Il teleorama, un piccolo teatro tascabile

A prima vista sembra un libriccino qualsiasi. Potrebbe essere una guida di viaggio o un album illustrato.

Ma una volta preso in mano nasconde una sorpresa: guardando dentro il foro in copertina ed estendendo la retrostante struttura a fisarmonica, si può ammirare una scena in prospettiva con quinte che si restringono sul fondo, come in un minuscolo teatro.

È il teleorama, un dispositivo molto diffuso nell’Ottocento come oggetto di intrattenimento. Un gran numero di questi manufatti, riguardanti le vedute più disparate, è conservato al Victoria&Albert Museum di Londra. Questo teleorama del 1825 mostra, per esempio, una scena galante tra i boschi.

Questo del 1862, invece, raffigura in 3D il Palazzo delle Mostre di Londra.

Ma qual è, esattamente, il funzionamento del teleorama?
Tutto si basa sul meccanismo della prospettiva e in particolare sulla prospettiva accelerata, una tecnica usata da Bramante fin dalla fine del Quattrocento per la chiesa milanese di Santa Maria presso San Satiro, ripresa poi da Borromini per la galleria di Palazzo Spada a Roma e confluita infine nella scenotecnica teatrale.

In pratica se si crea una struttura a imbuto, i cui lati convergono verso il fondo, l’occhio percepisce una profondità maggiore di quella reale. Nel caso del teleorama la convergenza è ottenuta attraverso il ritaglio di cornici che lasciano al centro uno spazio vuoto via via più piccolo. Ovviamente anche gli elementi delle varie cornici, come figure umane o alberi, devono rimpicciolirsi progressivamente verso il fondo.

Questo sistema riproduce esattamente la struttura in sequenza prospettica delle quinte del teatro barocco.

Ciò che vedevano gli spettatori era simile al teatro che ancora oggi si può osservare nel castello di Český Krumlov, in Repubblica Ceca, uno dei meglio conservati al mondo.

In effetti, guardando bene dentro un teleorama, si possono vedere esattamente i vari livelli delle cornici.
Questo del 1840, realizzato probabilmente per pubblicizzare l’urbanizzazione di St. Leonard on sea, nel Sussex, è composto da cinque cornici, fondale incluso.

Il rapporto tra questi oggetti e il teatro barocco è molto più stretto di quanto non appaia: i primi esemplari, ideati nel 1730 dall’incisore tedesco Martin Engelbrecht (1684-1765), erano delle fedeli riproduzioni di apparati teatrali famosi, dei quali era così possibile conservare una memoria visiva.
I suoi ‘diorami teatrali’ erano realizzati all’interno di lunghe scatole rigide, interamente in legno. Per vedere la prospettiva occorreva togliere il coperchio, così da far arrivare la luce in ogni scomparto.

Le cornici intercambiabili, stampate su fogli da ritagliare, si inserivano in apposite fessure seguendo la sequenza indicata dai numeri.

Per certi versi è un’evoluzione della scatola prospettica, con la differenza che il diorama teatrale presenta una profondità spaziale molto più accentuata. Ecco come appare un diorama di Engelbrecht a sei fogli.

A questo punto mi pare obbligatorio provare a farne uno. Possiamo provare con una lunga scatola di cartone o con la tecnica a fisarmonica. L’ispirazione non manca: basta cercare in rete paper peepshow per trovare una marea di esemplari.
Questo, ad esempio, è a doppia visione: dal foro superiore si vede la superficie del Tamigi mentre dal foro inferiore il tunnel sotterraneo (stesso soggetto del primo teleorama dell’articolo).

Sul sito del Victoria&Albert Museum c’è un’apposita guida per creare un paesaggio in più strati.

Ma nulla vieta di trasformare in un teleorama anche un dipinto. Basta scegliere un’opera che si presti ad essere separata in livelli, ad esempio certe foreste di Henri Rousseau, e creare la doppia fisarmonica laterale.

Le possibilità sono pressoché infinite. Quello che potrebbe scarseggiare, invece, è sempre e solo il tempo!

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Quando l’inquinamento diventò un colore: il fumo di Londra

È un grigio scuro con una punta di blu. Periodicamente torna di moda perché è una tinta sobria ed elegante (sempre che si possa attribuire questa caratteristica a un colore). Sto parlando del cosiddetto ‘fumo di Londra‘, colore noto anche come ‘grigio Londra’.

Se volessimo ottenerlo al computer, ad esempio con Photoshop, dovremmo usare una di queste miscele.

Il risultato è un tono di grigio leggermente ‘freddo’, un colore un po’ metallico.

Ma da dove arriva questa denominazione? Molti fanno risalire la codifica di questo colore al ‘Grande smog‘, un gravissimo episodio di inquinamento avvenuto a Londra tra il 5 e il 9 dicembre del 1952.
A creare quella mortale cappa di smog (che provocò oltre 12.000 vittime) fu una concomitanza di cause diverse: lo spostamento dell’anticiclone delle Azzorre sull’Atlantico che provocò la formazione di uno strato di aria fredda e immobile su Londra; il conseguente addensamento di una fitta nebbia dovuta alla condensa dell’aria umida e l’abbassamento delle temperature che spinse gli abitanti ad aumentare il consumo di carbone per il riscaldamento domestico, provocando un’enorme dispersione di particelle di fuliggine che si sommarono a quelle delle fabbriche e delle centrali elettriche.

Gli effetti furono pesantissimi: la circolazione automobilistica divenne pressoché impossibile, i pedoni si smarrivano tra le strade e vennero persino chiusi teatri e cinema poiché il fumo penetrato al loro interno non rendeva visibile il palco. Ma l’aspetto più drammatico fu l’impennata di malattie respiratorie dovute ai livelli altissimi di acido solforico nell’aria che portarono nell’immediato a circa 4.000 decessi.
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Qualche anno più tardi, quando la classe politica si rese conto della correlazione tra quell’evento e i danni provocati alla salute dei cittadini, il governo inglese emanò il Clean Air Act, uno dei primi provvedimenti legislativi moderni volto a ridurre le emissioni inquinanti. Una legge che sostanzialmente decretò la fine dell’era del carbone e lo spostamento fuori dalle città di tutte le attività produttive.
Quanto al color fumo di Londra, come dicevo sopra, la sua  nascita viene spesso associata a questo episodio per via della tinta grigio scuro assunta dall’aria della città. Eppure, spulciando tra la letteratura legata ai colori, ho trovato una citazione del fumo di Londra (descritto in francese come fumée de Londres) già nel testo di Eugéne Chevreul del 1864 in cui pubblicò il suo famoso cerchio cromatico (quello che ispirò a Seurat la tecnica puntinista), il Des couleurs et de leurs applications aux arts industriels à l’aide des cercles chromatiques.

Secondo il chimico francese il fumo di Londra è una sfumatura del nero di Ginevra, tinta che qualche pagina dopo viene descritta come una tonalità di blu.Ma più che capire quale fosse il tono esatto del fumo di Londra, quello che è interessante osservare è che già negli anni Sessanta dell’Ottocento, quasi un secolo prima del Grande smog, l’inquinamento londinese aveva già dato il suo nome a un colore!
D’altronde lo smog delle città inglesi era comparso già nel primo Ottocento con gli effetti della Rivoluzione industriale: la combustione del carbone riempiva l’aria di fumo che, mescolandosi con la nebbia, dava luogo a coltri spesse e irrespirabili. Lo stesso termine smog deriva proprio dalla fusione tra smoke (fumo) e fog (nebbia).

Di questo fenomeno ha scritto un testimone d’eccezione, lo scrittore inglese Charles Dickens (1812-1870). Nel suo Tempi difficili del 1854, un romanzo ispirato all’immaginaria città industriale di Coketown, racconta:
«Era una città con mattoni rossi o, per meglio dire, di mattoni che sarebbero stati rossi se fumo e cenere lo avessero permesso: così come stavano le cose, era una città di un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio; una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano, snodandosi ininterrottamente, senza mai svoltolarsi del tutto, interminabili serpenti di fumo.»

Questa immagine delle città inglesi, costellate da ciminiere e avvolte dal fumo, diventa in poco tempo anche un soggetto artistico come in questa veduta di Manchester del 1852 realizzata da William Wyld per la regina Vittoria.

L’inquinamento è visto curiosamente come un aspetto romantico del paesaggio, tant’è vero che è inserito all’interno di una bucolica visione con contadini e caprette.
Quarant’anni dopo, le atmosfere fumose delle città industriali diventano il soggetto principale del dipinto, come in questa tela di Lionel Walden dedicata al molo di Cardiff, la capitale del Galles che nel giro di un secolo vide un’enorme espansione grazie alle esportazioni di carbone.

L’inquinamento dell’aria non appariva come un problema ma come la manifestazione visibile del progresso. Quasi un’anticipazione dell’estetica del Futurismo, ma dipinta secondo le regole accademiche.
Tuttavia, secondo uno studio dell’Università di Cambridge, lo smog non avrebbe solo preso il posto dei soggetti della tradizione ma sarebbe stato determinante nella nascita dell’Impressionismo. I ricercatori, infatti, hanno osservato come i dipinti di Turner (considerato per la sua pennellata larga e sfaldata un precursore dell’Impressionismo) e, successivamente, quelli di Monet, diventino anno dopo anno sempre più sfocati, in parallelo con l’aumento di anidride solforosa nel cielo.
Il celebre Pioggia, vapore, velocità del 1844 dipinto da William Turner non sarebbe quindi solo un esperimento di vaghezza, ma un preciso e realistico ritratto del livello di inquinamento presente nell’atmosfera inglese in quel periodo.

Allo stesso modo le vedute di Londra di Claude Monet dipinte alla fine del secolo, specialmente quelle del Parlamento inglese e del ponte di Charing Cross, sono il risultato di una densa coltre di smog, prima che di una tecnica basata sulle pennellate veloci.

Di questo aspetto, del fatto cioè che stesse dipingendo l’aria inquinata, Monet era perfettamente consapevole e in parte anche compiaciuto come rivela una lettera scritta alla moglie nel 1900:
«Sto lavorando molto duramente, anche se stamattina pensavo davvero che il tempo fosse completamente cambiato; quando mi sono alzato ho visto con terrore che non c’era nebbia, nemmeno un filo di nebbia: ero prostrato, e vedevo tutti i miei quadri finiti, ma a poco a poco i fuochi si sono accesi e il fumo e la foschia sono tornati.»

È la stessa foschia che aveva già immortalato Giuseppe De Nittis nel suo periodo londinese del 1878.

Questi pittori, dunque, hanno dipinto (e respirato) il famoso fumo di Londra e in effetti è proprio di quel grigio-azzurro di cui parlava Chevreul. Certo, fa un po’ specie che un fenomeno che oggi, giustamente, combattiamo, sia stato in qualche modo un motore della pittura. Ma tant’è: l’arte è sempre espressione di un’epoca e di una società. E noi dobbiamo osservarla in modo oggettivo, grati di tutte le storie che ci sa raccontare.

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