Questione di stili

Ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al
passo, è un’orchestra che prova la stessa sinfonia
”.

(Pennac D., 2008)

 

Quando un insegnante si trova di fronte ad un gruppo classe sta di fatto interagendo con alunni diversi, dotati di molteplici caratteristiche cognitive, e ognuno dei quali avente
un proprio temperamento e dei propri interessi di cui è fondamentale tenere conto nel processo di insegnamento/apprendimento.

Ogni studente, così come ogni persona, presenta un proprio funzionamento, dei punti di forza e di debolezza, uno stile di apprendimento prevalente ed uno
stile cognitivo
che ne influenzano le modalità di studio e di apprendimento più efficaci, tanto più se parliamo di studenti DSA, per i quali le discrepanze sono più evidenti e marcate.

È importantissimo che gli alunni sviluppino una consapevolezza dei propri processi cognitivi e di apprendimento per vivere la scuola con maggiore serenità, come un contesto in
cui sperimentarsi e conoscersi, per sviluppare un approccio allo studio e alla conoscenza che sia più efficiente ed efficace possibile, che porti ad apprendimenti significativi. È fondamentale
anche per potenziare le proprie capacità, per essere più sicuri e motivati.

 

Nel presente articolo ci occuperemo di fare chiarezza sugli stili cognitivi e gli stili di apprendimento che, a volte, erroneamente vengono utilizzati come sinonimi: capiremo come è possibile
misurarli e perché sono così importanti per i nostri studenti, in particolare per quelli con disturbo specifico.

 

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Metacognizione e inclusione

Metacognizione e inclusione: strategie per affrontare la dislessia e promuovere la prosocialità

di Sofia Turiano

Introduzione

Nel contesto educativo contemporaneo, il concetto di inclusione scolastica si configura come un pilastro fondamentale per garantire l’accesso all’apprendimento a tutti gli alunni, indipendentemente dalle loro peculiarità e difficoltà. La scuola, in quanto ambiente formativo e di crescita, è chiamata a rispondere a tutti i differenti, ed emergenti, bisogni espressi dai singoli alunni, che in alcuni casi sono molto evidenti, in altri si presentano più sfumati e celati, ma non per questo meno importanti.

Oltre alle disabilità certificate, infatti, è sempre più frequente la presenza di alunni che presentano Bisogni Educativi Speciali, come: disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), difficoltà psicologiche, comportamentali, relazionali, svantaggio socio-economico.

A tal proposito risulta importante che l’insegnante abbia a disposizione tutti gli strumenti utili per cogliere le differenti difficoltà e specificità dei singoli alunni,  in modo da riuscire ad attivare i giusti interventi psicoeducativi e didattici.

Il presente articolo intende fornire una panoramica sulle principali difficoltà scolastiche, concentrandosi in particolare sulla dislessia, uno tra i più comuni DSA. Viene sottolineata l’importanza del riconoscimento precoce di tali disturbi, di come un’adeguata osservazione e un intervento tempestivo possano influire significativamente sul percorso scolastico e sulla vita di ogni bambino, e di come la metacognizione nell’apprendimento degli alunni con DSA rappresenti un aspetto cruciale, che aiuterà insegnanti e educatori a promuovere un ambiente inclusivo e proattivo, volto a sostenere il successo di ciascun studente nel processo di crescita e di apprendimento.

DSA e Bisogni Educativi Speciali (BES)

Nella scuola sono presenti molti bambini e ragazzi che, nel corso del loro percorso scolastico, spesso incontrano particolari momenti di difficoltà, relativi agli apprendimenti della lettura, scrittura o calcolo. Queste difficoltà possono presentarsi o lievemente o gravemente, incidendo sul rendimento scolastico del bambinoragazzo, provocando anche problemi di adattamento e autostima.

Il disagio psicologico che ne deriva, il senso di scarsa autostima, le diverse reazioni, strategie di adattamento, molto spesso vengono interpretate dagli insegnanti come scarso impegno, o svogliatezza.

Per questo risulta necessario fare una distinzione tra, il termine difficoltà d’apprendimento, che si riferisce a qualsiasi difficoltà che lo studente potrebbe incontrare nel percorso scolastico, e il termine di Disturbo Specifico dell’Apprendimento, (DSA), il quale fa riferimento alla presenza di un deficit più specifico, che viene indagato e verificato attraverso un procedimento clinico-diagnostico. (Cornoldi, 1999; 2007).

Il disturbo infatti, è innato, resistente all’intervento che si decide di attuare, e resistente all’ automatizzazione. Invece, la difficoltà, a differenza del disturbo, non è innata, è modificabile con i giusti interventi; automatizzabile, anche se in tempi dilatati.

Quando si parla di Disturbi Specifici dell’Apprendimento non possiamo non far riferimento alla macrocategoria politica, e non clinica, dei Bisogni Educativi Speciali, (BES), in quanto essi sono inglobati in questa categoria; essa, cerca di individuare e dare un’adeguata tutela personalizzata a tutti gli alunni, trasformando in speciali i loro normalissimi bisogni educativi.

«…È qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo, apprenditivo, espressa in un funzionamento (secondo il modello ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità), problematico per il soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale, che necessita di un’educazione speciale individualizzata…» (Ianes, 2005).

All’interno della macrocategoria politica dei bisogni educativi speciali (BES), rientrano tutti coloro che presentano un disturbo specifico dell’apprendimento, ovvero un disturbo neurobiologico, che riguarda specifiche aree di apprendimento, come quelle di lettura, scrittura e calcolo, ma senza alcuna compromissione dell’intelligenza generale. Essi tendono a coesistere assieme nello studente, tecnicamente definito comorbilità, e si associa ad altri disturbi neuropsicologici e patologici.

I disturbi specifici dell’apprendimento nella società odierna sono sempre più emergenti e presenti, tale da rappresentare una sfida giornaliera molto importante, per tutti coloro che ne sono coinvolti.

 

L’importanza nel riconoscere precocemente i DSA

Risulta fondamentale riuscire a identificare precocemente i disturbi specifici dell’apprendimento, in modo da poter definire un intervento che sia mirato ed efficace.

Tale aspetto è tanto emergente sia nella legge 170 del 2010, sia nelle nuove linee guida emanate a

distanza di dieci anni dalle precedenti. Successivamente, la Conferenza Unificata Stato-Regioni, ha approvato le Indicazioni per la diagnosi e la certificazione dei disturbi specifici di apprendimento (DSA), e il Miur le «Linee guida per la predisposizione di protocolli regionali per l’individuazione precoce dei casi sospetti di DSA».  Entrambi i documenti forniscono chiare indicazioni per la gestione clinica dei DSA, che necessitano di essere supportate dall’evidenza scientifica aggiornata.

La Legge 170/2010 (art. 3, comma 3), e i successivi decreti attuativi hanno previsto che le scuole, a partire dall’ultimo anno della scuola d’infanzia, attuino iniziative mirate all’identificazione precoce di bambini a rischio di DSA, sulla base di protocolli regionali in accordo con i Servizi Sanitari.

Il clinico dovrebbe disporre di criteri diagnostici evidence based, in modo da poter distinguere tutte le difficoltà connesse a fattori relative al contesto familiare, ambientale e culturale.

Le recenti Linee Guida (ISS, 2022), sottolineano che per ogni disturbo, le prove strumentali devono garantire sensibilità, quindi basso rischio di falsi negativi, e specificità, basso rischio di falsi positivi, per la diagnosi.

Tante istituzioni scolastiche, si sono già mosse, attuando diversi screening, valutazioni, ed interventi, in quanto per i bambini con DSA, occorre un’attenzione speciale.

Nel contesto classe, l’insegnante dovrebbe riuscire ad osservare i differenti comportamenti, atteggiamenti, che i bambini fin dalla scuola dell’infanzia mostrano. Molti di questi, possono essere dei piccoli segnali predittori di DSA.

È importante considerare nel processo diagnostico dei DSA, indipendentemente dall’età la valutazione di queste competenze cognitive: funzioni attentive, in particolare visive; memoria di lavoro, verbale e visuo-spaziale; funzioni esecutive, in particolare competenze di pianificazione e monitoraggio;  abilità di elaborazione fonologica; competenze linguistiche, abilità di recupero lessicale, ma anche competenze lessicali e morfo-sintattiche in comprensione e produzione; competenze visuo-spaziali e della motricità fine.

È da sottolineare, come molte di queste caratteristiche, si manifestano assieme a un livello estremo nello stesso individuo, solo raramente, ma osservando attentamente, si possono individuare tutti i soggetti che ne presentano la maggior parte, anche se in maniera sfumata.

Questi comportamenti, che possono presentarsi nei bambini della scuola dell’infanzia, sono:

anomalie nelle sequenze, ovvero, confondere i giorni della settimana; non ricordare i mesi dell’anno; mostrare difficoltà nel memorizzare le date; non saper riconoscere il susseguirsi delle stagioni; far faticare nel riconoscere le lettere nelle parole, e le parole all’interno delle frasi; non saper elencare correttamente i numeri, avanti e indietro;

difficoltà nell’orientamento spazio-temporale: confondere tra la destra e la sinistra; aver difficoltà nel riconoscere gli oggetti dentro o fuori da un campo; confondere sopra e sotto; non distinguere temporalmente ieri, oggi, domani, prima, dopo; non saper leggere l’orologio;

coordinazione motoria: apparire goffi; mostrare difficoltà nelle attività sportive in cui si usano le mani, o i piedi, ad esempio calcio e basket; non riuscire ad allacciare le scarpe o chiudere bottoni; non riuscire ad utilizzare le forbici; difficoltà nel rispettare le linee armoniche nel disegno o nel rispettare i bordi mentre si colora; difficoltà nella copia da modello, o disordine del foglio; non riuscire a battere le mani a tempo di musica;

abitudini nel gioco: mostrare difficoltà nell’uso dei puzzle, delle costruzioni; avere scarso interesse per le storie audio-visive; predilezione verso la televisione; attrazione verso gli automatismi semplici dei videogame;

relazioni con gli altri: mostrare difficoltà nella comprensione di consegne verbali; nel seguire più istruzioni allo stesso tempo; disturbo della memoria; difficoltà nell’espressione verbale fluente anche se si dispone di un buon vocabolario; dimenticare o perdere le parole che si avevano in mente; difficoltà nel creare neologismi; scambiare parole; usare onomatopee o suoni durante l’esposizione; usare strutture grammaticali fantasiose; ripetere le parole in modi diversi; essere concisi; avere difficoltà nell’apprendimento delle filastrocche o nell’imparare rime; disegnare un volto, ad esempio, senza le parti essenziali.

organizzazione del lavoro: avere poca puntualità; dimenticare i diversi materiali di lavoro; perdere o rompere i materiali, ricorrendo a richieste esterne.

 

La Dislessia

Tra i diversi DSA rientra la dislessia. Il termine dislessia deriva dal greco, ed è formato da dys, che significa mancante o inadeguato, e lexis, che significa parola o linguaggio, e viene tradotto come linguaggio mancante o inadeguato. Letteralmente significa difficoltà con le parole. Esso fa proprio riferimento all’incapacità di riprodurre il linguaggio con la rapidità e l’abilità che un individuo dovrebbe possedere in relazione all’età e al rendimento mostrato in altre attività.

Spesso i ragazzi con dislessia si esprimono verbalmente in maniera corretta a parole, ma presentano difficoltà nella lettura e scrittura.

La dislessia è un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA), che riguarda la capacità di leggere, in modo accurato e fluido. L’alunno presenta una compromissione nello sviluppo delle capacità di lettura, che non è solamente spiegata dall’età mentale, da problemi di acutezza visiva o da un’inadeguata istruzione scolastica. Un soggetto è dislessico, quando presenta una discrepanza tra le competenze cognitive, che risultano essere nella norma, e le performance di lettura, senza un’evidente causa fisica, emotiva o culturale.

Si tratta di una condizione neurobiologica, non dovuta a mancanza di intelligenza né a deficit sensoriali o educativi, ma ad una disfunzione nell’elaborazione delle informazioni linguistiche.

Gli individui con dislessia possono avere difficoltà nella corretta decodifica dei suoni delle lettere, fonemi e nella corrispondenza tra lettere e suoni, grafema-fonema, compromettendo così la capacità di riconoscere le parole in modo automatico. Ogni studente con disturbo specifico dell’apprendimento è unico nel suo genere: infatti, non esistono studenti con la stessa identica forma di disturbo. Alcuni dei campanelli d’allarme che permettono di poter riconoscere la presenza della dislessia nel bambino sono: difficoltà nel riconoscere e memorizzare le parole; scarsa fluidità nella lettura ad alta voce; errori frequenti nell’ortografia; difficoltà nel seguire le istruzioni scritte.

I documenti internazionali il DSM-5 e l’ ICD-10 considerano il disturbo nella lettura sia a livello di decodifica, che nella comprensione del testo; pertanto, basta solamente una di queste componenti deficitaria per ricevere la diagnosi di disturbo della lettura.

Bisognerebbe prevedere di somministrare  prove adeguatamente standardizzate di lettura a più livelli: parole, non-parole e brano. Ovviamente esse vengono somministrate dagli specialisti del settore, come neuropsichiatra infantile, psicologo, logopedista.

Ovviamente, è bene ricordare alcune caratteristiche dei DSA: il disturbo è innato, quindi sarà sempre presente nel percorso evolutivo del bambino; la modificabilità, anche se con esercizi specifici di abilitazione, risulta modesta; gli adattamenti didattici risultano poco sufficienti per migliorare il quadro clinico; la prestazione è resistente all’automatizzazione, quindi anche se i livelli di correttezza possono migliorare, la lentezza rimane, tanto da considerare l’ipotesi di non completa acquisizione del processo (Tressoldi e Vio, 2008).

Infine, per poter effettuare la diagnosi di disturbo specifico della lettura, bisogna aspettare la fine della seconda classe primaria, anche se è possibile effettuare un’ipotesi diagnostica già alla fine della prima classe primaria, specialmente per tutti quei bambini che mostrano profili di funzionamento molto compromessi, e anche in presenza di una condizione di rischio, come un pregresso disturbo del linguaggio, o la familiarità del disturbo (AID, 2009).

 

L’importanza della metacognizione per gli studenti con disturbo della lettura

Per la realizzazione di un apprendimento efficace è necessario che esso si ispiri a modelli concettuali che considerano differenti proposte alternative innovative, non solo nozionistiche.

Si dovrebbe pensare di operare su più livelli, in modo che sia gli insegnanti che gli studenti possano estendere la capacità di regolare e autoregolare le abilità di apprendimento, favorendo anche lo sviluppo di attitudini personali, relazionali e sociali. Questo si può ottenere fornendo agli alunni un ampio scenario di conoscenze che si rivolgano sia, all’ambito della didattica, sia alla comprensione delle abilità, e attitudini personali. Ed è per questo che attraverso lo sviluppo di abilità metacognitive ogni soggetto può raggiungere ed avere maggiore consapevolezza delle proprie capacità e peculiarità.

Il concetto di metacognizione, inteso come apprendere ad apprendere, imparare ad imparare, viene definito attraverso la consapevolezza che i soggetti riescono a raggiungere delle proprie facoltà cognitive ed attraverso la conoscenza e la regolazione delle proprie peculiarità personali e relazionali, di tutte quelle abilità, quindi, che concorrono ad un percorso istruttivo ed evolutivo efficace e significativo.Il termine metacognizione indica una dimensione mentale che va oltre la cognizione e che significa letteralmente «riflessione sui processi mentali» o semplicemente, “pensare sul pensiero”.

Fa riferimento alla capacità di ciascuno di rendersi conto di quali siano i processi implicati in ciò che si esegue, delle motivazioni sottostanti e delle situazioni contingenti più favorevoli, sia alla capacità di controllare, dirigere e valutare in modo attivo i propri processi cognitivi (Cornoldi, 1995).

 

La didattica metacognitiva

La didattica metacognitiva rappresenta un modo di fare scuola, sia nelle normali attività curricolari, sia nel recupero e sostegno, che usa sistematicamente i vari concetti e le metodologie derivanti dagli studi sulla metacognizione (Cornoldi, 1995).

Nella didattica metacognitiva il ruolo dell’insegnante è quello di formare abilità mentali superiori di autoregolazione che vanno al di là dei semplici processi cognitivi di lettura, scrittura e calcolo.

Al di là della cognizione, significa saper fare sviluppare nell’alunno la consapevolezza di ciò che sta facendo, del motivo per il quale lo fa, di quando è necessario farlo e in quali condizioni.

Attraverso questo approccio metacognitivo si tende a far sì che l’alunno sia il più possibile “gestore” diretto dei propri processi cognitivi, gestendoli attivamente con proprie valutazione e indicazioni operative. Inoltre, tale approccio nella didattica ha fatto registrare risultati positivi sia a livello della metodologia didattica, sia per tutti gli interventi di recupero e sostegno di quelli con difficoltà di apprendimento e ritardo mentale lieve o medio.

Infatti, l’insegnante che opera attraverso la metacognizione interviene su quattro livelli differenti:

conoscenze sul funzionamento cognitivo in generale, qui l’insegnante fornisce una serie di dati, informazioni, utili al far comprendere al bambino il funzionamento dei vari processi cognitivi e risolutivi, ad esempio come funziona la memoria, come risolvere problemi, scrivere, ecc., sui meccanismi anche che li rendono possibili, ed anche sui limiti che potrebbero condizionare la prestazione. Quindi, impara tutti i diversi input generali di base, che poi gli serviranno per i più complessi.

Autoconsapevolezza del proprio funzionamento cognitivo, ovvero, si passa dalle conoscenze teoriche generali a quelle più individuali, ovvero l’alunno deve conoscere il suo personale funzionamento cognitivo e comportamentale, e di conseguenza i suoi punti di forza e debolezza. Qui si parla di introspezione, autoanalisi e autoconsapevolezza di cosa, come sto pensando, valutando, ricordando ecc.  In questo livello il feedback positivo dell’insegnate sulle prestazioni dell’allievo è fondamentale, in modo che esso abbia un’informazione di ritorno.

Uso generalizzato di strategie di autoregolazione, qui l’alunno sa dirigere consapevolmente e attivamente sé stesso, riesce a governare i propri processi cognitivi. In questo processo di controllo e autoregolazione è fondamentale attivare delle fasi: porsi un obiettivo; darsi delle istruzioni; osservare l’andamento del processo; confrontare i dati con gli obiettivi che si erano prefissati; valutare positivo o negativo il processo in base ai risultati prodotti.

Mediazioni cognitive-motivazionali-emotive, l’alunno reagisce ai vari input in maniera personale, interpretando tutto ciò che vive, e che produce effetti sulle azioni; questo perché l’alunno costruisce una sua realtà mentale: questo aspetto è emergente nell’approccio sociocostruttivistico (Carletti e Varani, 2004; Roletto, 2005).

 

L’educazione alla prosocialità: i compagni una risorsa preziosa

Un altro elemento fondamentale per poter sviluppare una didattica che sia finalizzata all’inclusione è quello di educare gli allievi alla messa in atto di condotte che siano prosociali.

Promuovere un atteggiamento orientato alla valorizzazione degli aspetti positivi dei compagni, anche di coloro che “apparentemente” sono più in difficoltà, al rafforzamento dell’empatia e della promozione di azioni di aiuto e sostegno è la base dalla quale partire per poter costruire un clima favorevole all’inclusione.

Il comportamento prosociale viene considerato dalla maggior parte degli psicologhi, (Batson, 1998; Eisenberg, Fabes, Spinrad, 2006), come qualsiasi comportamento volontario diretto volto a beneficiare altre persone. È difficile definirlo in maniera univoca, gli studiosi Mussen ed Eisenberg (1985), cercarono di dare un’interpretazione a questi comportamenti, definendole come: “…un comportamento diretto ad aiutare o beneficiare un’altra persona o un gruppo di persone, senza aspettarsi ricompense esterne” (Mussen,  Eisenberg, 1985).

Le differenti azioni sono finalizzate a favorire il benessere altrui, rispettando le caratteristiche e le peculiarità personali. Mettere in atto azioni prosociali di aiuto nei confronti di compagni con disabilità o con BES, dipende da varie condizioni che fanno riferimento anche a delle capacità, come:

abilità cognitive, ovvero implementare azioni prosociali, aver la capacità di leggere e interpretare lo stato d’animo del bisogno del compagno, portare avanti un aiuto, valutare ed accettare il costo collegato all’emissione della condotta prosociale, monitorare gli effetti e anche della propria azione su di sé, sul compagno ed eventuali altre persone;

l’assertività, cioè la capacità della persona di portare avanti i propri obiettivi attraverso modalità socialmente adeguate e rispettose dell’interlocutore. Vi è una forte correlazione tra l’assertività e la prosocialità, in quanto non basta possedere buoni livelli di empatia e adeguate abilità cognitive per adottare condotte prosociali, in quanto dovrebbero collegarsi al saper individuare percorsi idonei per ridurre il disagio dell’altro (Mussen, Einsberg-Berg, 1985; Roche, Salfi, Barbara, 1991);

l’empatia, ovviamente riuscire a discriminare, comprendere e assumere il punto di vista dell’altro, quindi del compagno con BES, dal punto di vista sia cognitivo che emozionale

autocontrollo, competenza essenziale per promuovere e sviluppare azioni prosociali. Ad esempio, molte volte, molti bambini si trovano nella condizione di dover scegliere se perseguire un fine personale, come continuare un gioco, o prestare ascolto alla richiesta d’aiuto di un compagno, condizione sicuramente meno gratificante.

 

Conclusioni

L’inclusione scolastica rappresenta un pilastro fondamentale per poter garantire un ambiente educativo equo per tutti gli alunni. L’importanza di riconoscere e affrontare i Disturbi Specifici dell’Apprendimento, pertanto, non può essere sottovalutata. La diagnosi precoce e un intervento mirato possono significativamente migliorare le esperienze scolastiche e personali degli studenti che affrontano tali difficoltà.

La formazione di insegnanti consapevoli delle diverse esigenze degli alunni è cruciale. Non solo è essenziale che gli educatori familiarizzino con i segnali di allerta per i DSA, ma devono anche approcciare l’insegnamento in modo metacognitivo, promuovendo la consapevolezza delle proprie capacità cognitive negli studenti.

Un’altra dimensione fondamentale del processo educativo è rappresentata dall’educazione alla prosocialità, che incoraggia relazioni positive e l’empatia tra compagni.

La costruzione di un ambiente scolastico inclusivo va oltre il semplice supporto didattico: implica la creazione di un clima di accettazione, rispetto e collaborazione tra tutti gli alunni, dove ciascuno possa sentirsi valorizzato e ascoltato.

Infine, è essenziale mantenere un dialogo costante tra scuola, famiglie e istituzioni sanitarie.

Solo attraverso un approccio integrato, che coinvolga tutte le parti interessate, è possibile garantire ad ogni alunno, indipendentemente dalle proprie difficoltà e specificità, un accesso a un percorso educativo significativo e soddisfacente, non solo a livello nozionistico, ma anche sotto l’aspetto del benessere personale e psicologico. I

n questo modo, si promuove non solo il successo scolastico, ma si contribuisce anche alla formazione di cittadini consapevoli, responsabili e inclusivi, capaci di affrontare le sfide del futuro.

 

Bibliografia

AID- Associazione Italiana Dislessia, Comitato Promotore Consensus Conference (a cura di), (2009), Disturbi Evolutivi Specifici di Apprendimento, Raccomandazioni per la pratica clinica di dislessia, disortografia, disgrafia, discalculia, Trento, Erickson.

Andrich. A. (2015). Strategie di lettura metacognitiva, Attività per comprendere i testi in modo consapevole, riflessivo e cooperativo, Trento, Erikson

Bortone, M. (2007). Le “generalità” della condotta prosociale. In Scienze del pensiero e del comportamento, nuova seria n.1.

Borkowski J.G. e Muthykrishna N. (2011). Didattica metacognitiva, Trento, Erikson.

Caprara, G. V., Bonino, S. (2006). Il comportamento prosociale: aspetti individuali, familiari e sociali. Trento: Erikson.

Cornoldi C. (1991). I disturbi dell’apprendimento, Bologna, Il Mulino.

Cornoldi C. e Caponi B. (1991). Memoria e metacognizione, Trento, Erikson.

Cornoldi C. e Tressoldi P.E. (2007). Difficoltà e disturbi dell’apprendimento, Bologna, Il Mulino.

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De Beni R., e Pazzaglia F. (1991). Lettura e metacognizione, Trento, Erikson.

Friso G., Palladino P., e Cornoldi C. (2006). Avviamento alla metacognizione, Trento, Erikson.

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Stella G. e Svelli E., (2011). Dislessia oggi. Prospettive di diagnosi e intervento in Italia dopo la legge 170, Trento, Erikson.

Zappaterra T. (2012). La lettura non è un ostacolo. Scuola e DSA, ETS, Pisa. 

Apprendere Meglio

Apprendere Meglio: Un Obiettivo Realizzabile grazie ai Progressi delle Neuroscienze e delle Scienze Cognitive

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Oggi, le neuroscienze e le scienze cognitive ci offrono strumenti fondamentali per progettare unità di apprendimento efficaci, capaci di valorizzare al massimo le potenzialità del nostro cervello e della nostra memoria. Come affermava Jerome Bruner, “L’istruzione deve essere concepita per facilitare il processo di scoperta” (Bruner, 1961), e questo richiede un approccio che tenga conto delle modalità di elaborazione delle informazioni da parte della mente umana.

La teoria del carico cognitivo, sviluppata da John Sweller (1988), rappresenta un pilastro nella comprensione dei limiti della memoria di lavoro e della loro influenza sull’apprendimento. La memoria di lavoro, infatti, è una risorsa limitata: può gestire solo un numero ristretto di informazioni contemporaneamente. Questo impone una progettazione didattica che eviti il sovraccarico cognitivo, poiché un eccesso di stimoli o complessità rischia di ostacolare il processo di apprendimento, mentre un uso equilibrato di queste risorse consente agli studenti di affrontare attività complesse con maggiore sicurezza.

Applicare questi principi significa adottare strategie didattiche mirate, come la riduzione del carico estraneo — informazioni superflue che distraggono dal nucleo dell’apprendimento — e l’introduzione di scaffolding, ovvero supporti temporanei che guidano gli studenti verso una comprensione autonoma. Lev Vygotskij, con la sua teoria della zona di sviluppo prossimale (ZDP), aveva già sottolineato l’importanza di offrire aiuto solo nella misura necessaria per consentire agli studenti di superare le difficoltà e avanzare verso una maggiore autonomia.

Un altro aspetto cruciale riguarda la motivazione. Come evidenziato dagli studi di Carol Dweck sulla growth mindset (Dweck, 2006), la convinzione di poter migliorare attraverso l’impegno e l’apprendimento incrementa significativamente il coinvolgimento e il successo scolastico. Per questo motivo, è essenziale progettare esperienze formative che non solo rispettino i limiti cognitivi, ma anche stimolino negli studenti il desiderio di apprendere. Un bambino o un ragazzo, se messo nelle condizioni di raggiungere il successo formativo, sviluppa un amore per lo studio che può trasformarsi in un fattore determinante per il suo futuro.

Le neuroscienze ci offrono ulteriori conferme. Come sottolinea Stanislas Dehaene nel suo testo “ Apprendre! Les talents du cerveau, le défi des machines ” (2018), il cervello umano è una macchina straordinaria per l’apprendimento, capace di adattarsi e migliorare attraverso esperienze significative e ben progettate. Dehaene evidenzia l’importanza di consolidare l’apprendimento attraverso la ripetizione distribuita e il richiamo attivo, tecniche che non solo potenziano la memoria, ma facilitano anche il trasferimento delle conoscenze in contesti diversi.

Infine, un sistema educativo realmente efficace deve integrare le scoperte neuroscientifiche con pratiche pedagogiche innovative e inclusive. È essenziale, come sosteneva Maria Montessori, “Liberare il potenziale del bambino affinché si trasformi in un mondo migliore”. La combinazione di teorie cognitive, motivazione e progettazione didattica consente di creare un ambiente in cui ogni studente possa non solo apprendere, ma anche eccellere.

Apprendere meglio, dunque, è possibile. Richiede un’educazione che ponga al centro la persona, valorizzandone le capacità cognitive e motivandola attraverso esperienze significative e ben strutturate. Solo così possiamo trasformare le potenzialità in realtà e preparare le nuove generazioni ad affrontare le sfide del futuro con competenza e consapevolezza.

 

Le tipologie di carico cognitivo

La teoria distingue tra due tipi principali di carico cognitivo, ciascuno con implicazioni fondamentali per l’insegnamento e l’apprendimento.

Il carico cognitivo intrinseco si riferisce alla complessità intrinseca del materiale didattico, che dipende dalla natura stessa dell’argomento e dal livello di conoscenze pregresse degli studenti. In sostanza, più un concetto è articolato e nuovo, maggiore sarà il peso che esso impone sulla memoria di lavoro. Tuttavia, questa complessità è necessaria per l’acquisizione di competenze avanzate e non può essere evitata del tutto, ma solo gestita attraverso strategie didattiche che costruiscano progressivamente la comprensione.

Al contrario, il carico cognitivo estraneo riguarda il modo in cui le informazioni vengono presentate. Una comunicazione confusa, ridondante o mal strutturata può amplificare inutilmente le difficoltà, distraendo gli studenti dall’obiettivo di apprendimento. Eliminare questi ostacoli richiede un’attenzione costante alla chiarezza e alla coerenza delle istruzioni, utilizzando materiali che facilitino la concentrazione sul compito principale.

Entrambi i tipi di carico sottolineano l’importanza di un approccio consapevole nella progettazione delle lezioni, in cui la complessità è calibrata e le distrazioni sono ridotte al minimo, per creare un ambiente di apprendimento che sia stimolante ma non opprimente.

 

La ricerca sull’EEF e le strategie didattiche

Secondo l’Education Endowment Foundation (EEF), una delle organizzazioni leader nella ricerca sull’educazione, la gestione del carico cognitivo non si limita a semplificare i contenuti, ma richiede una progettazione mirata che ottimizzi l’uso della memoria di lavoro (EEF, 2023). L’EEF si concentra sul fornire agli insegnanti strumenti basati su prove per migliorare gli esiti scolastici, in particolare per gli studenti svantaggiati.

Nel contesto del carico cognitivo, l’EEF sottolinea che l’obiettivo non è ridurre la complessità, ma supportare gli studenti nel gestirla. Questo avviene attraverso pratiche che rendono più accessibili concetti complessi. Ad esempio, gli esempi elaborati rappresentano una strategia efficace per facilitare la comprensione: schemi e modelli concreti riducono il carico cognitivo intrinseco, consentendo agli studenti di integrare nuove conoscenze con quelle pregresse. Inoltre, l’utilizzo di scaffold mirati, ovvero supporti temporanei che guidano gli studenti, permette loro di affrontare problemi complessi con gradualità, adattandosi al loro livello di competenze iniziali.

L’approccio dell’EEF si fonda su un principio cardine: ogni studente parte da un punto diverso e ha bisogni specifici. Monitorare continuamente i progressi consente di calibrare il supporto, eliminandolo quando gli studenti acquisiscono autonomia o reintroducendolo se emergono difficoltà. Questo processo dinamico non solo migliora l’apprendimento, ma costruisce anche fiducia nelle capacità degli studenti di affrontare sfide crescenti.

Carico cognitivo e carico percettivo

Michael Hobbiss evidenzia una connessione cruciale tra carico cognitivo e carico percettivo, mettendo in luce le dinamiche attraverso cui queste due dimensioni influenzano la nostra capacità di apprendere e concentrarci (TES, 2023). Il carico percettivo, che si riferisce alla nostra capacità di focalizzarci su un numero limitato di stimoli alla volta, diventa un alleato nell’apprendimento quando è bilanciato in modo ottimale. Se la memoria di lavoro è sovraccaricata da informazioni o compiti eccessivamente complessi, gli studenti rischiano di perdere il filo logico, diventando più vulnerabili alla distrazione e meno efficaci nelle loro prestazioni. Tuttavia, un elevato carico percettivo, se ben gestito, può paradossalmente migliorare la concentrazione: impegnando le risorse cognitive su un obiettivo specifico, si riduce l’elaborazione di stimoli irrilevanti, creando una sorta di “filtro” naturale contro le distrazioni. Questa comprensione suggerisce che l’equilibrio tra carico cognitivo e percettivo non è solo una questione di evitare il sovraccarico, ma di progettare esperienze che indirizzino efficacemente l’attenzione degli studenti verso gli elementi fondamentali del compito.

Applicazioni pratiche in classe

Per mettere in pratica la teoria del carico cognitivo, è cruciale sviluppare approcci che rispettino i limiti della memoria di lavoro trasformandoli in opportunità per costruire esperienze di apprendimento più significative. La codifica duale, per esempio, non si limita a integrare informazioni visive e verbali: essa genera una rete sinergica di percorsi cognitivi che potenziano la comprensione e rendono il ricordo più solido. Questo meccanismo stimola simultaneamente più modalità sensoriali, creando connessioni ricche che favoriscono l’accesso alle conoscenze acquisite.

La gestione delle distrazioni va ben oltre la semplice organizzazione dello spazio fisico. Essa rappresenta una strategia chiave per massimizzare l’efficienza del focus cognitivo. Eliminare stimoli non pertinenti non significa solo rendere l’ambiente ordinato, ma preservare preziose risorse cognitive che possono essere canalizzate verso i compiti principali. Parallelamente, la semplificazione delle istruzioni facilita l’immersione nello studio: fornire passaggi chiari e sequenziali evita fraintendimenti e ottimizza l’utilizzo della memoria di lavoro, rendendo più fluida l’intera esperienza educativa.

I supporti persistenti, come materiali scritti o strumenti visivi, non sono semplicemente risorse didattiche: essi agiscono come punti di ancoraggio cognitivi, stabilizzando l’apprendimento e offrendo sicurezza durante le difficoltà. Questi strumenti permettono agli studenti di avanzare con maggiore autonomia, trasformando i momenti di incertezza in opportunità di consolidamento.

La progettazione di sfide calibrate, infine, è un atto pedagogico che richiede precisione e sensibilità. Proporre compiti che bilancino complessità e capacità non significa semplificare, ma stimolare in modo adeguato le potenzialità cognitive e percettive degli studenti. Tali sfide, concepite per essere impegnative ma non opprimenti, trasformano il processo di apprendimento in un viaggio dinamico e motivante, in cui la crescita personale si costruisce attraverso il superamento consapevole di ostacoli e difficoltà.

Implicazioni per l’insegnamento personalizzato

La teoria del carico cognitivo evidenzia l’importanza di un insegnamento personalizzato, in grado di rispondere alle diversità individuali che ogni studente porta con sé. Le conoscenze pregresse e la capacità di elaborazione non sono solo variabili personali, ma rappresentano punti di partenza fondamentali per progettare un apprendimento efficace. L’insegnamento flessibile, che adatta il livello di sfida e calibra il supporto offerto, non è semplicemente una strategia didattica, ma un atto di riconoscimento della complessità umana e delle potenzialità di ciascun individuo.

Gestire il carico cognitivo significa trasformare i limiti della memoria di lavoro in opportunità per progettare percorsi che valorizzino al massimo le risorse cognitive degli studenti. Non si tratta solo di evitare il sovraccarico, ma di creare situazioni in cui ogni sfida diventa occasione di crescita, ogni difficoltà un passaggio verso una comprensione più profonda e duratura. L’educazione non è mai neutrale: è un incontro tra il sapere dell’insegnante e il potenziale dello studente, un processo continuo in cui l’obiettivo non è solo trasferire conoscenze, ma coltivare menti in grado di affrontare con autonomia e consapevolezza le complessità del mondo.

Aspetti neuroscientifici e pedagogici

Uno degli aspetti centrali della teoria del carico cognitivo riguarda le sue fondamenta neuroscientifiche e pedagogiche, che trovano conferma in studi consolidati. John Medina, nel suo libro Brain Rules (2008), evidenzia come il cervello umano sia progettato per elaborare le informazioni in modo sequenziale, sottolineando che un sovraccarico cognitivo simultaneo riduce significativamente l’efficacia della memoria di lavoro. Medina enfatizza la necessità di strutturare l’apprendimento, in modo da rispettare i limiti della nostra capacità cognitiva.

Maryanne Wolf, nel suo testo Proust and the Squid (2007), esplora invece le connessioni tra la lettura e lo sviluppo dei percorsi neurali, dimostrando che un approccio didattico mirato può modellare il cervello per affrontare la complessità dei compiti cognitivi. Questo adattamento, tuttavia, richiede un ambiente di apprendimento che fornisca tempo e strumenti adeguati per costruire tali connessioni.

Dal punto di vista pedagogico, Mario Polito, in “ Apprendere ad apprendere “ (2011), sottolinea l’importanza della metacognizione nel processo educativo. La riflessione sul proprio apprendimento diventa essenziale per gestire il carico cognitivo in modo efficace, consentendo agli studenti di sviluppare strategie personalizzate per affrontare compiti complessi. La combinazione di neuroscienze e pedagogia offre quindi una guida preziosa per progettare esperienze didattiche che rispettino i limiti cognitivi, stimolando al contempo il potenziale di ciascun individuo.

Conclusioni

La teoria del carico cognitivo offre una lente preziosa per analizzare e migliorare i processi educativi. Comprendere i limiti della memoria di lavoro consente agli educatori di progettare esperienze didattiche che non solo rispettano la capacità cognitiva degli studenti, ma li stimolano ad apprendere in modo efficace e duraturo. Questa teoria ci invita a guardare all’insegnamento non come una semplice trasmissione di informazioni, ma come un’arte che richiede consapevolezza e adattamento.

Investire nella gestione del carico cognitivo significa costruire un ponte tra teoria e pratica, tra conoscenze accademiche e bisogni individuali degli studenti. Ridurre il carico estraneo, calibrare la complessità intrinseca e sfruttare strumenti come gli esempi elaborati o gli scaffold mirati non sono solo tecniche, ma atti di cura educativa.

In un mondo in cui la complessità delle informazioni cresce esponenzialmente, questa prospettiva non è solo utile, ma necessaria. Formare studenti capaci di affrontare e gestire tale complessità è una responsabilità che gli insegnanti possono abbracciare con strumenti concreti, guidati da una visione chiara delle dinamiche cognitive che regolano l’apprendimento. Così, attraverso un’educazione consapevole e strategica, si costruisce non solo il sapere, ma anche la capacità di affrontare con successo le sfide del futuro.

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