A proposito di discipline STEM

A proposito di discipline STEM
Fare per capire, capire per comprendere, comprendere per fare 

di Maria Grazia Carnazzola

  1. Per cominciare.

Ecco il compito dell’educatore ideale: partire dalla realtà psichica del bambino per migliorare l’uomo nella vita pratica, per salvarlo, per impedirgli di smarrirsi, per evitare le deviazioni e le incertezze, per prevenire gli squilibri nervosi, per infondergli coraggio morale e salda coscienza nella lotta quotidiana. Il compito dell’educatore è, quindi, immenso, perché il progresso dell’umanità e la pace del mondo sono nelle sue mani”. Così Maria Montessori nel discorso di chiusura dell’VIII Internazionale di Sanremo nel 1949, dopo il rientro in Europa seguito al lungo periodo trascorso in India durante la seconda guerra mondiale e i successivi anni non facili. La collocazione storica è chiara, così come chiare sono le posizioni espresse con parole attualissime, con la forte consapevolezza che ogni metodo- ebbe a dire lei stessa nel 1947 presentando la prima edizione de La scoperta del bambino-deve tener conto del mutare dei tempi, dei progressi della scienza, delle particolari situazioni e tendere alla verifica dei principi che ispirano il lavoro concreto di bambini e insegnanti (che preferiva chiamare direttrici). Metodo significa seguire una strada, sceglierla, progettarla e seguirla predisponendosi ad affrontare inevitabili ostacoli contestualizzati nel tempo e nello spazio sociale e culturale, è forma mentis e modus operandi, capacità di pensiero e competenza nell’azione. Montessori parla di bambini, ma le sue intuizioni sono generalizzabili a giovani e ad adulti anche oggi e sarebbe utile una lettura “di prima mano” dei suoi testi, magari anche- perché no- per dissentire in modo argomentato o leggere i continui cambiamenti ripetutamente preannunciati per scuola da una prospettiva un po’ diversa.

2. Partire dal bambino per migliorare l’uomo.

In attesa di verificare quali esiti produrranno le “innovazioni” annunciate con enfasi e in via di attuazione, l’augurio è che non si trascuri la visione di un percorso unitario(verticalità) finalizzato alla costruzione progressiva “dell’uomo e del cittadino” a cui tendono i profili in uscita di tutti gli ordini e gradi scolastici. Tenendo conto che, in qualsiasi disciplina, passare dal pensiero pratico al pensiero logico è fondamentale (transitando dalle operatività concrete basate principalmente sulla percezione e sul pensiero pratico) all’operatività fondata sulla rappresentazione mentale mediata dal linguaggio per la costruzione del pensiero logico. Tanto più oggi, ma ancora di più domani- così pare- che la maggior parte delle attività umane tende e tenderà a ruotare sempre più attorno alla gestione dei nuovi linguaggi informatici, spostando la centralità dell’agire e del controllo dall’uomo alla macchina. In tutto il mondo occidentale la rarefazione delle conoscenze si accompagna all’automazione della produzione materiale e culturale, alla sua concentrazione e, ovviamente, si intreccia con gli obiettivi del sistema economico-politico che seleziona le professionalità che saranno necessarie per le mete che sono di suo interesse. Che non sempre coincide con l’interesse e il bene comune. Quali professionalità richiederà la costruzione del ponte di Messina a ingegneri, tecnici, operai, manovali? Quali sistemi di competenze dovranno sviluppare le aziende agricole per stare sul mercato e per accedere ai sussidi del PNRR? O, ancora, di quali competenze e di quali sistemi di valutazione dovranno avvalersi il sistema sanitario e il sistema di istruzione (i due ambiti di cura per definizione) per un welfare che non si limiti ad assistenza caritatevole o a percorso di socializzazione, ma si configurino come centri di diritti/doveri di cittadinanza e di democrazia? Quali medici e quali insegnanti saranno selezionati e scelti e sulla base di quali principi e di quali criteri? Si spera non solo sulla base della conoscenza delle tecnologie disponibili, ma anche per la consapevolezza di un’etica che considera l’istruzione e la salute non solo come valori dipendenti dalla crescita economica. Ciascuno di noi non è solo ciò che definisce la natura, siamo ciò che esprime la nostra cultura, intesa anche come capacità morale. La cultura deriva dall’educazione della mente, per questo il sapere da preservare e da trasmettere è un problema centrale per ogni società e dovrebbe riguardare tutti, in primis gli intellettuali, perché da questa riflessione dipenderà il futuro nostro e di chi verrà dopo di noi. Il dibattito su una educazione adeguata ai nuovi scenari è presente già da anni tra intellettuali di alto livello: E.Morin, H. Gardner, N. Postman, Z. Bauman, U. Margiotta- per citarne qualcuno-  il cui pensiero è rintracciabile in documenti  messi a punto per un generativo progetto educativo comune come Le Raccomandazioni del 2006/2018 per le competenze chiave e l’apprendimento permanente dell’UE, o i 17 goals dell’Agenda 2030 dell’ONU.  Gli interventi sia pro sia contro i cambiamenti che via via vengono annunciati da ministri che si  susseguono in tempi ravvicinati, si concentrano di volta in volta o contemporaneamente sulle questioni del rapporto tra scuole statali e paritarie, sull’insegnamento delle discipline STEM o delle lingue straniere, sulla durata/riduzione a quattro anni dei percorsi  tecnici e professionali….e su una miriade di aspetti, senza dubbio importanti, ma che se continuano ad essere annunciati e affrontati in modo superficiale e settoriale, non produrranno grandi risultati, nonostante l’impegno di tempo e di risorse dedicate. Nella scuola, come in tutte le organizzazioni complesse, se si modifica un tassello non si può ignorare l’effetto domino che si innesca: tutti i cambiamenti che ne derivano devono essere affrontati con adeguati strumenti concettuali, teorici e tecnici, in questo ordine di importanza.  Il filosofo Carlo Sini da anni ripete che l’intelligenza non sta nello strumento esosomatico che si utilizza, ma nelle azioni di chi lo utilizza per i propri obiettivi e scopi. Allora, forse, prima di imparare a usare l’intelligenza artificiale bisognerebbe imparare (e quindi insegnare) a usare la propria intelligenza umana. La novità dei professionali e tecnici di quattro anni? Ci può stare, come molti dei cambiamenti che il MIM auspica e propone, ma questa è la cornice; e il quadro? Il quadro sono le conoscenze, le abilità, le competenze, le metodologie, i risultati attesi, la valutazione, i dati e le evidenze, il chi fa cosa, le responsabilità… Di questo si dovrebbe parlare. Ma chi dice, se non ci sono documenti ufficiali completi ed esaustivi, su cui discutere, ma soprattutto tempi congrui per un confronto, anche acceso, ma rispettoso delle competenze, delle attribuzioni e delle posizioni di chi discute? Nel merito, in particolare, del potenziamento delle discipline STEM (scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche), è un po’ che se ne parla. Cosa significa che “serve un potenziamento”? Su quali operazioni prima pratiche e poi mentali si fonda ad esempio la competenza matematica, con quali continuità/discontinuità? E quali sono le affinità tra questo settore disciplinare e il settore delle discipline umanistiche? Risponde a verità che le scienze dure insegnano abilità necessarie e quelle umanistiche solo “contenuti”?  Considerando che non ci sono contenuti in astratto, ma abilità altre, che si tratti di discipline umanistiche o scientifiche, le operazioni mentali che un individuo mette in atto sono le stesse (astrarre, generalizzare, analizzare, sintetizzare, confrontare…) applicate a contesti diversi, con oggetti diversi, per scopi che possono apparire diversi se ci si limita alle abilità, ma che diventano meno settoriali se ci riferisce alle competenze e quindi ai maggiori spazi di autonomia personale o ai livelli molteplici della realtà.  

3. Le discipline STEM.

Posso dire che, tra tutte le mie esperienze scolastiche, la traduzione dal latino è stata l’attività più vicina alla ricerca scientifica, cioè alla comprensione di ciò che è sconosciuto.”

Così il genetista Luca Cavalli Sforza in un articolo, pubblicato su la Repubblica il 27.11.1993, in cui metteva in guardia i politici del tempo dal rischio che comportava l’abbassare  il livello delle nostre scuole- del liceo in particolare- per imitare il fallimentare esempio americano e sottolineava l’uso delle lingue classiche, in particolare gli esercizi di traduzione, come utile strumento per sviluppare le capacità scientifiche; tradurre, sosteneva, è un lavoro intellettuale impegnativo che richiede una lunga serie di ipotesi e di verifiche fino ad arrivare a un significato coerente con la struttura e con il lessico del testo.

Tornando alla matematica, le basi su cui si fonda sono la logica e l’aritmetica. La logica riguarda il ragionamento ed è strettamente legata alla competenza linguistica posseduta, lessicale e sintattica. Le operazioni logiche della mente sono schemi di azione interiorizzati e verbalizzati, attraverso i quali l’informazione percettiva si trasforma in informazione rappresentativa e poi in logica. Le rappresentazioni percettive (vale anche le sequenze) sono guidate dall’input percettivo-visivo; le sequenze logiche sono operazioni mentali guidate dal linguaggio. Le principali “operazioni” che favoriscono l’organizzazione logica e il suo sviluppo sono la sequenza, la classificazione e la seriazione. La sequenza -compresa la sequenza ricorrente dove più elementi sono trattati come un singolare, ad esempio i dittonghi e i trittonghi o l’insieme cucchiaio, coltello, forchetta- si fonda sulle relazioni che vengono poste tra elementi contigui spazialmente o temporalmente per dare ordine- prima diretto e poi inverso- a ciò che viene percepito e agito, per esempio apparecchiare o le azioni sui numeri e sulle lettere quando si compongono le parole. La classificazione (con oggetti, percettiva, per esclusione e per inclusione, gerarchica, per intersezione) si basa sul riconoscimento di differenze e di somiglianze che permettono le prime associazioni che si fondano sulle emozioni e perciò sono soggettive (mi piace/non mi piace), poi su criteri più oggettivi come disuguaglianza/uguaglianza o diversità/ similitudine. È necessario qui richiamare l’attenzione sulla capacità di descrizione, quale presupposto del paragonare e poi del classificare, e sul ruolo del lessico specifico sempre per collegare la mappa semantica con quella episodica e pratica. La seriazione implica almeno tre elementi, che si differenziano per un’unica caratteristica, di cui uno sia maggiore del precedente e minore del seguente e abitua a inserire ogni elemento come termine mediano tra due elementi. L’uso del linguaggio è ancora una volta fondamentale: più grande di/meno grande di, più di/meno di, il più grande/il più piccolo…   

Non basta mostrare ai bambini “come si fa” perché è difficile ricordare ciò che non si è compreso.  Ogni bambino deve avere la possibilità di operare con molti tipi di “oggetti”, nel rispetto dei ritmi personali che segnalano la sua diversità “fisiologica”, avendo cura che i diversi passaggi siano accompagnati da verbalizzazioni chiare e precise che permettono l’integrazione della mappa episodica nei concetti. In questo modo il fare permette di capire il significato dell’azione e di comprenderne il senso, nel contesto complessivo. Come insegnanti, sappiamo bene quanto di affettivo/emotivo ci sia nelle mappe episodiche, ad ogni età e nelle differenze individuali, ivi comprese le differenti forme di disabilità.  Perché questa insistenza sulla scuola dell’infanzia e primaria? Perché è qui che si pongono le basi per gli apprendimenti e i percorsi futuri e  per  l’inclusione sociale che passa attraverso lo sviluppo al massimo possibile delle capacità personali, si formano le strutture mentali che permettono di tamponare gli svantaggi socio-culturali e magari di contrastare la proliferazione di diagnosi di disturbi specifici di apprendimento- che esistono e sono da prendere molto seriamente- ma a volte non sono altro che la conseguenza di disturbi specifici o generalizzati di insegnamento ( a questo proposito il riferimento è a Dehaene). Quando ci si sente sconfitti dall’impatto frustrante con attività e argomenti presentati a un livello troppo complesso per il quale non si è pronti, una delle difese dall’insuccesso è quella dell’evitamento: se non faccio, non sbaglio. Che, se ci pensiamo, è un comportamento intelligente di autotutela che anche gli adulti usano, a tutti i livelli.

L’aritmetica. Cominciamo col dire che il termine aritmetica, dal greco aritmos, ci ricorda che se alla musica si tolgono la melodia e il ritmo, rimangono i rapporti numerici che la sottendono. Poi, una domanda fondamentale: cos’è il numero? Chi deve insegnare a usare e a operare con i numeri, deve avere chiara una risposta, a cominciare da chi lavora con i bambini piccoli, fino a chi lavora con gli studenti della scuola secondaria.  Per l’educazione dei piccoli, fondamentale per il prosieguo di tutta la formazione/istruzione, una delle definizioni più generative- che ho usato nei corsi di formazione-aggiornamento per gli insegnanti è quella di Silvio Ceccato “Il numero nasce dal singolare che si ripete”, cioè si costruisce con la ripetizione del singolare, individuato sia come oggetto sia come azione.  È un insieme di simultaneità e di successione, non a caso una delle componenti centrali del “fare la conta” è il ritmo che frammenta ogni movimento focalizzando l’attenzione su ogni unità del frammento.  Il richiamo al ritmo è importante perché è una costante nella vita di ciascuno. I numeri possiedono un aspetto di pensiero e uno di linguaggio e l’applicazione ripetuta delle regole di sequenza e di ricorrenza verbale facilita il compito.  

Conoscere i nomi dei numeri non è un’attività meccanica come spesso si tende a pensare, anche se all’inizio i bambini probabilmente li considerano attributi di oggetti o di attività (palla, palla, palla; salto, salto, salto; ancora, ancora, ancora), costituiscono poi una classe come i colori o i cibi. Ad esempio, la scoperta della regola di generazione dei nomi a livello orale è un processo di elaborazione mentale attiva che richiede il tempo necessario di esercitazione e di riflessione per essere automatizzata. Il nostro cervello sa cogliere immediatamente la quantità, ma per far di conto e maneggiare simboli più o meno astratti serve esercizio continuo, come Dehaene ha ben illustrato.  Ma come si formano i numeri nella mente?  I passaggi sono molti e tutti richiedono l’agire concreto, la focalizzazione dell’attenzione sui diversi step, ciascuno dei quali deve essere padroneggiato prima di passare al successivo. Per ragioni comprensibili, si elencano i principali.

Della codifica verbale dei numeri si è già detto. Proseguendo : imparare a contare (anche contare oltre, senza cominciare sempre dall’inizio); la conservazione del numero, indipendentemente dagli attributi percettivi di forma, colore, grandezza, disposizione nello spazio(Piaget); aggiungere e togliere, abituando a espressioni come più e meno che abituano a pensare a situazioni non numerabili, compresa la misura dello spazio; la rappresentazione del numero ( usando simboli che ricordino il singolare come I-○-●) privilegiando la rappresentazione analogica ordinata; l’introduzione delle cifre rappresenta il passaggio  al codice ideografico che lega direttamente il segno al significato di pensiero; ordinalità e cardinalità, il lavoro su entrambe le concezioni aiuta lo sviluppo di tre potenti strutture logiche: la reversibilità, la transitività (che apre la strada alla misura)- il controllo di più variabili in una serie ordinata, ogni elemento è contemporaneamente maggiore del precedente e minore del seguente; le operazioni con le cifre: addizione e sottrazione, moltiplicazione e divisione.

È importante insegnare a individuare le operazioni in frasi che non contengono numeri, ma si riferiscono a situazioni di vita quotidiana: ho accorciato una gonna, ho avuto altri libri in regalo, abbiamo raddoppiato le vendite, si sono spente alcune candele, ti darò la metà… che avvicinano alla comprensione dei testi dei problemi ed evitano che ci si focalizzi sui soli dati numerici; le frazioni, lo spazio e la misura; il tempo, la sua misura e il rapporto con la velocità.  

In ogni ordine e grado dei percorsi di istruzione/formazione, è importante che l’insegnamento/apprendimento proceda per domande; sono le domande che creano dissonanza (Festinger) e in ciascuno la necessità di trovare/ricevere la risposta che porta all’equilibrazione, un nuovo equilibrio che genera soddisfazione e interesse per la risposta e predisposizione a nuove domande e a nuovi saperi. In questo si manifesta la competenza dei docenti. A conclusione di ogni unità di apprendimento, è poi necessario sincerarsi che tutti abbiano compreso, attraverso domande di riepilogo che permettono a tutti di ripercorrere e di fissare l’attività svolta, ciò che è stato appreso, ciò che rimane in sospeso. Domande che riguardano la comprensione delle relazioni tra oggetto trattato e le azioni messe in atto; la rievocazione dell’organizzazione sequenziale delle attività; la generalizzazione che permette di estendere i collegamenti e le relazioni ad oggetti analoghi attraverso il paragone; la riflessione critica per trovare elementi positivi e negativi in ogni situazione/attività. Il domandare e la guida alle risposte saranno calibrati sull’età, sui livelli di autonomia e di competenza dei gruppi di apprendimento e dei diversi allievi. Questo riporta il discorso sulla concretezza delle azioni di orientamento, che sono prima di tutto comportamenti e azioni di insegnanti e allievi, e sui focus contemporaneamente individuali e sociali di tutto ciò che si fa a scuola. Ciascuno di noi, isolato dal contesto- famiglia, gruppo classe, piccolo gruppo, grande gruppo dei pari, in rapporto uno a uno- non è comprensibile agli altri. La scuola è lo sfondo sociale allargato in cui un bambino prima, poi un adolescente o un giovane adulto, viene a trovarsi e dove deve cercare un orientamento che gli permetta di raggiungere la sua meta in ambito cognitivo, metacognitivo e sociale, con la collaborazione di adulti che lo aiutino a individuare gli strumenti più congeniali. Perché, questo va sottolineato con forza, insegnanti e allievi, al di là dello iato generazionale e dei problemi che conosciamo, nella scuola realizzano una forma di comunicazione sistematica e strutturale, una delle poche nel complicato contesto attuale.

4. Una scuola secondaria all’altezza del compito.

Sapranno le scuole, nel breve volgere di questi mesi, costruire e condividere i complessi significati indicati nelle Linee guida finalizzate all’introduzione nel PTOF delle scuole, dall’infanzia alla secondaria di secondo grado, per lo sviluppo e il rafforzamento delle discipline STEM? Questa è una domanda che viene da molti problemi e altrettanti ne genera. La tempistica e i passaggi che permetteranno di interpretare concettualmente e operativamente quanto previsto dai documenti a cui le Linee Guida fanno riferimento, per verificare quanto già è in linea e quanto va modificato e per  non limitarsi a cambiare le carte invece che le pratiche, sono incalzanti.. Servono strumenti culturali, tecnici, operativi e tecnologici per “innovare” che altro non è che “risignificare” il patrimonio culturale che ci appartiene, per vivere in questo mondo in continuo movimento, ricordando con Maturana e Varela che la scelta delle operazioni concrete o concettuali appartiene all’osservatore, non all’osservato. Non basta che le discipline Stem attraversino Ptof, progetti, carte, pubblicazioni, piattaforme, reti, corsi di aggiornamento. Le scuole, ciascuna scuola, devono interpretare i vincoli della necessaria convergenza verso quelle competenze che devono essere integrate negli insegnamenti disciplinari, come fanno comprendere il riferimento alle Raccomandazioni sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente del 2018 del Consiglio dell’Unione Europea, agli ordinamenti e ai curricoli nazionali. La ricerca di una ri-significazione integrata delle discipline, da condurre anche sulla contiguità e ausiliarità epistemologiche, dovrebbe consentire di  trovare convergenze semantiche e sintattiche evitando accostamenti di natura esclusivamente tematica, tenendo presenti tre livelli: a) il livello epistemologico-linguistico che riguarda lo statuto disciplinare necessario per una autentica comunicazione tra discipline e la condivisione di termini e di concetti; b) il livello applicativo della soluzione sinergica e integrata dei problemi complessi che la realtà presenta; c) il livello generativo, di nuove forme di conoscenza e di paradigmi “nuovi” derivanti dalla contaminazione dei saperi disciplinari. Se si parla di interdisciplinarità/multidisciplinarità, il presupposto sono le discipline, intese come modi di guardare la realtà (paradigma e metodo); se si parla di transdisciplinarità (termine coniato da Piaget nel 1963) si parla della visione multifocale del reale e del vivere, dei problemi che via via si presentano. Feyerabend, in “Dialogo sul metodo”, ebbe a scrivere “La transdisciplinarità è lo spazio di frontiera, insieme interno ed esterno alle singole discipline e condiviso, ove tutte si incontrano in un luogo senza luogo, nel quale i problemi fondamentali dell’uomo e della vita trovano il loro “giusto posto”. Quello che poi E. Morin avrebbe chiamato “l’era della teoria aperta, multidimensionale e complessa”. 

Per tornare al testo delle linee guida, un passaggio di criticità è rappresentato dal paragrafo “Valutazione delle competenze Stem”, fatto forse inevitabile mancando, nelle Linee, un rimando esplicito alla progettazione dei percorsi e delle attività per lo sviluppo delle competenze che sono e rimangono patrimonio e responsabilità dell’allievo, a cui possono essere insegnati saperi (dichiarativi e procedurali) ma non competenze: la costruzione della conoscenza, che permette l’interazione del mondo cognitivo, relazionale, emotivo, etico, è personale. Prima della valutazione, che non è solo formativa ma anche sommativa e diagnostica, serve, allora, la selezione e la ri-significazione dei contenuti disciplinari, una diversa focalizzazione delle abilità, la costruzione di contesti di apprendimento e di climi, di nuovi approcci verticali e orizzontali alla contemporaneità che va presentata nella sua complessità. Ad esempio, è necessario presentare i vantaggi che le tecnologie come chatGPT possono portare, ma parallelamente occorre segnalare che le stesse producono quantità rilevanti di anidride carbonica. Nella tabella che segue è riportato un esempio di “convergenza” delle discipline su una competenza (una delle 4C), operazione da fare in fase di progettazione del percorso di insegnamento/ apprendimento.  Ovviamente gli oggetti e i criteri di valutazione saranno resi noti agli studenti per l’autovalutazione, passaggio ineludibile per il conseguente auto-orientamento.  

5. La rana bollita.

Se si vuole veramente considerare la formazione una condizione strutturale del tempo e della temperie culturale, che risulti adeguata anche alle richieste del mondo del lavoro, ai mutamenti repentini, occorre che i cambiamenti siano proposti in tempi congrui perché chi il cambiamento lo deve attuare, cioè le scuole, abbiano la possibilità di comparare le nuove richieste con ciò che già viene praticato, con le situazioni di contesto, con le risorse disponibili, non solo finanziarie. La formazione, per i giovani, può diventare veramente la ricerca del significato e del senso dello “stare a scuola,” attraverso percorsi che escludano il vagare tra le mode e mettano in evidenza la riflessione condivisa sui temi, sul significato e sul senso dell’imparare, partendo da attività o da azioni praticate, supportate dagli opportuni e irrinunciabili riferimenti teorici- per i quali occorre sempre una terminologia specifica- verificando di poter autonomamente e non meccanicamente applicare regole generali a casi particolari per comprendere il mondo e cercare di cambiarlo. Mettere a fuoco l’incidenza che le diverse modalità di stare a scuola hanno sull’attenzione, la percezione, la memoria, il linguaggio… sul grado di astrazione che permettono o richiedono, sulla ricaduta che producono sul pensiero riflessivo e critico, sono aspetti che andrebbero considerati in tutte le discipline e che andrebbero esplicitati.

Se non si vuole che la scuola, e quindi la società, faccia la fine della rana della storia, pur nella difficoltà della sfida va sottolineata la necessità di una rivisitazione dei fini dell’educazione, istruzione formazione, prima, e nella ricerca dei mezzi e dei modi poi.  N. Chomsky ha utilizzato la storia della rana bollita come metafora per descrivere la tendenza dell’essere umano ad adattarsi a situazioni confuse senza reagire, fino a quando la situazione diventa chiaramente pericolosa, cioè quando ci si sente completamente impotenti e non ci sono più le condizioni per reagire in modo razionale, tenendo conto di tutti gli aspetti. È una sensazione che chi lavora nella scuola ha provato spesso negli ultimi venticinque anni. Un po’ alla volta sono cambiate le cose, senza un disegno strutturale e complessivo; la qualità e i livelli degli apprendimenti e delle competenze continuano ad abbassarsi e non c’è una direzione di senso chiara e coerente su cui investire per invertire la rotta, per promuovere la ricerca culturale, didattica e organizzativa che può aiutare a uscire dal terreno sterile dell’autoreferenzialità. E non ci si accorge neppure del paradosso: la marginalizzazione di una professione- l’insegnante- che è quella che determina tutte le altre. In sintesi, una suggestione che ci viene da A. N. Whitehead, matematico e filosofo: una teoria educativa dovrebbe essere enunciata in una concezione generale dell’umano e del mondo, piuttosto che all’interno di un discorso finalistico (leggasi il successo nel mercato del lavoro) in base al quale valutare l’efficacia degli interventi educativi e la selezione delle abilità su cui investire. Se il mercato del lavoro cambia, le persone devono possedere gli strumenti (cognitivi, metacognitivi, relazionali) per affrontare i cambiamenti e per rimanere nel circuito in modo accettabile, da intendere non solo come occupazione ma come occupabilità.   

RIFERIMENTI

Ceccato, S., (1980), Il punto 1 e 2. Perché tuo figlio pensi così, Milano, IPSOA

Dehaene, S., (2010), Il pallino della matematica, Milano, Raffaello Cortina

Feyerabend, P., (1989) Dialogo sul metodo, Bari, Laterza

Festinger, L., (2009- 3^ ed.) Teoria della dissonanza cognitiva, Milano, Franco Angeli

Margiotta, U., (2015), Teoria della formazione, Roma, Carocci

Maturana, H, Varela, F., (1992), Macchine ed esseri viventi, Roma,   Astrolabio.

Montessori, M. (1960 IV ediz.), Educazione alla libertà, Bari, Laterza

Montessori M., (1970), Manuale di Pedagogia Scientifica, Firenze, GiuntiBemporad Marzocco

Morin, E., (1973) Il paradigma perduto, Milano, Mimesis

Piaget, J., (1945-1972), La formazione del simbolo nel bambino,  Neuchatel- Firenze, Delachaux e Niestlé- La nuova Italia  

Russo, L., (2016-4^ ed.), Segmenti e bastoncini, dove sta andando la scuola, Milano, Feltrinelli

Sini, C., (2009), L’uomo, la macchina e l’automa, Torino, Bollati Boringhieri

Whitehead, A.N, (2022), I fini dell’educazione, Milano, Raffaello Cortina Ed.

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Guerra e Matematica

La riflessione sulle guerre. Il carteggio Einstein-Freud e la matematica per gli scopi bellici.

Parte prima: il dibattito sulla guerra
Cancellare le guerre dai libri di storia è un appello del Movimento Nonviolento.
Senonché accogliere l’appello non cancellerebbe le guerre dalla storia. In assenza di riferimenti alla guerra non ci sarebbe occasione di leggere riflessioni fondamentali come queste:
“Homicidia conpescimus et singulas caedes: quid bella et occisarum gentium gloriosum scelus? […] Ex senatus consultis plebisque scitis saeva exercentur et publice iubentur vetata privatim. Quae clam commissa capite luerent, tum quia paludati fecere laudamus. Non pudet homines, mitissimum genus, gaudere sanguine alterno et bella gerere gerendaque liberis tradere, cum inter se etiam mutis ac feris pax sit.”
Sono parole di Lucio Anneo Seneca in un memorabile passo di un’epistola all’amico Lucilio. L’assassinio viene punito se commesso in privato, mentre è motivo di lode e di gloria se commesso in guerra: questa la vergogna denunciata definitivamente dal filosofo latino con parole destinate a riecheggiare in ogni tempo, monito più che mai attuale quando  assistiamo come oggi a orrendi crimini di guerra perpetrati contro civili inermi.
La prevaricazione di chi si ritiene più forte militarmente a danno di un popolo trova riscontro nell’antica Grecia.
Esemplare in proposito il dialogo fra gli Ateniesi e i  Meli nella Guerra del Peloponneso di Tucidide. Gli Ateniesi, in guerra contro Sparta, inviano in via preventiva  ambasciatori presso i Meli, coloni spartani dell’isola di Melo, per indurli alla resa, ammonendo i loro consiglieri che “i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano”. I Meli chiedono come possa esserci un interesse comune fra chi accetti di diventare schiavo e chi si erga a padrone. Osservano ancora i Meli che non cercare ogni via per evitare la sottomissione sarebbe manifestazione di viltà e motivo di vergogna. Replicano gli Ateniesi che sarebbe saggio invece arrendersi a un avversario più potente. Purtroppo il  dialogo tucidideo resta attuale in una sua versione tragicamente aggiornata: oggi qualunque criminale compiaciuto di sentirsi più potente dispone della minaccia al ricorso alle armi nucleari.
Dall’antichità classica proviene anche la distinzione tra guerra difensiva e guerra offensiva.
Troviamo in Tito Livio la seguente espressione:  “Iustum est bellum quibus necessarium, et pia arma, quibus nulla nisi in armis relinquitur spes.”
Vale a dire che la guerra è giusta se necessaria per chi non nutra speranza alcuna di salvezza qualora non ricorra alle armi a scopo di difesa. La riflessione sulla guerra giusta era già presente in Aristotele, che da una parte condannava l’aggressione riconoscendo a chi venisse aggredito il diritto di difendersi, ma dall’altra giustificava il muovere guerra ai barbari. Analogamente nel pensiero cristiano medioevale si affermò il concetto di guerra santa contro gli infedeli, “sterpi eretici” secondo la definizione di Dante. Il bellicismo colonialistico cinquecentesco si basava sull’asserita necessità di redimere dalla loro inciviltà i popoli da colonizzare.  Insomma lo ius ad bellum, ovvero diritto di muovere guerra, giustificava in certi casi gli aggressori.
Nel secentesco trattato De iure belli ac pacis di Ugo Grozio viene esplicitato fra l’altro lo ius in bello, ovvero complesso di norme giuridiche da rispettare in  guerra.
Su questo tema si pronuncia anche Louis de Jaucourt, il quale nella voce Guerre della Encyclopédie illuminista scrive che  non v’è diritto che autorizzi “a togliere la vita per deliberato proposito ai prigionieri di guerra, né a coloro che domandano quartiere, né a coloro che si arrendono, né tanto meno ai vecchi, alle donne, ai bambini, e in generale  a tutte le persone che non hanno un’età né svolgono una professione tali da renderli atti alle armi, e che nella guerra non hanno nessuna parte e vi sono coinvolti solo perché si trovano nel paese o nel partito nemico”. Nella voce citata si condanna anche  la brutalità della guerra nei confronti della donna. Eccola tradotta dal francese:
“Essa [la guerra] ha regnato in tutti i secoli sulle più fragili basi; la si è vista sempre desolare il mondo, privare le famiglie dei loro eredi, riempire gli stati di vedove e di orfani: mali deplorevoli, ma tanto comuni! In ogni tempo gli uomini, per ambizione, per avarizia, per gelosia, per malvagità, si sono derubati, bruciati, sgozzati a vicenda […] A più forte ragione, i diritti di guerra non giustificano gli oltraggi all’onore delle donne, dato che una tale condotta non contribuisce affatto alla nostra difesa, alla nostra sicurezza né alla difesa dei nostri diritti; essa serve soltanto a soddisfare la brutalità del soldato privo d’ogni freno.”
Delitti contro l’umanità che continuano ad essere perpetrati dal “soldato privo d’ogni freno”, a ciò per giunta  incitato dalla viltà di chi in sede di comando pianifica la presa a bersaglio di  civili inermi.
La riflessione sulle cause della guerra trova una delle sue più alte espressioni nel carteggio Einstein-Freud, di cui sono qui riportati alcuni stralci in traduzione.
Il padre della teoria della relatività si rivolge per una risposta al padre della psicoanalisi:
“Caro signor Freud, c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? È ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.”
Si riportano qui alcuni passi della lunga risposta:
“Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con lei. […] Ora la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, cosi che dobbiamo ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più, non è soltanto un rifiuto intellettuale e affettivo, in noi pacifisti è un’intolleranza costituzionale, per così dire il massimo della idiosincrasia. […] Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori – l’atteggiamento sempre più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alla guerra in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo giudicarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.”
Evidentemente l’evoluzione civile è in inquietante ritardo nel mondo, se non giunge addirittura a configurarsi come involuzione.
Nel filone delle riflessioni sulla pace risalta la cinquecentesca Querela pacis di Erasmo.
Eccone un passo tradotto dal latino:
“E invero, se io sono la Pace, esaltata all’unisono da dèi e uomini come sorgente, genitrice, nutrice, promotrice, tutrice di ogni bene esistente in cielo o in terra, e se in mia assenza nulla mai fiorisce, è saldo, puro, santo, piacevole per gli uomini e gradito ai superi, mentre la guerra viceversa si presenta come l’oceano di tutte le sventure esistenti al mondo, […] ebbene, io allora mi chiedo in nome dell’immortale divinità: chi può ritenere che costoro siano esseri umani ed abbiano un briciolo di senno, quando a dispetto delle mie virtù si adoperano con tanti mezzi, tanta ostinazione, tante macchinazioni, tante astuzie, tanti affanni, tanti rischi a scacciarmi, per acquistare a così caro prezzo un tale profluvio di mali?”
Il testo classico in cui la ragione coltiva l’utopia è  Per la pace perpetua  di Immanuel Kant.
Fra le condizioni necessarie per assicurare la pace perpetua il filosofo annovera la totale scomparsa degli eserciti permanenti, il divieto per ogni Stato di intromettersi con la forza in un altro Stato, la necessità  della forma repubblicana della costituzione di ogni Stato e del federalismo fra Stati. Per lui, che ritiene non inconciliabili politica e morale, i politici dovrebbero avvalersi della consulenza dei filosofi. Se ci chiediamo quali filosofi, dobbiamo escludere quelli come Georg Wilhelm Friedrich Hegel,  triste figura che la guerra non la condanna, ma la esalta. È l’aberrazione della “guerra sola igiene del mondo”, come la celebra e glorifica Filippo Tommaso  Marinetti.
Encicliche dei sommi pontefici come  Pacem in terris  o Fratelli tutti vagheggiano la pace universale.
Ferma, decisa e risoluta è la  condanna ecclesiastica di ogni guerra di aggressione, definita dal Vaticano “moralmente ingiusta, inaccettabile, barbara, insensata, ripugnante e sacrilega”. Anche il Papa riconosce a chi sia aggredito il diritto di difendersi. Ad ogni  posizione irenica ovvero pacifista, sia religiosa che laica, si contrappone la concezione della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi” espressa da Klaus von Clausewitz nel suo trattato Vom Kriege.
Oggi i progetti di educazione alla pace sono insidiati dalla  minaccia incombente della cosiddetta guerra nucleare preventiva.
Finora si riteneva che l’equilibrio del terrore potesse scongiurare la terza guerra mondiale. Però era già presente nel pensiero di un presidente statunitense l’idea di una guerra preventiva. La novità  consiste nel fatto che  ora l’uso di armi atomiche in funzione preventiva  è contemplato in una legge voluta da un famigerato dittatore gongolante ad ogni suo lancio di missili. Perciò, quando alla fine del suo volume sull’identità umana Edgar Morin, avvalendosi delle scienze dell’incertezza, scrive che per l’avvenire “niente è sicuro, neanche il peggio”, con tutto il rispetto per il più che centenario studioso dobbiamo purtroppo constatare che la probabilità del peggio è in aumento. Probabilità che un qualunque detentore di un potere assolutistico dia il via in un accesso di demenza, se assecondato da generali altrettanto folli,  allo sterminio della vita sul pianeta per la percezione soggettiva di una minaccia soltanto presunta.
Vittorino Andreoli in Homo stupidus stupidus. L’agonia di una civiltà, Rizzoli, 2018, osserva che la corsa agli armamenti si svolge più che mai “all’insegna della stupidità e della follia”.
Questa l’amara constatazione dello psichiatra a proposito dello scadimento cerebrale di questo o quel singolo individuo al posto di comando: “Trasformare questo pianeta in una pietra che, nuda e fredda, gira nell’universo non è più nelle mani degli dèi, ma della stupidità del potere.”
Viene in mente la conclusione di un romanzo.
Da La coscienza di Zeno di Italo Svevo: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
Pablo Picasso, Guernica (1937)
Parte seconda: matematici  pro e contro  la guerra
Il trattato L’arte della guerra attribuito a Sun Tzu, risalente al VI secolo avanti Cristo, dedica spazio a una serie di fattori matematici che possono determinare l’esito di una guerra.
Il testo è organizzato in tredici capitoli dedicati all’analisi razionale delle diverse dimensioni della guerra, identificando le modalità per perseguire e riportare la vittoria. Tredici i capitoli: pianificazione e valutazione; preparazione alla guerra; attacco strategico; schieramento e disposizione dell’esercito; forze; punti di debolezza e punti di forza; scontro e manovre militari; variabili, variazioni e adattabilità; spostamenti e movimenti delle truppe; terreno; territorio e i nove campi di battaglia; attacco con il fuoco; utilizzo delle spie. Chi è esperto dell’arte della guerra deve saper controllare il fattore morale, il cuore, la forza e le diverse circostanze. Il numero non  dà vittoria certa: la vittoria deve essere creata sul campo. Tuttavia nel quarto capitolo i fattori numerico e geometrico sono  presi in  considerazione:
“Ricorda, gli elementi della strategia militare sono cinque: primo, misurazione dello spazio; secondo, valutazione della quantità; terzo, calcolo; quarto, confronto; e quinto, probabilità di vittoria. Le misurazioni dello spazio si deducono dal territorio. Le valutazioni della quantità si deducono dalle misurazioni, i calcoli dalla quantità, i confronti dai calcoli, e la probabilità di vittoria dai confronti.”
Galilei, che Einstein definisce padre della scienza moderna, si è occupato di guerra in Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali.
L’opera è stata tradotta in italiano da Alessandro De Angelis e pubblicata da Codice edizioni nel 2021. Nell’opera, realizzata in forma dialogica,  la quarta giornata è dedicata al moto dei proiettili. A un certo punto Simplicio si dimostra curioso di sapere perché i proiettili delle armi da fuoco debbano essere considerati diversamente da quelli di archi e balestre e Salvati risponde che “la velocità di una palla sparata da un moschetto o da un cannone è soprannaturale”, cioè più veloce di quella di un corpo in caduta libera:
“Infatti, se una tale palla dovesse cadere da una grande altezza, la sua velocità, a causa della resistenza dell’aria, non aumenterebbe indefinitamente. […] Sono dell’opinione che una palla di moschetto o di cannone, che cade da un’altezza grande a piacere, non produrrà un colpo così forte come se fosse sparata contro un muro da una distanza di poche braccia, cioè a distanza così breve da non essere sufficiente a far rubare l’impeto dalla resistenza dell’aria.”
In questa quarta giornata la matematica mediante una serie di proposizioni o teoremi concorre a spiegare fenomeni fisici che sono l’oggetto della balistica.
Da: il grande Blek
Ormai il progresso scientifico rende possibile l’espansione della guerra in ambito virtuale e nel dominio robotico.
Sono già in atto forme di guerra informatica o cibernetica. Attacchi a internet, diffusione in rete di notizie false, divulgazione di dati militari sensibili ne sono alcuni aspetti. Oltre a ciò ricordiamo i soldati automi dei nostri giorni. L’idea di realizzare un androide di tal genere  sarebbe però non nuova: l’avrebbe concepita  la mente di Leonardo da Vinci, ipotesi che si fonda su studi anatomici e meccanici contenuti nel Codice Atlantico.
Non si combatte soltanto sul campo di battaglia.
Intervengono nei conflitti i calcoli degli economisti. Giuseppe Della Torre, cattedratico di  Economia, distingue fra economia di guerra e guerra economica:
“Anticipo che per economia di guerra intendo l’ambito tradizionale degli studi, legato direttamente al conflitto armato, nei momenti della sua pianificazione e della sua gestione operativa, incluso il tema delle «riparazioni». Per guerra economica intendo le attività non strettamente militari, spesso preliminari o di accompagnamento o successive alle iniziative propriamente belliche. Di conseguenza, i temi delle sanzioni e degli embarghi, che sono sovente parte dell’economia della guerra, ho deciso di inserirli nella guerra economica, perché non strettamente legati al fenomeno bellico.”
La guerra economica contempla oggi, oltre che sanzioni e embarghi, la distruzione di sovrastrutture.
Fino a che punto la razionalità matematica può cogliere la realtà empirica della guerra?
In questo passo di Albert Einstein tratto da On the Method of Theoretical Physics si delinea il controverso rapporto fra matematica e fisica:
“We reverence ancient Greece as the cradle of western science. Here for the first time the world witnessed the miracle of a logical system which proceeded from step to step with such precision that every single one of its propositions was absolutely indubitable – I refer to Euclid’s geometry. […] But before mankind could be ripe for a science which takes in the whole of reality, a second fundamental truth was needed, which only became common property among philosophers with the advent of Kepler and Galileo. Pure logical thinking cannot yield us any knowledge of the empirical world; all knowledge of reality starts from experience and ends in it. Propositions arrived at by purely logical means are completely empty as regards reality. Because Galileo saw this, and particularly because he drummed it into the scientific world, he is the father of modern physics-indeed, of modern science altogether.”
Dunque Einstein riconosce all’antica Grecia il merito di avere dato all’umanità con la geometria euclidea un sistema logico preciso e indubitabile nella consequenzialità del suo svolgersi. Era però necessaria un’altra fondamentale verità, dovuta a Keplero e Galilei: il puro pensiero logico non è in grado di cogliere la complessità esperienziale. Tuttavia, argomenta ancora Einstein, logica ed esperienza risultano complementari, in quanto la ragione elabora una struttura teorica con la quale devono accordarsi i contenuti empirici:
“The structure of the system is the work of reason; the empirical contents and their mutual relations must find their representation in the conclusions of the theory.”
Nella Repubblica Platone esalta l’aritmetica e la geometria come discipline indispensabili sul piano pratico per gli scopi bellici, ma ancor più importanti sul piano teorico come mezzi di elevazione dell’animo verso la verità.
Ci troviamo così di fronte a una visione filosofica in cui la ricerca del vero  non contempla il ripudio della guerra. Quindi  alla matematica viene attribuita un’ambivalenza, anzi un ruolo dicotomico, che risulta comprensibile se si considera il periodo storico in cui Platone  visse, mentre non è accettabile oggi in quanto sappiamo ormai che la matematica può essere utile alla guerra, ma per sua natura non può non comportarne il ripudio. Il vero a cui mediante la matematica giunge col  pensiero assume una dimensione etica. Infatti una verità che non contempli l’etica è una verità falsificata. Si tratterebbe di spingere il genere umano a inverare in sé il connubio di verità ed etica. E in ciò la matematica può dare un contributo di prim’ordine.
Un noto tentativo di integrare i calcoli matematici relativi alla guerra con fattori di ordine sociale è quello di Lewis Fry Richardson in Mathematical Psycology of War.
Matematico pacifista e obiettore di coscienza, Richardson si impegnò nella ricerca di possibili rimedi preventivi all’insorgere di conflitti fra nazioni. Nei suoi sistemi di equazioni si tiene conto anche di elementi non matematici, come, ad esempio, il grado di conflittualità latente fra potenze. La sua teoria dell’equilibrio trova riscontro nell’opera di John Nash, del quale è noto il “dilemma del prigioniero”, sviluppato anche dal matematico americano di origine russa Anatol Rapoport, pacifista al pari di Richardson, cofondatore fra l’altro del Center for Research on Conflict Resolution
Ai conflitti fra nazioni è stata applicata anche la teoria dei giochi.
Nella Prussia dell’Ottocento già George Leopold von Reisswitz e il figlio Georg Heinrich Rudolf Johann avevano inventato il Kriegsspiel, gioco di guerra,  non per giocare alla guerra, ma per farla, simulandola sulla falsariga del gioco degli scacchi.  Nel suo evolversi il gioco di guerra andò svolgendosi con la supervisione di un arbitro.  I moderni wargames possono essere considerati sviluppi del Kriegsspiel. La teoria dei giochi presenta anche un aspetto costruttivo, giacché in base ad essa si può dimostrare che per due competitori è più vantaggioso cooperare piuttosto che combattersi a vicenda. Pertanto alla tradizionale strategia militare dovrebbe subentrare una strategia di altro tipo, orientata all’incontro piuttosto che allo scontro. C’è da augurarsi che anche la Ricerca Operativa si prefigga uno scopo analogo. In definitiva, i modelli matematici non necessariamente risultano adeguati per progettare o prevedere l’andamento di una guerra, mentre si palesano più funzionali alla preparazione alla pace.
I matematici italiani in guerra.
È l’argomento studiato in Laurent Mazliak, Rosanna Tazzioli. Ciascuno secondo il proprio mestiere. Lettera Matematica PRISTEM, 2015, La vittoria calcolata. Hal-01477415. Nel corso della prima guerra mondiale matematici come Vito Volterra, Eugenio Elia Levi, Mauro Picone sono apertamente a favore di un intervento italiano, ma non tutti i matematici li seguono. Vito Volterra, arruolato nell’esercito, non si limita ad assumere la posizione interventista, ma si adopera anche per mettere la matematica al servizio degli strumenti di guerra. Così anche Mauro Picone, che si dedica particolarmente alla balistica in collaborazione con matematici francesi. Dagli scambi epistolari fra matematici si desume entusiasmo patriottico per l’apporto dato alle operazioni belliche. Scrivono Mazliach e Tazzioli a proposito dell’abbandono della ricerca pura:
“L’intento è piuttosto quello di aiutare  concretamente il proprio paese cui si offre il sacrificio dei lavori teorici per consacrarsi alle applicazioni, probabilmente meno profonde, ma di immediato impiego nel conflitto.”
Tuttavia altri matematici erano su posizioni neutrali e ritenevano di dover dedicarsi agli studi teorici. Dalla  ricerca di Mazliach e Tazzioli si desume dunque il riproporsi in forma moderna della dicotomia platonica fra matematica applicata alla guerra e matematica come elevazione dello spirito. Dicotomia che va superata con il ripudio dell’uso della matematica a scopi bellici in seguito all’avvento delle armi nucleari e alla dimostrazione della loro tremenda distruttibilità nel corso della seconda guerra mondiale. Superamento necessario non solo alla matematica, ma alla scienza nel suo complesso.
Ogni pettoruto presidente di nome ma dittatore di fatto, tanto tronfio e eccitato quanto ottuso e stolto, può minacciare il ricorso alle armi nucleari tattiche o peggio con intenzioni ricattatorie.
Contro una tale esaltazione fissata, per usare un’espressione dello psichiatra Ludwig Binswanger, bisognerebbe tener presente di fronte a ogni guerra di aggressione questa presa di posizione di  scienziati russi tradotta dal russo:
“[…] La responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia. Per questa guerra non ci sono giustificazioni […] è del tutto evidente che l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la sicurezza del nostro paese. La guerra contro di essa è ingiusta e manifestamente priva di senso […] Scatenando questa guerra la Russia si è autocondannata a un isolamento internazionale, allo status di paese maledetto. Questo significa che noi, studiosi e scienziati, non potremo più svolgere il nostro lavoro come abbiamo fatto finora, in quanto la ricerca scientifica è impensabile senza la collaborazione con colleghi stranieri […]”
Ciò nell’anno 2022 dall’avvento dell’era cristiana.
Albert Einstein (1879 – 1955)
Albert Einstein avvertì l’urgente necessità di adoperarsi per la pace nell’era degli armamenti nucleari.
Ne discusse non solo con lo psicoanalista  Sigmund Freud, ma anche col matematico Bertrand Russell. Dalla collaborazione con quest’ultimo scaturì The Russell-Einstein Manifesto. Eccone l’incipit:
“In the tragic situation wich confronts humanity, we feel that scientists should assemble in conference to appraise the perils that have arisen as a result of the development of weapons of mass destruction, and to discuss a resolution in the spirit of the appended draft.”
È necessaria, dunque, una conferenza degli scienziati per valutare i pericoli sorti per lo sviluppo delle armi di distruzione di massa e giungere a una comune risoluzione. Sul genere umano, proseguono gli autori del manifesto, incombe una minaccia di estinzione totale. Non solo una H-bomb può distruggere intere città ben più grandi di Hiroshima, ma gli effetti della ricaduta di particelle radioattive possono anche interessare a lungo termine aree ancor più vaste.  Di qui l’inquietante interrogativo:
“Shall we put an end to the human race, or shall mankind renounce war?”
L’alternativa si pone fra rinunciare alla guerra o porre fine al genere umano. Il manifesto si conclude con la proposta agli scienziati di firmare la seguente risoluzione:
“In view of the fact that in any future world war nuclear weapons will certainly be employed, and that such weapons threaten the continued existence of mankind, we urge the governements of the world to realize, and to acknowledge publicly, that their purpose cannot be furthered by a world war, and we urge them, consequently, to find peaceful means for the settlement of all matters of dispute between them.”
Considerando dunque che l’impiego di armi nucleari minaccia di distruggere l’umanità, i governi dovrebbero rinunciare pubblicamente a mettere in atto i loro propositi con la guerra, impegnandosi a risolvere con mezzi pacifici ogni contrasto.
Giorgio Gallo nel suo saggio Costruzione della Pace: quale ruolo per la matematica? osserva opportunamente che la matematica, come ogni altra disciplina, è da considerare nel suo inverarsi in una “persona che vive in una data società e che con il suo comportamento può su essa influire”.
Di qui la responsabilità dei matematici, chiamati a prendere posizione contro la guerra e ad adoperarsi per la pace. Ce lo ricorda fra gli altri in Mathematics and Peace: Our Responsibilities il matematico brasiliano Ubiratan D’Ambrosio, citato da Michele Emmer del Dipartimento di Matematica dell’Università di Roma “La Sapienza” nell’articolo La matematica della guerra.
Il destino della civiltà sul pianeta può essere affidato ai matematici?
Mentre l’uomo del nostro tempo è “ancora quello della pietra e della fionda”, come canta Salvatore Quasimodo, ci chiediamo in particolare se i docenti di matematica possano essere tramiti privilegiati di civiltà. Forse più di altre discipline la matematica è in grado di concorrere a plasmare una forma mentis orientata alla pace. L’auspicio è che le giovani generazioni siano formate non solo umanisticamente, ma anche scientificamente e soprattutto matematicamente.
Proposte di approfondimenti
Per approfondire la parte prima: academia.edu/Per_un_lessico_della_politica_pace_e_guerra
Per approfondire la parte seconda: Matematica%26Pace_Articolo.pdf

Biagio Scognamiglio (Messina 1943). Allievo di Salvatore Battaglia e Vittorio Russo. Già docente di Latino e Greco e Italiano e Latino nei Licei, poi Dirigente Superiore per i Servizi Ispettivi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Ha pubblicato fra l’altro L’Ispettore. Problemi di cambiamento e verifica dell’attività educativa.

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