Augias sulle tracce di Paolo di Tarso, l’uomo che inventò il cristianesimo
“Paolo: l’uomo che inventò il cristianesimo” di Augias, la recensione di Affari
Augias è noto sia ai lettori dei quotidiani sia ai telespettatori, e stimato per la sua serietà, competenza, e cortesia. E’ anche uno scrittore: si possono ricordare i suoi libri di esplorazione e guida a diverse città e capitali europee. Più recentemente ha compiuto diversi tentativi di scoprire un mondo poco conosciuto ma di grande interesse per una parte cospicua del suo pubblico, il cristianesimo antico. Fino ad ora aveva fatto questo con dei libri-intervista o avvalendosi in altro modo della guida di studiosi di cristianesimo antico o tarda antichità che per fortuna nel nostro paese non mancano, alcuni dei quali del resto devono proprio alla loro collaborazione con Augias una parte della loro notorietà presso il grande pubblico. Con Paolo: l’uomo che inventò il cristianesimo, Rai libri, Roma, 2023, egli prova a proseguire la sua attività divulgativa da sé.
Paolo ha naturalmente affascinato nei secoli ma anche negli ultimi decenni molti altri studiosi e scrittori. Si consideri ad esempio la seguente presentazione: “L’uomo che ho cercato di descrivere… non è un personaggio che appartiene al mito, ma una persona. E la sua voce autentica risuona ancora nelle sue lettere giunte sino a noi, che non solo contengono numerosi spunti autobiografici, ma sono i documenti cristiani più antichi che esistono, molto più antichi dei nostri testi scritti dei Vangeli, e presentano alcune fra le più belle pagine che la letteratura di ogni tempo abbia prodotto.” Questa non è di Augias, ma esprime pienamente lo spirito con cui anche lui ha scritto. Va bene, Paolo ha una forte personalità e sa scrivere. Ma cosa ha fatto?
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Ecco Augias: “Paolo si impadronì della figura di un profeta di cui si vociferava che fosse risorto, per trasformarla in quella del fondatore di nuova religione che lui, per mandato di Dio stesso, era stato incaricato di portare fuori di Israele per diffonderla nel mondo. E’ possibile che quel Gesù giustiziato su un patibolo romano fosse già venerato come l’atteso messia in piccole cerchie ristrette. Di quell’embrione di culto Paolo s’impadronisce con l’abituale veemenza, persuaso che tocchi a lui annunciarlo al mondo. Forte di questa convinzione, concepì e in una certa misura riuscì a imporre una variante ellenistica dell’ebraismo. Nessuno dei protagonisti pensò mai, peraltro, di doverla chiamare cristianesimo,” e questo breve passo è una bella sintesi del libro.
Proviamo ad analizzarne alcuni aspetti. Qui Augias non dice, come nel sotto-titolo del libro, che Paolo è l’inventore del cristianesimo, ma qualcosa di più sottile: che presentò l’oscuro profeta crocifisso dai romani come fondatore di una nuova religione. Infatti è radicato in molti di noi l’insegnamento che con l’Ultima Cena Gesù fondò la sua chiesa, e la sua nuova religione. Ma nella versione che ne dà Paolo, essa ha una forma dottrinale fortemente strutturata attorno a dei personaggi –principalmente, il profeta crocifisso e risorto- e dei concetti – il nuovo Adamo, il peccato originale- che la versione originaria non contemplava. Per converso, tutti gli insegnamenti propri di Gesù –le parabole, le Beatitudini, il Padre Nostro- scompaiono. Dunque, se non fondatore, co-fondatore. D’altra parte, di fronte alla tesi tradizionale di Gesù sta, come ricorda Augias, quella del grande esegeta e teologo tedesco Rudolf Bultmann, secondo cui Gesù fu un profeta apocalittico tardo-giudaico, il cristianesimo cominciò con la fede nel Risorto. Ma questa è anche il centro della fede di Paolo!
Dalla Prima Lettera ai Corinzi (15, 12-19): “Se i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.” Un’argomentazione “che vorrebbe echeggiare un sillogismo,” osserva giustamente Augias, ma che “in realtà è un serpente che gira su sé stesso mordendosi la coda.” E tuttavia da questa citazione si capisce bene l’assioma di Paolo: la resurrezione di Gesù crocifisso avrebbe segnato l’inizio di una rigenerazione complessiva del mondo nella quale tutti, alla fine ormai prossima del mondo, sarebbero risorti.
Vediamo ora un altro aspetto importante, “l’annuncio al mondo”, ossia la sua attività missionaria. Paolo è anche noto come “Apostolo delle genti”, ossia, il diffusore della nuova religione al di fuori dei confini geografici ed etnici di Israele. All’esclusivismo degli ebrei, e dei seguaci di Gesù insediati a Gerusalemme e guidati da Giacomo fratello di Gesù, Paolo sostituisce il suo universalismo teologico e metafisico. Ecco la proclamazione famosa e trionfante della Lettera ai Galati, riportata da Augias: “Non c’è più ne giudeo né greco, non c’è più né schiavo né libero, non c’è più né schiavo né donna perché tutti siete uno in Cristo Gesù.” Se questo non è il cristianesimo ne è quanto meno un preannuncio.
La religione degli ebrei aveva natura pattizia, e quindi presupponeva un certo tipo di uguaglianza tra l’uomo e Dio, e aveva dei chiari capisaldi: l’elezione (Dio aveva scelto come suo partner il popolo di Israele) la Legge, il Tempio. Questi vengono tutti travolti. Cadono le restrizioni alimentari, cade il separatismo conviviale, cade la circoncisione. La missione di Paolo verso i gentili, anche se in alcune località suscita a volte reazioni furibonde da parte degli ebrei ortodossi che vi abitano, progredisce rapidamente; quella di Pietro, che doveva convertire gli ebrei, ristagna.
Dunque Paolo smise di essere ebreo? Forse no. Ecco una sua confessione (Rom 9, 2-4): “Ho una grande tristezza e un continuo dolore nel mio cuore, perché vorrei io stesso essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, parenti miei secondo la carne, cioè gli Israeliti, ai quali appartengono l’elezione, la gloria, i patti, la legislazione, il culto e le promesse.” Niente della vecchia religione viene qui disprezzato. Dunque l’angoscia di Paolo non avrebbe potuto essere superata con una soluzione salomonica, ammettendo che anche la Legge, preziosa eredità degli Israeliti, potesse salvare? No e poi no! La Legge non ha fatto che peggiorare la situazione di questo mondo già di suo perverso, perché non riesce a rimuovere l’inclinazione dell’uomo al male, anzi la rafforza e moltiplica. Questo è il Paolo più sconcertante, che attrasse Agostino, Lutero, Calvino. A volte può essere più conciliante: la Legge potrebbe essere vista “come un pedagogo”. Ma la conclusione non cambia: La fede in Cristo è richiesta per la salvezza di gentili ed ebrei.
Non si può rimproverare ad Augias di non essersi inoltrato negli abissi teologici delle Lettere di Paolo. Augias non è e non pretende di essere Bultmann. Ha seguito Paolo nei suoi viaggi, nelle sue soste in alcune città come Corinto, Atene, Cesarea, Roma, nel suo incontro con alcune comunità di gentili e nel dispiegamento di una volontà quasi sovrumana di comunicare ma anche partecipare alla creazione di un mondo nuovo. Ha scritto un libro interessante. Curiosamente, ha omesso di ricordare una coda sorprendente ed enigmatica, un piccolo episodio recentissimo che sembra veramente un’ironia della storia.
L’11 Agosto del 2021 Papa Francesco in una sua predica aveva affrontato il tema dell’insufficienza della Legge secondo S. Paolo: “Non si deve pensare che San Paolo fosse contrario alla Legge mosaica. No, la osservava. Più volte, nelle sue Lettere, ne difende l’origine divina e sostiene che essa possiede un ruolo ben preciso nella storia della salvezza… La Legge però non dà la vita, non offre il compimento della promessa, perché non è nella condizione di poterla realizzare… La Legge è un cammino che ti porta avanti verso l’incontro”, mentre chi cerca la vita ha bisogno di guardare alla promessa e alla sua realizzazione in Cristo”. Sembrava pensato apposta per smussare il dilemma. Ma invece immediatamente dopo arrivò in Vaticano una lettera del rabbino di Israele incaricato dei rapporti col Vaticano, che esprimeva, come se fosse venuta da 2000 anni prima, la preoccupazione che il Papa (e non Paolo di Tarso) avesse dichiarato obsoleta la Legge e pertanto non più praticabile la religione ebraica. Chiedeva un chiarimento per “assicurare che ogni conclusione dispregiativa sia chiaramente ripudiata.”
Personalmente, come cristiano, io avrei risposto che era ormai tardi: come il buddismo si staccò dall’induismo, così il cristianesimo dall’ebraismo. Forse delle differenze tra le due religioni resistono ad ogni tentativo di chiarimento, pur compiuto in buona fede, e restano: senza alcuna implicazione di disprezzo reciproco. Ma non fu quella la risposta che arrivò dal Vaticano, il 30 Agosto, firmata da un dotto vescovo argentino amico di Francesco. Essa esprime bene l’ecumenismo e allo stesso tempo la serietà teologica ed esegetica di questo Papa, la sua cura per l’eredità comune, l’Antico Testamento: “Ebrei e cristiani riconosciamo che la sola legge esterna non può cambiarci senza l’opera purificatrice e trasformatrice di Dio (Ez 36, 25-27), che per noi [cristiani] ha già cominciato a rendersi presente nel suo Messia (Gal 2, 20-21).”
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