. Anzi, nasce quasi sempre laddove c’è ricchezza (e vivacità culturale).

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Vi racconto la Venere di Milo

La bellezza per antonomasia. La classità per definizione. Il capolavoro scultoreo per eccellenza.Questo (e tanto altro) è la Venere di Milo, l’eccezionale statua greca conservata al Louvre.
È una delle sculture più famose del mondo, un capolavoro di età ellenistica, ma non tutti ne conoscono la storia a luci e ombre e le infinite reinterpretazioni fatte dagli artisti.

Tutto ha inizio l’8 aprile del 1820 quando Yorgos Kentrotas, un contadino greco che abitava sull’isola di Milo, nell’arcipelago delle Cicladi, colpì con la sua pala qualcosa di molto duro.

Stava cercando pietre per rinforzare la recinzione del suo campo quando dal terreno spuntò fuori un busto di marmo pario senza braccia, del tutto inutile per le necessità del contadino.
Il caso volle che si trovasse da quelle parti anche Olivier Voutier, un giovane ufficiale della marina francese appassionato di archeologia, la cui nave Chevrette era ormeggiata sull’isola. L’uomo passeggiava tra i ruderi dell’antico teatro greco, incantato dagli innumerevoli frammenti di statue che emergevano dal terreno. Ma vedendo il contadino, a poca distanza da lui, fermo a osservare qualcosa nella buca che stava scavando, si avvicinò per curiosare.

Ecco come Voutier ricorda quel momento: “Aveva appena scoperto la parte superiore di un statua in cattive condizioni e, non potendo essere utilizzata per la sua costruzione, stava per ricoprirla di macerie. Con la punta di qualche piatto l’ho fatta invece uscire. Non aveva le braccia, il naso e il nodo di i capelli erano spezzati, erano terribilmente sporchi. Tuttavia, a prima vista, si riconosce un pezzo notevole. Ho esortato il mio uomo a cercare l’altra parte. Presto si è imbattuto in essa. Poi ho fatto assemblare la statua. Chi ha visto la Venere di Milo può immaginare il mio stupore!”.Ed ecco come ha disegnato quel ritrovamento.

La scoperta della statua suscitò grande entusiasmo anche nell’ammiraglio Jules Dumont d’Urville che si fece subito avanti per acquistarla. Ma Pierre-Henry Gauttier du Parc, il capitano della Chevrette, si oppose a quella trattativa rifiutandosi di trasportare un manufatto tanto fragile.

A quel punto il contadino pensò bene di cercare un nuovo acquirente in un monaco ortodosso che intendeva offrirla a un funzionario ottomano del sultanato di Costantinopoli. D’Urville allora scrisse immediatamente all’ambasciatore di Francia a Costantinopoli: non poteva lasciarsi sfuggire un pezzo così pregiato! L’ambasciatore acconsentì all’acquisto, anzi diede l’ordine di comprare la scultura a qualsiasi prezzo.

Il suo interesse però non era tanto di tipo artistico, ma smaccatamente politico. Quella statua, un raro esemplare greco originale e non una copia romana, alta poco più di due metri, avrebbe compensato lo smacco subito dalla Francia che, dopo il Congresso di Vienna, nel 1815, aveva dovuto restituire ai vari stati italiani la Venere Medici, l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte, alcuni dei capolavori classici sottratti con le spoliazioni napoleoniche.
Grazie alla Venere di Milo, per altro, Parigi poteva tornare a competere con Londra – che da alcuni anni si era appropriata dei marmi del Partenone – e con Monaco di Baviera, la cui Gliptoteca conservava i preziosi frontoni provenienti dal tempio di Afaia, sull’isola greca di Egina.
Dopo estenuanti trattative con il monaco e con la comunità dell’isola di Milo i francesi finalmente si aggiudicarono la statua e la imbarcarono alla volta della corte di re Luigi XVIII che nel 1821 ne fece dono al Louvre.

L’azione di propaganda iniziò immediatamente: la statua, inizialmente attribuita a Fidia o a Prassitele (ma oggi datata al 150-125 a.C.) fu esposta al centro di una grande sala del Louvre e i calchi vennero inviati alle Accademie di Belle Arti affinché i giovani studenti potessero copiarla. Doveva diventare a tutti i costi un simbolo universale di bellezza.Per questo si aprì subito il dibattito sulla possibilità di completarla con due nuove braccia, come si usava fare all’epoca. Ma le ipotesi erano contraddittorie. Teneva una mela in mano? Scriveva su una lapide? Si guardava allo specchio?

Alla fine prevalse la decisione di lasciare la statua com’era (a parte l’aggiunta del piede sinistro, successivamente rimosso): la mancanza delle braccia, in fin dei conti, non ne diminuiva né il valore né la bellezza, anzi faceva convergere tutta l’attenzione sul raffinatissimo panneggio, sul busto levigato e su quel volto dall’espressione imperturbabile.

Per altro non era neanche certo che si trattasse di Venere: quell’identificazione era stata fatta da d’Urville e mai più rimessa in discussione. In verità una porzione di basamento originale, misteriosamente scomparso, portava delle iscrizioni collegabili forse alla statua di Poseidone ritrovata nello stesso luogo nel 1877, di cui la figura femminile avrebbe potuto essere la moglie  Anfitrite.

Ma è chiaro che una “Anfitrite di Milo” non avrebbe colpito l’immaginario collettivo come una “Venere di Milo” (che per essere precisi avrebbe dovuto chiamarsi Afrodite, alla greca). E d’altra parte la posa e la composizione somigliavano molto a quelle della Venere di Capua del Museo Archeologico di Napoli (copia romana di un originale greco rinvenuta nel XVIII secolo). Dunque, meglio lasciare tutto com’era…

La vera incoronazione come dea della bellezza arriverà poco tempo dopo, quando gli artisti iniziarono a prendere la Venere di Milo come modello per le loro opere d’arte. Il primo in assoluto è stato Eugène Delacroix: la sua Libertà che guida il popolo del 1830, infatti, si ispira alle Venere di Milo per quel busto nudo, per la gamba sinistra protesa in avanti e per il panneggio della veste.Questo omaggio però non bastò a fare apprezzare quella figura: le braccia robuste, le guance arrossate e i peli sotto le ascelle facevano somigliare la donna a una massaia piuttosto che a una dea!

Del 1841 invece, è questo dipinto intimista del danese Christoffer Wilhelm Eckersberg. È dedicato alla toilette del mattino ma quella schiena con i fianchi cinti dal tessuto è un esplicito riferimento alla Venere di Milo, come si può notare osservando il retro della statua.

Assieme alla fama purtroppo cominciano anche i pericoli. Nel 1870-1871, con l’infuriare a Parigi della guerra franco-prussiana, la Venere di Milo viene imballata in una cassa di legno e conservata in un luogo sicuro.

Al suo rientro a Louvre il curatore del museo iniziò degli studi approfonditi sulla statua scoprendo, tra le tante, che non si è spezzata in seguito a un incidente né è stata tagliata: la Venere è stata realizzata fin dall’inizio unendo due blocchi di marmo.
A partire dagli anni Ottanta viene ritratta più volte nella sala in cui era stata collocata, come presenza divina nella penombra del museo.

Intanto diventa oggetto di studio anche da parte degli artisti più insospettabili, come Cézanne e van Gogh.

La celebrità della scultura è testimoniata pure da alcuni dipinti che ne raffigurano delle miniature in ambienti domestici…

… o nell’atelier di una pittrice.

Ebbe grande diffusione anche il solo torso. Possiamo vederlo sia nello studio di uno scultore che in un soggiorno borghese.

Tutto cambia con l’arrivo del Surrealismo. Dopo cento anni dalla sua scoperta, quell’icona di bellezza, quel frammento di perfezione, perde per la prima volta la sua aura divina e diventa l’oggetto degli esperimenti espressivi più estremi.
Per primo inizia René Magritte con Les menottes de cuivre (Le manette di rame) del 1931. Si tratta di una copia della statua parzialmente ridipinta in rosa e blu, con la testa lasciata in bianco. Il titolo, ideato da André Breton, allude ironicamente all’assenza delle mani. È un’operazione dadaista simile ai baffi sulla Gioconda fatti da Duchamp nel 1919. E tuttavia Magritte ci aveva visto giusto: le statue greche erano colorate in modo da sembrare corpi veri.

Il 1936 è invece l’anno della Venere a cassetti di Salvador Dalì. Riprodotta in infinite varianti, è un’opera che si inoltra nel mondo della bellezza carnale, dell’eros e dei suoi segreti, rappresentati dai cassetti (un simbolo tratto dalla psicanalisi di Freud) aperti sul corpo della statua.

Nello stesso periodo si occupa della scultura anche Man Ray. La sua Venere restaurata del 1936 (un busto senza drappo sui fianchi) e la testa di Venere del 1937 sono una perfetta dimostrazione dello spirito iconoclasta che muoveva dadaisti e surrealisti. Stringere tra corde o catturare in una rete un pezzo di statua significa trattare quei capolavori come oggetti qualsiasi, oltre a suggerire simili fantasie erotiche sul corpo femminile.Ma in fondo non occorre cercare un significato. La testa di Venere dentro una rete da pesca è “bella come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”, per usare le parole del poeta Lautréamont tanto care ai Surrealisti.

Tuttavia la dissacrazione della Venere di Milo non è stata un’invenzione di questi artisti. Già a partire dagli anni Dieci ci avevano pensato i pubblicitari a trasformare la dea della bellezza in testimonial più o meno ironico dei nuovi consumi di massa. Dai corn-flakes all’aspirina, dai corsetti alle stilografiche, ogni occasione era buona per accostare il proprio prodotto alla suprema perfezione della dea greca.

Ma nel 1939 la Venere è di nuovo in pericolo. Con l’avanzata delle truppe tedesche verso la Francia occorreva svuotare il Louvre dai suoi capolavori e spostarli in un luogo sicuro. Il direttore Jacques Jaujard chiuse il museo il 25 agosto 1939 (ufficialmente per manutenzione) e organizzò il trasloco di oltre 4000 opere – sia dipinti che sculture – chiudendole dentro 1862 casse di legno trasportate da 203 camion diretti verso il castello di Chambord.

Il 16 agosto 1940 i nazisti entrarono al Louvre. Con grande disappunto scoprirono che era completamente vuoto. Ma furono lieti di trovare la Venere di Milo ancora al suo posto. Quello che non sapevano è che la statua che stavano ammirando era una volgare copia in gesso.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Venere, quella vera, torna al suo posto. E in poco tempo ritorna al centro dell’interesse degli artisti, in quella sorta di continuo ritorno al passato, specialmente quello classico, che caratterizza l’arte occidentale.

Nel 1962 se ne occupa Niki de Saint Phalle con una delle sue azioni artistiche da poco inaugurate: realizza una copia cava della Venere, fissa al suo interno dei sacchetti di vernice e poi la colpisce a distanza con un fucile. La statua a quel punto inizia a ricoprirsi di colore, ma in un modo che non può essere controllato dall’artista. È un attacco all’arte antica ma contemporaneamente è una rigenerazione, nata da un gesto di estrema violenza.

Intanto i traslochi non sono finiti. Nel 1964 la statua viene spedita addirittura a Tokyo, in occasione delle Olimpiadi. Ma il lungo viaggio di 33 giorni sul transatlantico francese Vietnam l’ha danneggiata: quattro frammenti del panneggio, all’altezza dello stinco sinistro, si sono staccati. Tre di questi erano pezzi in gesso di un vecchio restauro mentre il quarto era una scheggia di marmo, già staccata dalla statua all’atto del ritrovamento nel 1820.
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Dalì tornerà di nuovo sul tema della Venere negli anni Settanta, evidentemente ossessionato da questo simbolo così potente. In Torero allucinogeno la Venere di Milo si moltiplica in diverse posizioni e varie dimensioni dentro una delirante sovrapposizione di immagini. La dea diventa archetipo femminile inafferrabile, a tratti spaventoso. La sua figura ripetuta dà forma anche al volto del torero, in un gioco di interscambio tra figura e sfondo.

Negli stessi anni Dalì torna anche alla versione scultorea di Venere, ma abbandona i cassetti e inizia a mescolare le parti del volto con la Testa otorinologica di Venere. Naso e orecchio sono scambiati di posto: forse perché ‘sentiamo’ con entrambi?

Poi è stata la volta di Arman che, usando il suo linguaggio basato sulla trasformazione e accumulazione di oggetti comuni, ha iniziato ad affettare, frammentare, scomporre e riassemblare la Venere di Milo. Ma per quanto la si possa fare a pezzi, lei rimane sempre riconoscibilissima.

Quella posa sinuosa con le braccia mozzate si riconosce pure in silhouette, come nello specchio Venere disegnato dall’architetto Carlo Mollino nel lontano 1938 per Casa Miller a Torino (ma ancora in produzione)…

… oppure nella scultura sezionata di César del 1984.

Tra le versioni più recenti ci sono quelle di Jim Dine degli anni Ottanta e Novanta. Le sue Veneri sembrano regredire alla fase di blocco appena sbozzato: mancano della testa e appaiono spigolose e ruvide. Ma il colore, in tinta unita o a chiazze vivaci, rende questi oggetti quasi astratti, specialmente nelle dimensioni colossali che in alcuni casi assumono. Quando queste statue sono disposte in gruppi di tre la classicità raddoppia, attraverso un evidente richiamo al tema delle Tre grazie.

A fronte di tutto questo, di una passione sfrenata verso una dea venuta da una sperduta isola greca che pare non vedere mai flessioni, si può ben dire che l’azione di propaganda messa in atto dalla Francia abbia funzionato davvero alla grande! E però, per trasformare una statua in un’icona, qualcosa di speciale ci dev’essere.

Quella donna di marmo ci guarda da millenni, indifferente al succedersi dei giorni e delle stagioni, alle generazioni umane che, passando, la guardano negli occhi. Aspetta paziente senza aspettare nulla: la sua imperfetta perfezione le basterà per sempre.

Emergenza Coronavirus COVID-19: notizie e provvedimenti

Ordinanza del 2 giugno 2021 Ulteriori misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. 

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Ordinanza 21 maggio 2021 Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-Cov-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro.

Ordinanza 21 maggio 2021 Linee guida per la gestione in sicurezza di attivita’ educative non formali e informali, e ricreative, volte al benessere dei minori durante l’emergenza COVID-19.

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