Un’esplosione di novità. In oncologia la ricerca galoppa e le terapie sono sempre più numerose, oltre che mirate e personalizzate. Come spiega Filippo De Braud, direttore del Dipartimento Oncologia e Ematoncologia dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano, «solo negli ultimi cinque anni sono stati approvati oltre 350 nuovi farmaci o indicazioni, negli Stati Uniti il ritmo è di un’approvazione a settimana. La vera rivoluzione è arrivata con le terapie a bersaglio molecolare (vedi anche Focus in edicola, ndr), che agiscono direttamente sulle alterazioni del tumore bloccando processi biologici fondamentali per la sua sopravvivenza; sono cure sempre più numerose e anche dinamiche, da modificare nel tempo, perché possono smettere di funzionare se il bersaglio si modifica o il cancro attiva altre vie per “resistere”». Avere tante scelte a disposizione è perciò fondamentale per avere sempre una nuova arma pronta da usare e oggi le possibilità sono molte, fra combinazioni innovative, farmaci sempre più “intelligenti” e uno studio sempre più raffinato del “momento giusto” per intervenire.
Le frontiere dell’immunoterapia. Sta emergendo, per esempio, l’opportunità di utilizzare l’immunoterapia in maniera più “ragionata”, selezionando al meglio i pazienti da trattare in base ai biomarcatori presenti. «Nei tumori urologici per esempio abbiamo osservato che la presenza di DNA tumorale circolante dopo la chirurgia indica una buona probabilità di risposta all’immunoterapia», specifica Andrea Necchi, responsabile dell’Area delle neoplasie genitourinarie dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. «Il futuro dell’immunoterapia sarà tuttavia anche un suo impiego in fasi più precoci di malattia, per esempio in tumori operabili prima dell’intervento chirurgico: alcuni dati, per esempio sul melanoma, indicano che dare l’immunoterapico prima e dopo l’intervento migliora i risultati, probabilmente perché gli antigeni contro cui sono diretti i farmaci sono molto abbondanti nel microambiente tumorale prima della chirurgia e questo ne potenzia l’effetto. L’immunoterapia peraltro sta cambiando obiettivi e contesto di impiego: grazie alla sua efficacia possiamo iniziare a pensarla non più come un modo per migliorare la qualità di vita in malattie avanzate, ma come un mezzo per evitare interventi chirurgici molto demolitivi o addirittura per guarire. In questo senso il futuro probabilmente sarà, oltre che di nuovi immunoterapici mirati a differenti bersagli, delle combinazioni di immunoterapia con la chemioterapia o con le terapie a bersaglio molecolare».
L’unione fa la forza. Associare l’immunoterapia ad altre strategie è infatti una strada che si sta dimostrando efficace in molte situazioni.
«Le terapie sui tumori del sangue spesso precorrono gli avanzamenti che poi riguarderanno anche i tumori solidi e anche in questo caso è accaduto: si è osservato che nel linfoma di Hodgkin, per esempio, la sensibilità alla chemioterapia aumenta dopo un trattamento con inibitori dei checkpoint immunitari, farmaci che “tolgono il freno” ai linfociti T ripristinando una risposta immune efficiente nei confronti delle cellule tumorali», interviene Enrico Derenzini, responsabile della Divisione di Ematologia dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.
«Chemioterapia e immunoterapia possono perciò avere un’azione sinergica e in alcuni casi l’aggiunta degli inibitori dei checkpoint immunitari può radicalmente cambiare la prognosi dei pazienti. Senza contare la possibilità di associare diversi immunoterapici fra loro per approcci senza chemioterapia che stanno già dimostrando buoni risultati in alcune situazioni». Si tratta di un settore in pieno sviluppo, perché è cruciale capire quali siano le associazioni migliori in ciascun caso: la ricerca ferve e le risposte arriveranno nei prossimi anni, mentre altre “combinazioni” si fanno già oggi strada in clinica.
Armi doppie. Se infatti da un lato si studia come associare farmaci diversi per potenziarne gli effetti, dall’altro i ricercatori stanno anche mettendo a punto armi “doppie”, che già da sole possano combinare l’azione super-selettiva dell’anticorpo diretto contro un bersaglio molecolare con l’effetto killer dei chemioterapici. È il caso dei farmaci anticorpo-coniugati, che portano “il nemico in casa” al tumore: sono infatti composti da un anticorpo che riconosce e si lega a una proteina tumorale sulla superficie della cellula neoplastica; una volta legato, l’anticorpo viene “fagocitato” dalla cellula e, come fosse un cavallo di Troia, trasporta al suo interno il chemioterapico a cui è legato. In teoria questo approccio dovrebbe ridurre la tossicità della chemioterapia, portandola solo dove serve; nella pratica ancora non è sempre così perché, come sottolinea De Braud, «in alcune situazioni la tossicità è simile a una chemio standard, ma ci sono risultati interessanti. Trastuzumab deruxtecan, per esempio, è un farmaco anticorpo-coniugato diretto contro HER2 (marcatore presente in circa il 15-20% dei tumori della mammella, ndr) con una buona efficacia che funziona anche in pazienti che esprimono pochissimo marcatore, a indicare che probabilmente la tossicità portata dal farmaco si “irradia” nell’ambiente attorno una volta morte le cellule bersaglio».
Un’arma “doppia” sono poi gli anticorpi bispecifici, che legano due obiettivi differenti per aumentare la loro efficacia: per esempio, possono reclutare anche le cellule effettrici del sistema immunitario, i linfociti T, reindirizzandole contro le cellule tumorali.
In questo modo si individua il nemico e lo si combatte in un corpo a corpo immediato; come spiega Derenzini, in alcuni tumori del sangue gli anticorpi bispecifici stanno già dando risultati molto incoraggianti: «In linfomi aggressivi e pazienti difficili, per esempio, si hanno tassi di remissione del 40-50% con una tossicità per certi versi più attenuata rispetto a quella delle Car-T. La sfida ora è capire come integrare tutte queste diverse opzioni: la chiave sarà la combinazione degli approcci e le terapie sequenziali, che impieghino Car-T e inibitori dei checkpoint immunitari, oppure anticorpi bispecifici e farmaci anticorpo coniugati e così via. Tutto questo verosimilmente in fasi sempre più precoci di malattia».
Il futuro nei vaccini (terapeutici). Lo scopo è avere un numero sempre maggiore di pazienti che possano anche dirsi guariti, che non vadano incontro a ricadute. Tuttavia come ricorda Maria Rescigno, docente di patologia generale e pro rettore vicario con delega alla ricerca all’Humanitas University di Milano, «l’immunoterapia ha cambiato in modo fondamentale la prognosi di alcuni tumori fino a poco tempo fa considerati incurabili. Tuttavia c’è ancora una percentuale di pazienti che non risponde ai trattamenti con gli inibitori dei checkpoint immunitari, perché in molti casi la risposta immunitaria non è stata attivata e le cellule immunitarie a cui “togliere il freno” contro il tumore non ci sono o sono troppo scarse».
In questi casi potrebbe diventare possibile “svegliare” il sistema immune con un vaccino terapeutico, progettato appositamente contro lo specifico tipo di tumore, che possa creare le condizioni perché gli inibitori dei checkpoint immunitari funzionino. Maria Rescigno sta studiando vaccini terapeutici per pazienti con melanoma metastatico o sarcoma, sia per dare risposte a pazienti che spesso hanno esiti negativi e poche opzioni di terapia, sia per capire chi potrebbe avvantaggiarsi di più di questo nuovo approccio: i vaccini sono realizzati cercando di identificare molecole comuni nei tumori, così che possano essere usati da tutti i pazienti con quel tipo di neoplasia.
Questi particolari vaccini, su cui il gruppo sta lavorando anche grazie al sostegno di Fondazione AIRC, dirigono la risposta immunitaria verso l’attacco di cellule tumorali “stressate” perché portatrici di mutazioni: si sta perciò identificando un’impronta digitale che caratterizza le cellule stressate in modo da “bersagliarle” in maniera specifica attraverso il vaccino stesso. Su questa falsariga sarà possibile lavorare per creare vaccini terapeutici anche per altri tipi di cancro perché, come conclude Rescigno, «almeno in linea di principio, la strategia basata sulla vaccinazione potrebbe essere utilizzata in tutti i pazienti per aumentare le loro probabilità di rispondere ai trattamenti successivi».