Di Fabio Gervasio
L’università che apre le porte al mondo della scuola per sperimentare e dare valenza a nuove metodologie pedagogiche. Ne abbiamo parlato con la Professoressa Giusi Toto, Docente di Pedagogia e Didattica Speciale dell’Università degli Studi di Foggia.
Professoressa Toto, lo scorso 12 ottobre avete realizzato un BootCamp dedicato all’apprendimento, ci spiega di cosa si è trattato?
Il BootCamp ricalca le attività di addestramento che gli studenti devono svolgere in determinate abilità e competenze per poi misurarsi, alla fine delle 24 ore di attività, davanti ad una giuria presentando dei lavori o dei prodotti che possono essere validi rispetto agli obiettivi che sono stati prefissati all’inizio della gara. Nel nostro caso abbiamo parlato della noia nello studio e il BootCamp si è sviluppato con una prima parte dedicata al metodo Bortolato, che vuole sviluppare un apprendimento ludico, mentre nella seconda parte, quindi dalle nove di sera in poi, attraverso degli speech motivazionali da parte di relatori scelti su varie tematiche, abbiamo provato a stimolare la curiosità e la creatività per affrontare con gli studenti universitari alcune soluzioni creative al fine di affrontare il tema della noia nello studio, nell’apprendimento, nella demotivazione e quindi raggiungere queste soluzioni nel minor tempo possibile.
Per questo BootCamp avete avuto una partecipazione molto eterogenea che va dagli studenti universitari ai docenti fino agli studenti degli ultimi anni della scuola secondaria di secondo grado, come siete riusciti a farli lavorare insieme?
In realtà è un pregiudizio tenere le persone legate rispetto alla fascia d’età, è molto più facile riuscire a far lavorare insieme persone non coetanee. Questo accade perché siamo abituati al contesto delle classi dove queste sono sostanzialmente omogenee per fasce d’età e per contesti sociali d’appartenenza, invece se vogliamo stimolare una vera integrazione questa non deve essere soltanto legata a certi elementi e certe competenze, ma anche a competenze trasversali rispetto alle varie fasce d’età. Se dobbiamo raggiungere un obiettivo sono necessarie diverse competenze ed esperienze, ogni partecipante ad un gruppo deve poter produrre una diversa attività e portare la propria esperienza. Un docente ovviamente ha un’esperienza in campo di programmazione molto più ampia rispetto ad uno studente, invece uno studente conosce i linguaggi della comunicazione o le tecniche digitali e gli strumenti in maniera più approfondita rispetto ad un docente, anche perché sono il suo pane quotidiano. Quindi mescolare competenze, fasce d’età, obiettivi e modi di relazionarsi è molto produttivo a livello di creatività e di come affrontare un problema che è proprio dei BootCamp e degli Hackathon, ovvero affrontare il problema in maniera creativa e risolverlo.
Il BootCamp che avete svolto è stato un vero e proprio allenamento, i partecipanti si sono “sporcati” le mani in prima persona ed hanno realizzato dei lavori. In questa metodologia i partecipanti sono parte attiva di tutto il processo didattico riducendo al minimo le parti passive, quanto è importante questo aspetto.
Noi professiamo tanto la centralità dello studente e il learning by doing, con questo non voglio dire che sono contraria alla lezione frontale, perché questa metodologia serve se dobbiamo trasmettere un contenuto, quindi in questo caso è fondamentale, ma non può e non deve essere l’unica scelta didattica. La lezione frontale possiamo utilizzarla quando dobbiamo approfondire un argomento, ma si immagini di fare nove mesi all’anno, per cinque ore al giorno, per cinque giorni a settimana sempre e solo di didattica frontale, annoierebbe qualunque soggetto e non soltanto un ragazzo adolescente, se parliamo di scuola secondaria di secondo grado, o preadolescente, se parliamo di scuola secondaria di primo grado. Quindi utilizzare soltanto una metodologia didattica all’interno dei contesti della scuola necessariamente comporta, anche per noi adulti, ad uno stato di noia. Come università vogliamo provare a stimolare la riflessione anche nelle scuole, proporre metodologie didattiche diverse che stimolino la motivazione, l’apprendimento, il successo scolastico, ma anche il desiderio di venire nell’università per apprendere, per conoscere coetanei e sviluppare quelle che sono le soft skills che continuiamo a fornire attraverso corsi di natura frontale ma che possiamo sviluppare in un’altra maniera. Le faccio un esempio su tutti, come si fa ad affrontare l’apprendimento dell’empatia con una lezione frontale, è impossibile, le posso dare la definizione, ma lei non avrà fatto l’esperienza dell’empatia. Questo per dire che ci sono dei concetti e dei contenuti che non possono essere “raccontati”, abbiamo contenuti che sono teorici mentre altri che vanno vissuti, quindi l’aspetto laboratoriale del learning by doing, di sporcarsi le mani come dice lei, è fondamentale in queste attività didattiche.
Nella prima parte avete scelto come metodologia il metodo analogico del Maestro Bortolato, a tal proposito l’università di Foggia ha avviato anche una sperimentazione su questo metodo. Cosa vi ha spinto a questa scelta?
Quando mi hanno parlato del metodo Bortolato all’inizio ero un po’ fredda, semplicemente perché non lo conoscevo. In seguito alcune studentesse del TFA hanno rappresentato che in realtà si trattava di un metodo innovativo, conosciuto e molto seguito nelle scuole e dopo aver superato i pregiudizi, dovuti soprattutto da una cattiva informazione acquisita tramite i social media, e a seguito di continue sollecitazioni da parte delle studentesse del TFA e dai docenti in particolare della scuola primaria, da ricercatrice mi è sorto il dubbio, e quindi la curiosità, di conoscere questo metodo e il Maestro Bortolato. Così nel 2018 lo abbiamo incontrato ad un seminario online e in seguito è venuto a Foggia abitualmente, quindi ci siamo posti una domanda di ricerca chiedendoci che se tante maestre, e nel BootCamp di oggi erano circa 2000, manifestano una soddisfazione e un piacere di apprendere attraverso questo metodo, vediamo, dal lato della ricerca universitaria, se effettivamente questo metodo produce degli effetti in termini di apprendimento. I risultati potrebbero non essere quelli che ci aspettiamo, cioè nell’apprendimento della matematica, magari sono legati alla motivazione o alle emozioni, questo non lo sappiamo dire a monte della sperimentazione. Per dare risposta a questo quesito abbiamo costruito una batteria di test che indagheranno tanti ambiti tra cui le emozioni, la motivazione e l’apprendimento disciplinare e vedremo che tipo di effetti produce realmente questo metodo. Non abbiamo pregiudizi né in positivo né in negativo, ma vogliamo semplicemente studiare e vedere quali risultati riusciamo ad ottenere.
La seconda parte del BootCamp l’avete dedicata alla noia, cosa vi ha portato a questa scelta.
Come tutte le altre università, veniamo fuori dal periodo del Covid-19 che ha fatto disinnamorare gli studenti dall’università. Personalmente sono nell’università di Foggia da circa venti anni in vari ruoli, prima da studentessa, poi da dottoranda e ora da docente, ed ho visto un cambiamento radicale nella presenza degli studenti all’interno dei contesti universitari. Si immagini che nel primo Hackathon dopo il Covid-19 abbiamo avuto pochissime iscrizioni e siamo dovuti andare nei vari luoghi di aggregazione dei ragazzi per stimolarli a venire. Adesso gli eventi si autoalimentano e ci sono tantissime iscrizioni per il successo dell’attività dell’iniziativa. Però bisogna sottolineare che la disaffezione non era rivolta solo all’Hackathon, ma anche alle lezioni frontali durante i corsi, dove avevamo due persone in presenza e tutti gli altri collegati da casa, e ancora oggi questo fenomeno è molto forte. Per questo motivo le nostre attività sono rivolte a far sì che gli studenti tornino a rinnamorarsi degli ambienti, degli spazi, della vita universitaria, dei docenti, dei momenti di aggregazione e di socializzazione. Il BootCamp li costringe a stare 24 in un posto per risolvere un problema e come ha visto i partecipanti sono stati tantissimi, hanno operato e speriamo che poi questa competenza acquisita diventi trasferibile a tutti i momenti della vita universitaria e scolastica.
Il vostro è stato un BootCamp che rientra pienamente nella terza missione universitaria, dove vi siete aperti al territorio. Ne è un esempio il concerto Rap inclusivo che si è svolto in una piazza della città di Foggia dove tra gli artisti che si sono esibiti c’era un ragazzo autistico che ha trovato nella musica un punto di forza. È anche questo uno degli obiettivi che vi eravate prefissati?
Questa è un po’ la mia visione, ritengo che l’università non debba restare soltanto all’interno delle aule universitarie e noi docenti abbiamo il compito di andare nei territori, nel pieno mandato di quella che è la terza missione per le università. Il nostro è un territorio complesso, non lo nascondiamo, non voglio dire difficile perché mi sento decisamente accolta a Foggia, ma la sua complessità comporta anche delle criticità. Per questo mi sento chiamata in causa in prima persona e con me tanti altri colleghi, come ha potuto avere modo di vedere in questo BootCamp, dove la partecipazione del mondo accademico, universitario e del personale tecnico-amministrativo è stata decisamente forte e noi ci sentiamo in dovere di entrare nei meandri della città di Foggia e far vedere la nostra presenza, partecipare, movimentare e animare la vita della città proprio perché l’università non è chiusa nei propri spazi che sono i nostri dipartimenti, ma dobbiamo comunicare quello che noi sappiamo e sappiamo fare all’esterno a partire dal contesto cittadino che ci ospita.
Chiudiamo con un’ultima domanda. Lei ha parlato di un’università che si apre, voi volete affiancare i docenti, aiutarli con la sperimentazione di metodologie senza restare chiusi negli ambiti accademici, ci dice quali sono i prossimi obiettivi?
Abbiamo già avviato una sperimentazione in cinque classi della scuola primaria dove stiamo facendo questo studio relativo al metodo Bortolato. Oltre a queste abbiamo altrettante classi di controllo dove il metodo non viene utilizzato, proprio per confrontare i valori di effetti in termini di apprendimento, emozioni e memorizzazione del metodo tra le classi in sperimentazione e quelle di controllo dove il metodo non viene utilizzato. Successivamente abbiamo visto, soprattutto da testimonianze di insegnanti di sostegno, che il metodo risulta essere efficace quando si ha a che fare con alunni autistici, quindi vorremmo provare, nelle classi di scuole secondaria di primo e secondo grado, ad avviare una sperimentazione anche sull’ambito della pedagogia speciale per vedere se effettivamente queste evidenze che ci sono state riportate dai docenti di sostegno abbiano una base scientifica e quindi magari diffondere ed utilizzare il metodo anche nella didattica speciale, nell’inclusione e nel sostegno nelle nostre classi.
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Pubblicato in Cronaca