Presa diretta, anticipazioni: “terra occupata”, reportage da Gaza all’Ucraina

Presa diretta, anticipazioni: il racconto della guerra in Ucraina e Medio Oriente

Tornano le inchieste di Presa diretta, il programma condotto da Riccardo Iacona con l’obiettivo di approfondire e raccontare le questioni più attuali per cercare di capire un mondo sempre più complesso. La puntata in onda questa sera alle 21.20 su Rai3 si intitola “Terra occupata” ed è stato realizzato da Riccardo Iacona, con Chiara Avesani, Marcello Brecciaroli, Daniela Cipolloni, Cecilia Carpio, Matteo Del Bò, Alessandro Marcelli, Luigi Mastropaolo, Roberta Pallotta, Massimiliano Torchia.

“Terra occupata” racconta le guerre, in Medio Oriente e in Ucraina. Decine di migliaia di morti e di feriti, città e villaggi distrutti, combattimenti casa per casa in attesa che mesi di negoziati portino finalmente ad un cessate il fuoco. A due anni dall’intervento russo in Ucraina, a quattro mesi dalla strage compiuta da Hamas in Israele e dall’inizio dell’operazione dell’esercito di Tel Aviv a Gaza, Presa diretta attraversa i territori devastati dalle tante, troppe guerre in corso. In Israele tra i pacifisti e i familiari degli ostaggi che chiedono di fermare l’intervento militare a Gaza, in Cisgiordania dove si assiste all’avanzata dei coloni ebrei nelle zone dove vivono i palestinesi. Che fine hanno fatto le ragioni della pace, quelle che avevano portato agli accordi di Oslo nel 1993?

E poi ancora a Beirut che sta vivendo nel timore che il conflitto si estenda anche in Libano, un paese già divorato da una crisi economica senza precedenti. In Ucraina, invece, Riccardo Iacona ha raccolto le testimonianze delle mamme e delle mogli dei soldati scomparsi nel nulla, dei familiari dei ragazzi che da mesi combattono al fronte senza avere la possibilità di tornare a casa.

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Guerra e Matematica

La riflessione sulle guerre. Il carteggio Einstein-Freud e la matematica per gli scopi bellici.

Parte prima: il dibattito sulla guerra
Cancellare le guerre dai libri di storia è un appello del Movimento Nonviolento.
Senonché accogliere l’appello non cancellerebbe le guerre dalla storia. In assenza di riferimenti alla guerra non ci sarebbe occasione di leggere riflessioni fondamentali come queste:
“Homicidia conpescimus et singulas caedes: quid bella et occisarum gentium gloriosum scelus? […] Ex senatus consultis plebisque scitis saeva exercentur et publice iubentur vetata privatim. Quae clam commissa capite luerent, tum quia paludati fecere laudamus. Non pudet homines, mitissimum genus, gaudere sanguine alterno et bella gerere gerendaque liberis tradere, cum inter se etiam mutis ac feris pax sit.”
Sono parole di Lucio Anneo Seneca in un memorabile passo di un’epistola all’amico Lucilio. L’assassinio viene punito se commesso in privato, mentre è motivo di lode e di gloria se commesso in guerra: questa la vergogna denunciata definitivamente dal filosofo latino con parole destinate a riecheggiare in ogni tempo, monito più che mai attuale quando  assistiamo come oggi a orrendi crimini di guerra perpetrati contro civili inermi.
La prevaricazione di chi si ritiene più forte militarmente a danno di un popolo trova riscontro nell’antica Grecia.
Esemplare in proposito il dialogo fra gli Ateniesi e i  Meli nella Guerra del Peloponneso di Tucidide. Gli Ateniesi, in guerra contro Sparta, inviano in via preventiva  ambasciatori presso i Meli, coloni spartani dell’isola di Melo, per indurli alla resa, ammonendo i loro consiglieri che “i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano”. I Meli chiedono come possa esserci un interesse comune fra chi accetti di diventare schiavo e chi si erga a padrone. Osservano ancora i Meli che non cercare ogni via per evitare la sottomissione sarebbe manifestazione di viltà e motivo di vergogna. Replicano gli Ateniesi che sarebbe saggio invece arrendersi a un avversario più potente. Purtroppo il  dialogo tucidideo resta attuale in una sua versione tragicamente aggiornata: oggi qualunque criminale compiaciuto di sentirsi più potente dispone della minaccia al ricorso alle armi nucleari.
Dall’antichità classica proviene anche la distinzione tra guerra difensiva e guerra offensiva.
Troviamo in Tito Livio la seguente espressione:  “Iustum est bellum quibus necessarium, et pia arma, quibus nulla nisi in armis relinquitur spes.”
Vale a dire che la guerra è giusta se necessaria per chi non nutra speranza alcuna di salvezza qualora non ricorra alle armi a scopo di difesa. La riflessione sulla guerra giusta era già presente in Aristotele, che da una parte condannava l’aggressione riconoscendo a chi venisse aggredito il diritto di difendersi, ma dall’altra giustificava il muovere guerra ai barbari. Analogamente nel pensiero cristiano medioevale si affermò il concetto di guerra santa contro gli infedeli, “sterpi eretici” secondo la definizione di Dante. Il bellicismo colonialistico cinquecentesco si basava sull’asserita necessità di redimere dalla loro inciviltà i popoli da colonizzare.  Insomma lo ius ad bellum, ovvero diritto di muovere guerra, giustificava in certi casi gli aggressori.
Nel secentesco trattato De iure belli ac pacis di Ugo Grozio viene esplicitato fra l’altro lo ius in bello, ovvero complesso di norme giuridiche da rispettare in  guerra.
Su questo tema si pronuncia anche Louis de Jaucourt, il quale nella voce Guerre della Encyclopédie illuminista scrive che  non v’è diritto che autorizzi “a togliere la vita per deliberato proposito ai prigionieri di guerra, né a coloro che domandano quartiere, né a coloro che si arrendono, né tanto meno ai vecchi, alle donne, ai bambini, e in generale  a tutte le persone che non hanno un’età né svolgono una professione tali da renderli atti alle armi, e che nella guerra non hanno nessuna parte e vi sono coinvolti solo perché si trovano nel paese o nel partito nemico”. Nella voce citata si condanna anche  la brutalità della guerra nei confronti della donna. Eccola tradotta dal francese:
“Essa [la guerra] ha regnato in tutti i secoli sulle più fragili basi; la si è vista sempre desolare il mondo, privare le famiglie dei loro eredi, riempire gli stati di vedove e di orfani: mali deplorevoli, ma tanto comuni! In ogni tempo gli uomini, per ambizione, per avarizia, per gelosia, per malvagità, si sono derubati, bruciati, sgozzati a vicenda […] A più forte ragione, i diritti di guerra non giustificano gli oltraggi all’onore delle donne, dato che una tale condotta non contribuisce affatto alla nostra difesa, alla nostra sicurezza né alla difesa dei nostri diritti; essa serve soltanto a soddisfare la brutalità del soldato privo d’ogni freno.”
Delitti contro l’umanità che continuano ad essere perpetrati dal “soldato privo d’ogni freno”, a ciò per giunta  incitato dalla viltà di chi in sede di comando pianifica la presa a bersaglio di  civili inermi.
La riflessione sulle cause della guerra trova una delle sue più alte espressioni nel carteggio Einstein-Freud, di cui sono qui riportati alcuni stralci in traduzione.
Il padre della teoria della relatività si rivolge per una risposta al padre della psicoanalisi:
“Caro signor Freud, c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? È ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.”
Si riportano qui alcuni passi della lunga risposta:
“Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con lei. […] Ora la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, cosi che dobbiamo ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più, non è soltanto un rifiuto intellettuale e affettivo, in noi pacifisti è un’intolleranza costituzionale, per così dire il massimo della idiosincrasia. […] Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori – l’atteggiamento sempre più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alla guerra in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo giudicarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.”
Evidentemente l’evoluzione civile è in inquietante ritardo nel mondo, se non giunge addirittura a configurarsi come involuzione.
Nel filone delle riflessioni sulla pace risalta la cinquecentesca Querela pacis di Erasmo.
Eccone un passo tradotto dal latino:
“E invero, se io sono la Pace, esaltata all’unisono da dèi e uomini come sorgente, genitrice, nutrice, promotrice, tutrice di ogni bene esistente in cielo o in terra, e se in mia assenza nulla mai fiorisce, è saldo, puro, santo, piacevole per gli uomini e gradito ai superi, mentre la guerra viceversa si presenta come l’oceano di tutte le sventure esistenti al mondo, […] ebbene, io allora mi chiedo in nome dell’immortale divinità: chi può ritenere che costoro siano esseri umani ed abbiano un briciolo di senno, quando a dispetto delle mie virtù si adoperano con tanti mezzi, tanta ostinazione, tante macchinazioni, tante astuzie, tanti affanni, tanti rischi a scacciarmi, per acquistare a così caro prezzo un tale profluvio di mali?”
Il testo classico in cui la ragione coltiva l’utopia è  Per la pace perpetua  di Immanuel Kant.
Fra le condizioni necessarie per assicurare la pace perpetua il filosofo annovera la totale scomparsa degli eserciti permanenti, il divieto per ogni Stato di intromettersi con la forza in un altro Stato, la necessità  della forma repubblicana della costituzione di ogni Stato e del federalismo fra Stati. Per lui, che ritiene non inconciliabili politica e morale, i politici dovrebbero avvalersi della consulenza dei filosofi. Se ci chiediamo quali filosofi, dobbiamo escludere quelli come Georg Wilhelm Friedrich Hegel,  triste figura che la guerra non la condanna, ma la esalta. È l’aberrazione della “guerra sola igiene del mondo”, come la celebra e glorifica Filippo Tommaso  Marinetti.
Encicliche dei sommi pontefici come  Pacem in terris  o Fratelli tutti vagheggiano la pace universale.
Ferma, decisa e risoluta è la  condanna ecclesiastica di ogni guerra di aggressione, definita dal Vaticano “moralmente ingiusta, inaccettabile, barbara, insensata, ripugnante e sacrilega”. Anche il Papa riconosce a chi sia aggredito il diritto di difendersi. Ad ogni  posizione irenica ovvero pacifista, sia religiosa che laica, si contrappone la concezione della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi” espressa da Klaus von Clausewitz nel suo trattato Vom Kriege.
Oggi i progetti di educazione alla pace sono insidiati dalla  minaccia incombente della cosiddetta guerra nucleare preventiva.
Finora si riteneva che l’equilibrio del terrore potesse scongiurare la terza guerra mondiale. Però era già presente nel pensiero di un presidente statunitense l’idea di una guerra preventiva. La novità  consiste nel fatto che  ora l’uso di armi atomiche in funzione preventiva  è contemplato in una legge voluta da un famigerato dittatore gongolante ad ogni suo lancio di missili. Perciò, quando alla fine del suo volume sull’identità umana Edgar Morin, avvalendosi delle scienze dell’incertezza, scrive che per l’avvenire “niente è sicuro, neanche il peggio”, con tutto il rispetto per il più che centenario studioso dobbiamo purtroppo constatare che la probabilità del peggio è in aumento. Probabilità che un qualunque detentore di un potere assolutistico dia il via in un accesso di demenza, se assecondato da generali altrettanto folli,  allo sterminio della vita sul pianeta per la percezione soggettiva di una minaccia soltanto presunta.
Vittorino Andreoli in Homo stupidus stupidus. L’agonia di una civiltà, Rizzoli, 2018, osserva che la corsa agli armamenti si svolge più che mai “all’insegna della stupidità e della follia”.
Questa l’amara constatazione dello psichiatra a proposito dello scadimento cerebrale di questo o quel singolo individuo al posto di comando: “Trasformare questo pianeta in una pietra che, nuda e fredda, gira nell’universo non è più nelle mani degli dèi, ma della stupidità del potere.”
Viene in mente la conclusione di un romanzo.
Da La coscienza di Zeno di Italo Svevo: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
Pablo Picasso, Guernica (1937)
Parte seconda: matematici  pro e contro  la guerra
Il trattato L’arte della guerra attribuito a Sun Tzu, risalente al VI secolo avanti Cristo, dedica spazio a una serie di fattori matematici che possono determinare l’esito di una guerra.
Il testo è organizzato in tredici capitoli dedicati all’analisi razionale delle diverse dimensioni della guerra, identificando le modalità per perseguire e riportare la vittoria. Tredici i capitoli: pianificazione e valutazione; preparazione alla guerra; attacco strategico; schieramento e disposizione dell’esercito; forze; punti di debolezza e punti di forza; scontro e manovre militari; variabili, variazioni e adattabilità; spostamenti e movimenti delle truppe; terreno; territorio e i nove campi di battaglia; attacco con il fuoco; utilizzo delle spie. Chi è esperto dell’arte della guerra deve saper controllare il fattore morale, il cuore, la forza e le diverse circostanze. Il numero non  dà vittoria certa: la vittoria deve essere creata sul campo. Tuttavia nel quarto capitolo i fattori numerico e geometrico sono  presi in  considerazione:
“Ricorda, gli elementi della strategia militare sono cinque: primo, misurazione dello spazio; secondo, valutazione della quantità; terzo, calcolo; quarto, confronto; e quinto, probabilità di vittoria. Le misurazioni dello spazio si deducono dal territorio. Le valutazioni della quantità si deducono dalle misurazioni, i calcoli dalla quantità, i confronti dai calcoli, e la probabilità di vittoria dai confronti.”
Galilei, che Einstein definisce padre della scienza moderna, si è occupato di guerra in Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali.
L’opera è stata tradotta in italiano da Alessandro De Angelis e pubblicata da Codice edizioni nel 2021. Nell’opera, realizzata in forma dialogica,  la quarta giornata è dedicata al moto dei proiettili. A un certo punto Simplicio si dimostra curioso di sapere perché i proiettili delle armi da fuoco debbano essere considerati diversamente da quelli di archi e balestre e Salvati risponde che “la velocità di una palla sparata da un moschetto o da un cannone è soprannaturale”, cioè più veloce di quella di un corpo in caduta libera:
“Infatti, se una tale palla dovesse cadere da una grande altezza, la sua velocità, a causa della resistenza dell’aria, non aumenterebbe indefinitamente. […] Sono dell’opinione che una palla di moschetto o di cannone, che cade da un’altezza grande a piacere, non produrrà un colpo così forte come se fosse sparata contro un muro da una distanza di poche braccia, cioè a distanza così breve da non essere sufficiente a far rubare l’impeto dalla resistenza dell’aria.”
In questa quarta giornata la matematica mediante una serie di proposizioni o teoremi concorre a spiegare fenomeni fisici che sono l’oggetto della balistica.
Da: il grande Blek
Ormai il progresso scientifico rende possibile l’espansione della guerra in ambito virtuale e nel dominio robotico.
Sono già in atto forme di guerra informatica o cibernetica. Attacchi a internet, diffusione in rete di notizie false, divulgazione di dati militari sensibili ne sono alcuni aspetti. Oltre a ciò ricordiamo i soldati automi dei nostri giorni. L’idea di realizzare un androide di tal genere  sarebbe però non nuova: l’avrebbe concepita  la mente di Leonardo da Vinci, ipotesi che si fonda su studi anatomici e meccanici contenuti nel Codice Atlantico.
Non si combatte soltanto sul campo di battaglia.
Intervengono nei conflitti i calcoli degli economisti. Giuseppe Della Torre, cattedratico di  Economia, distingue fra economia di guerra e guerra economica:
“Anticipo che per economia di guerra intendo l’ambito tradizionale degli studi, legato direttamente al conflitto armato, nei momenti della sua pianificazione e della sua gestione operativa, incluso il tema delle «riparazioni». Per guerra economica intendo le attività non strettamente militari, spesso preliminari o di accompagnamento o successive alle iniziative propriamente belliche. Di conseguenza, i temi delle sanzioni e degli embarghi, che sono sovente parte dell’economia della guerra, ho deciso di inserirli nella guerra economica, perché non strettamente legati al fenomeno bellico.”
La guerra economica contempla oggi, oltre che sanzioni e embarghi, la distruzione di sovrastrutture.
Fino a che punto la razionalità matematica può cogliere la realtà empirica della guerra?
In questo passo di Albert Einstein tratto da On the Method of Theoretical Physics si delinea il controverso rapporto fra matematica e fisica:
“We reverence ancient Greece as the cradle of western science. Here for the first time the world witnessed the miracle of a logical system which proceeded from step to step with such precision that every single one of its propositions was absolutely indubitable – I refer to Euclid’s geometry. […] But before mankind could be ripe for a science which takes in the whole of reality, a second fundamental truth was needed, which only became common property among philosophers with the advent of Kepler and Galileo. Pure logical thinking cannot yield us any knowledge of the empirical world; all knowledge of reality starts from experience and ends in it. Propositions arrived at by purely logical means are completely empty as regards reality. Because Galileo saw this, and particularly because he drummed it into the scientific world, he is the father of modern physics-indeed, of modern science altogether.”
Dunque Einstein riconosce all’antica Grecia il merito di avere dato all’umanità con la geometria euclidea un sistema logico preciso e indubitabile nella consequenzialità del suo svolgersi. Era però necessaria un’altra fondamentale verità, dovuta a Keplero e Galilei: il puro pensiero logico non è in grado di cogliere la complessità esperienziale. Tuttavia, argomenta ancora Einstein, logica ed esperienza risultano complementari, in quanto la ragione elabora una struttura teorica con la quale devono accordarsi i contenuti empirici:
“The structure of the system is the work of reason; the empirical contents and their mutual relations must find their representation in the conclusions of the theory.”
Nella Repubblica Platone esalta l’aritmetica e la geometria come discipline indispensabili sul piano pratico per gli scopi bellici, ma ancor più importanti sul piano teorico come mezzi di elevazione dell’animo verso la verità.
Ci troviamo così di fronte a una visione filosofica in cui la ricerca del vero  non contempla il ripudio della guerra. Quindi  alla matematica viene attribuita un’ambivalenza, anzi un ruolo dicotomico, che risulta comprensibile se si considera il periodo storico in cui Platone  visse, mentre non è accettabile oggi in quanto sappiamo ormai che la matematica può essere utile alla guerra, ma per sua natura non può non comportarne il ripudio. Il vero a cui mediante la matematica giunge col  pensiero assume una dimensione etica. Infatti una verità che non contempli l’etica è una verità falsificata. Si tratterebbe di spingere il genere umano a inverare in sé il connubio di verità ed etica. E in ciò la matematica può dare un contributo di prim’ordine.
Un noto tentativo di integrare i calcoli matematici relativi alla guerra con fattori di ordine sociale è quello di Lewis Fry Richardson in Mathematical Psycology of War.
Matematico pacifista e obiettore di coscienza, Richardson si impegnò nella ricerca di possibili rimedi preventivi all’insorgere di conflitti fra nazioni. Nei suoi sistemi di equazioni si tiene conto anche di elementi non matematici, come, ad esempio, il grado di conflittualità latente fra potenze. La sua teoria dell’equilibrio trova riscontro nell’opera di John Nash, del quale è noto il “dilemma del prigioniero”, sviluppato anche dal matematico americano di origine russa Anatol Rapoport, pacifista al pari di Richardson, cofondatore fra l’altro del Center for Research on Conflict Resolution
Ai conflitti fra nazioni è stata applicata anche la teoria dei giochi.
Nella Prussia dell’Ottocento già George Leopold von Reisswitz e il figlio Georg Heinrich Rudolf Johann avevano inventato il Kriegsspiel, gioco di guerra,  non per giocare alla guerra, ma per farla, simulandola sulla falsariga del gioco degli scacchi.  Nel suo evolversi il gioco di guerra andò svolgendosi con la supervisione di un arbitro.  I moderni wargames possono essere considerati sviluppi del Kriegsspiel. La teoria dei giochi presenta anche un aspetto costruttivo, giacché in base ad essa si può dimostrare che per due competitori è più vantaggioso cooperare piuttosto che combattersi a vicenda. Pertanto alla tradizionale strategia militare dovrebbe subentrare una strategia di altro tipo, orientata all’incontro piuttosto che allo scontro. C’è da augurarsi che anche la Ricerca Operativa si prefigga uno scopo analogo. In definitiva, i modelli matematici non necessariamente risultano adeguati per progettare o prevedere l’andamento di una guerra, mentre si palesano più funzionali alla preparazione alla pace.
I matematici italiani in guerra.
È l’argomento studiato in Laurent Mazliak, Rosanna Tazzioli. Ciascuno secondo il proprio mestiere. Lettera Matematica PRISTEM, 2015, La vittoria calcolata. Hal-01477415. Nel corso della prima guerra mondiale matematici come Vito Volterra, Eugenio Elia Levi, Mauro Picone sono apertamente a favore di un intervento italiano, ma non tutti i matematici li seguono. Vito Volterra, arruolato nell’esercito, non si limita ad assumere la posizione interventista, ma si adopera anche per mettere la matematica al servizio degli strumenti di guerra. Così anche Mauro Picone, che si dedica particolarmente alla balistica in collaborazione con matematici francesi. Dagli scambi epistolari fra matematici si desume entusiasmo patriottico per l’apporto dato alle operazioni belliche. Scrivono Mazliach e Tazzioli a proposito dell’abbandono della ricerca pura:
“L’intento è piuttosto quello di aiutare  concretamente il proprio paese cui si offre il sacrificio dei lavori teorici per consacrarsi alle applicazioni, probabilmente meno profonde, ma di immediato impiego nel conflitto.”
Tuttavia altri matematici erano su posizioni neutrali e ritenevano di dover dedicarsi agli studi teorici. Dalla  ricerca di Mazliach e Tazzioli si desume dunque il riproporsi in forma moderna della dicotomia platonica fra matematica applicata alla guerra e matematica come elevazione dello spirito. Dicotomia che va superata con il ripudio dell’uso della matematica a scopi bellici in seguito all’avvento delle armi nucleari e alla dimostrazione della loro tremenda distruttibilità nel corso della seconda guerra mondiale. Superamento necessario non solo alla matematica, ma alla scienza nel suo complesso.
Ogni pettoruto presidente di nome ma dittatore di fatto, tanto tronfio e eccitato quanto ottuso e stolto, può minacciare il ricorso alle armi nucleari tattiche o peggio con intenzioni ricattatorie.
Contro una tale esaltazione fissata, per usare un’espressione dello psichiatra Ludwig Binswanger, bisognerebbe tener presente di fronte a ogni guerra di aggressione questa presa di posizione di  scienziati russi tradotta dal russo:
“[…] La responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia. Per questa guerra non ci sono giustificazioni […] è del tutto evidente che l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la sicurezza del nostro paese. La guerra contro di essa è ingiusta e manifestamente priva di senso […] Scatenando questa guerra la Russia si è autocondannata a un isolamento internazionale, allo status di paese maledetto. Questo significa che noi, studiosi e scienziati, non potremo più svolgere il nostro lavoro come abbiamo fatto finora, in quanto la ricerca scientifica è impensabile senza la collaborazione con colleghi stranieri […]”
Ciò nell’anno 2022 dall’avvento dell’era cristiana.
Albert Einstein (1879 – 1955)
Albert Einstein avvertì l’urgente necessità di adoperarsi per la pace nell’era degli armamenti nucleari.
Ne discusse non solo con lo psicoanalista  Sigmund Freud, ma anche col matematico Bertrand Russell. Dalla collaborazione con quest’ultimo scaturì The Russell-Einstein Manifesto. Eccone l’incipit:
“In the tragic situation wich confronts humanity, we feel that scientists should assemble in conference to appraise the perils that have arisen as a result of the development of weapons of mass destruction, and to discuss a resolution in the spirit of the appended draft.”
È necessaria, dunque, una conferenza degli scienziati per valutare i pericoli sorti per lo sviluppo delle armi di distruzione di massa e giungere a una comune risoluzione. Sul genere umano, proseguono gli autori del manifesto, incombe una minaccia di estinzione totale. Non solo una H-bomb può distruggere intere città ben più grandi di Hiroshima, ma gli effetti della ricaduta di particelle radioattive possono anche interessare a lungo termine aree ancor più vaste.  Di qui l’inquietante interrogativo:
“Shall we put an end to the human race, or shall mankind renounce war?”
L’alternativa si pone fra rinunciare alla guerra o porre fine al genere umano. Il manifesto si conclude con la proposta agli scienziati di firmare la seguente risoluzione:
“In view of the fact that in any future world war nuclear weapons will certainly be employed, and that such weapons threaten the continued existence of mankind, we urge the governements of the world to realize, and to acknowledge publicly, that their purpose cannot be furthered by a world war, and we urge them, consequently, to find peaceful means for the settlement of all matters of dispute between them.”
Considerando dunque che l’impiego di armi nucleari minaccia di distruggere l’umanità, i governi dovrebbero rinunciare pubblicamente a mettere in atto i loro propositi con la guerra, impegnandosi a risolvere con mezzi pacifici ogni contrasto.
Giorgio Gallo nel suo saggio Costruzione della Pace: quale ruolo per la matematica? osserva opportunamente che la matematica, come ogni altra disciplina, è da considerare nel suo inverarsi in una “persona che vive in una data società e che con il suo comportamento può su essa influire”.
Di qui la responsabilità dei matematici, chiamati a prendere posizione contro la guerra e ad adoperarsi per la pace. Ce lo ricorda fra gli altri in Mathematics and Peace: Our Responsibilities il matematico brasiliano Ubiratan D’Ambrosio, citato da Michele Emmer del Dipartimento di Matematica dell’Università di Roma “La Sapienza” nell’articolo La matematica della guerra.
Il destino della civiltà sul pianeta può essere affidato ai matematici?
Mentre l’uomo del nostro tempo è “ancora quello della pietra e della fionda”, come canta Salvatore Quasimodo, ci chiediamo in particolare se i docenti di matematica possano essere tramiti privilegiati di civiltà. Forse più di altre discipline la matematica è in grado di concorrere a plasmare una forma mentis orientata alla pace. L’auspicio è che le giovani generazioni siano formate non solo umanisticamente, ma anche scientificamente e soprattutto matematicamente.
Proposte di approfondimenti
Per approfondire la parte prima: academia.edu/Per_un_lessico_della_politica_pace_e_guerra
Per approfondire la parte seconda: Matematica%26Pace_Articolo.pdf

Biagio Scognamiglio (Messina 1943). Allievo di Salvatore Battaglia e Vittorio Russo. Già docente di Latino e Greco e Italiano e Latino nei Licei, poi Dirigente Superiore per i Servizi Ispettivi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Ha pubblicato fra l’altro L’Ispettore. Problemi di cambiamento e verifica dell’attività educativa.

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La rabbia serva di Hamas. Un catalogo degli “utili idioti” al servizio dei terroristi

Dai collettivi studenteschi pro Pal. ai rettori che si arrendono alle loro richieste. Da quelli che fischiano gli ebrei in visita ad Auschwitz ai cattivi maestri. E poi le proteste mancate e le atrocità non riconosciute. Dieci figure sulla scena antisionista antisemita (più una perla di speranza e di coraggio)

Un arcipelago con dieci isolotti pro Pal., cripto-filo-Hamas, filo Hamas senza cripto. Dieci figure sulla scena antisionista antisemita. Dieci categorie molto agguerrite, e molto sguarnite di cultura e informazioni. Qualcuno, rozzamente, avrebbe detto dieci categorie di “utili idioti”, consapevoli e non consapevoli, al servizio di Hamas. Dieci variazioni sullo stesso tema. Il decathlon dell’antisionismo urlante. Il catalogo è questo. (Più una perla di speranza e di coraggio)   

1) La capra collettiva

Sono il 99,9 per cento dei collettivi, a essere generosi: tutte capre senza speranza. Ignoranti assoluti. Non sanno nulla, blaterano, ululano, eruttano, si esprimono con suoni gutturali ritmati su slogan di desolante inconsistenza. Gridano “Palestine will be free from the river to the sea”, ma Daniela Santus, che è puntuale e sin quasi pignola nell’analisi storica, ha scoperto attraverso un sondaggio che se chiedi loro quale sia questo benedetto fiume e quale questo benedetto mare, le risposte sembrano, pressoché la totalità, delle tristi parodie dello studente asino. C’è chi ha detto: “Dal fiume Eufrate al mar Rosso”. Altri: “Dal fiume Nilo al Mar Caspio”. Altri ancora: “Dal fiume Tigri al Mar Rosso”, ma anche: “Dal fiume Nilo al Mar Rosso”. Qualcuno, tra gli italiani, ha voluto esagerare e mostrarsi capra da premio Oscar: “Dal fiume Alcantara al mar Mediterraneo” o addirittura (e non ce ne eravamo neanche accorti) “dal fiume Tevere al mar Mediterraneo”. Gridano fino all’afonia che da decenni la striscia di Gaza è occupata da Israele. Ma se provi a riferire che no, guardate, scusate il disturbo, tuttavia grazie all’odiato Sharon tutti gli ebrei di Israele se ne sono andati da Gaza dal 2005 e dal 2006 Hamas esercita un potere dispotico assoluto dopo aver scaraventato dai tetti i rivali dell’Autorità nazionale palestinese e aver speso tutti i soldi in armi, missili e tunnel blindati anziché in cibo e ospedali per i civili, ti guardano sgomenti per tanta improntitudine dell’arrogante sionista. Non azzeccano una data. Pendono dalle labbra di notori pro Hamas come Francesca Albanese, degna rappresentante delle inutili e dannose Nazioni Unite. Provate a chiedergli chi sia stato il fondatore del sionismo Theodor Herzl e ne avrete in cambio solo un’occhiata offuscata dall’ebetudine, incapaci come sono di sostenere qualunque tesi o argomento. Fossi un leader del ’68 mi offenderei con chi paragona il ‘68 con questa Intifada de noantri: loro almeno erano brillanti e persino informati. Questi sembrano comparse di Cinecittà a cui viene chiesto di recitare la parte della folla ululante e senza un briciolo di cultura. Ci riescono benissimo. E si divertono pure, con il miraggio delle tende nei cortili universitari.

  

2) Rettori poco retti

Un capitolo a parte merita la categoria dei Rettori italiani, di alcuni Rettori italiani per meglio dire. A differenza di alcuni loro omologhi delle università americane, che si sono ribellati di fronte all’affollarsi violento degli accampamenti antisemiti, questa frazione di Rettori italiani ha fatto capire con evidenza plastica (ci sono i video: quindi se ci sono i video è dogmaticamente vero) in che stato versano le università italiane. Quello di Torino, insieme al Senato accademico con l’eccezione di un’unica eroica dissidente, ha firmato la resa e l’atto di sottomissione mentre i collettivi ululanti reclamavano il boicottaggio delle università israeliane: non fosse una tragedia sembrava una parodia sarcastica dei Monty Python delle Guardie rosse e dei professori umiliati nella Cina della Rivoluzione culturale con le orecchie d’asino e gli sputi e la bastonate dei bravi ragazzi. Per rendere la scelta pateticamente più accettabile si sono inventati a Torino la categoria farlocca del “dual use”, cioè delle ricerche che potrebbero avere ricadute militari, provocando la sollevazione sconcertata di tutti i ricercatori scientifici che fanno ricerca scientifica vera. A Pisa il Rettore ha boicottato ma non ha boicottato, ha detto sì ma anche no, ma insomma doveva dare un segnale di ascolto ai bravi ragazzi che gridavano “from the river to the sea”. Quello di Milano (che poi sarà insolentito dagli insaziabili pro Pal) ha compiuto un capolavoro: per impedire un convegno su Israele previsto nelle aule dell’Università si è inventato un allarme della Digos in cui si diceva che quel convegno avrebbe provocato non un rischio, e neanche un rischio abbastanza alto, ma proprio un “altissimo rischio”. Dopo due giorni la Digos ha smentito di aver intrecciato un dialogo con il Rettore sull’“altissimo rischio” contenuto nell’annunciata manifestazione dei “sionisti”, ma nel frattempo la decisione del Rettore di non rilasciare il permesso e di traslocare il convegno nello spazio virtuale del web era stata già giustamente rifiutata dagli organizzatori. E in Italia ancora non si è materializzato lo spettro di uno dei leader degli accampamenti antisemiti americani che ha esplicitamente dichiarato: dovreste considerarvi fortunati se abbiamo deciso di non ammazzare tutti i “sionisti” (gli ebrei) del campus.

P.S: non tutti i Rettori come quelli di Torino e di Pisa hanno compiuto atto di sottomissione. Quelli di Bologna, Bari e Padova (per ora) hanno tenuto alto l’onore delle università libere: resistere, resistere, resistere.

  

     

3) Carogne purissime

Quelli che fischiano gli ebrei in visita ad Auschwitz sventolando le bandiere pro Pal. e gridando slogan antisionisti all’indirizzo dei parenti dei sopravvissuti della Shoah. Quelli che espongono cartelli con Anna Frank munita di kefiah. Quelli che vogliono cacciare con la forza la cantante israeliana dall’Eurovision, con Greta, che non sa niente di niente, a far da capopopolo dopo essere passata dalla difesa delle balene a quella del capo Hamas Sinwar, la belva che ama seppellire i corpi smembrati dei “traditori”. A Bologna, mentre preparavano le tende per il campeggio Hamas, si è sentita una voce cantare, in arabo: “Gli uomini a Gaza continuano a scavare, torneranno a casa con buste piene di parti del corpo” (i corpi degli ostaggi del 7 ottobre, naturalmente). Quelli che alla Columbia University hanno circondato uno studente ebreo, minacciandolo con slogan feroci. Quelli che in tutta Europa attaccano le sinagoghe, senza che nessuno sollevi nemmeno un abbozzo di protesta, o un briciolo di indignazione, visto che solitamente l’indignazione è una merce così a buon mercato. Quelli che a Manhattan convincono con nodosi, molto nodosi argomenti un teatro a interrompere la rappresentazione di uno spettacolo tratto da uno scritto di Amos Oz, perché bisogna boicottare gli scrittori ebrei e israeliani, ancorché defunti. Quelli che in Australia issano un cartello con su scritto: “Gas the Jews” (ma neanche un comunicato di sia pur temperata dissociazione, nemmeno uno). Poi c’è quella signora che ha avuto a che fare con non si capisce bene quale carriera diplomatica in Italia (ma come fanno a sceglierli così?) e che senza pudore ha insolentito grevemente Liliana Segre, bambina sopravvissuta ad Auschwitz, e non in un giorno qualunque, ma esattamente nel Giorno della memoria, e tuttavia i custodi della memoria resi smemorati dal 7 ottobre hanno fatto passare la cosa come un eccesso di reazione. Quelli che hanno impedito a una ragazza ebrea di entrare nell’edificio di Sciences Po. Quelli che hanno impedito nelle aule universitarie di Roma e di Napoli di parlare a due giornalisti ebrei. Cioè “sionisti”, insomma ebrei.

  

4) Oscar dell’abiezione

L’Oscar dell’abiezione antisemita va, nonostante la fitta concorrenza, a Roger Waters, ottant’anni, ex Pink Floyd: “Hamas era giustificata a resistere all’occupazione del 1967”; “gli israeliani inventano storie, probabilmente i primi 400 israeliani uccisi erano militari e quello non è un crimine di guerra. L’intera cosa è stata poi gonfiata da Israele con l’invenzione di storie su bambini decapitati”.

   

5) Non una di meno, una ti meno

Anche se non si arriva al negazionismo dell’unico satiro al mondo che non fa ridere, cioè il simpatico Daniele Luttazzi che proclama la teoria secondo cui i “presunti” stupri del 7 ottobre sarebbero soltanto miserabili fake news, le donne del movimento autonominatosi “Non una di meno” hanno già decretato che le donne israeliane (ebree ma anche arabe) violentate dai predoni di Hamas sono donne di serie B. Non meritevoli di solidarietà, da ignorare, cancellare, inghiottire nel nulla mentre si esalta la resistenza degli stupratori in lotta contro l’oppressore sionista. Hanno fatto un corteo contro il femminicidio, ma sul femminicidio di massa del 7 ottobre nemmeno una parola, nemmeno un accenno, nemmeno un fiato e anzi a Firenze hanno cacciato con la forza dal corteo una ragazza che voleva ricordare quella strage di donne. C’è chi si stupisce, ma non c’è da stupirsi: loro stanno dalla parte degli jihadisti, e chi se ne importa delle donne ebree. Da loro neanche una parola, un accenno, un fiato persino sulle donne afghane che i talebani di nuovo al potere hanno nuovamente segregato, picchiandole, impedendo di studiare alle ragazze e alle bambine, imponendo alle donne oppresse con una crudeltà indicibile di indossare il burka dell’umiliazione e con la minaccia della fustigazione pubblica se solo osassero uscire di casa senza un maschio barbuto al comando. Non una parola, un alito, un accenno anche di sfuggita sulle donne iraniane che si fanno ammazzare sulle strade di Teheran per rivendicare il diritto di non seppellirsi nel buio del velo obbligatorio e insomma per il diritto di essere libere. Sì, il taglio di una ciocca di capelli ogni tanto da modelle e attrici non si nega a nessuno. Ma quando si scopre che Nika Shakarami, una ragazzina sedicenne nell’Iran degli ayatollah, è stata violentata dagli energumeni della “polizia morale” prima di essere assassinata nel mattatoio allestito dal regime è come se la notizia non esistesse. E nemmeno un pensiero, non uno di meno, di sapere come vengono trattate le donne dai tagliagole di Gaza, senza il barlume di una libertà, di una dignità pubblicamente riconosciuta, come accade invece nelle fetenti terre dell’“entità sionista”. Ma non c’è verso, non si fanno convincere. Sbadigliano. Eludono. Fanno finta di niente. Proponiamo una manifestazione di “Non una di meno” davanti all’ambasciata iraniana? Ma non esiste proprio, come si dice a Roma con la solita indolenza cinica e un po’ stracciona: quella non è nemmeno la “cultura patriarcale” che opprime le donne dell’occidente. Anzi, la notte in cui l’Iran ha attaccato Israele con missili e droni, da quelle parti non una di più ha evitato di tifare per i bombardieri di Teheran. E continueranno, eccome se continueranno.

6) Lo slogan più trucibaldo

Quello gridato dagli accampati di Harvard, un tempio della cultura e del sapere oggi diventato covo di nefandezze antisemite, e che recita così, testuale: “Goodbye Nazis, go back to Poland”. Gli ebrei che devono tornare in Polonia, cacciati dalla Palestina. Che accadde agli ebrei in Polonia? Chiedere dettagli ai professori universitari del Boycott Israele.

  

    

7) Profumo coloniale

Quelli che dicono che il sionismo è stato un progetto infame di infami e ricchi colonialisti venuti in Palestina per opprimere con le loro potenti armi e i loro imbattibili eserciti i palestinesi. A loro si potrebbe dedicare una citazione tratta da “Una storia di amore e di tenebra” di Amos Oz, alle pagine 160-161 dell’edizione italiana Feltrinelli, per la traduzione di Elena Loewenthal: a Gerusalemme, nel 1934, “nei cortili sorsero magazzini, piccoli capanni, tetti di lamiera, baracche montate alla bell’e meglio con assi ricavate dai bauli in cui i residenti avevano trasportato le proprie cose, come in virtù dell’ambizione di ricreare in questo posto copia perfetta dei borghi d’origine, in Polonia e Ucraina, in Ungheria e Lituania. (…) E intanto a Kerem Abraham abitavano piccoli impiegati dell’Agenzia ebraica, insegnanti, infermiere, scrittori, autisti, segretari, rivoluzionari, traduttori, commessi, pensatori, scribacchini, cassieri di banca o di cinema, ideologi, modesti negozianti, anziani soli che tiravano avanti con i loro risparmi in miniatura”. Colonialisti furiosi, davvero. Privilegiati come le infermiere e gli scribacchini che erano scappati dai pogrom: “Tutti cercavano di credere che i tempi brutti sarebbero passati, che lo stato ebraico sarebbe sorto quanto prima e tutto sarebbe cambiato in meglio: già, la misura delle disgrazie era ormai colma”. Disgrazie colonialiste. Pogrom antiebraici colonialisti.

  

8) Il fantasma dell’illibertà

Dovunque nel mondo c’è una tirannia, una qualunque forma di illibertà, lì senza alcun dubbio troverai Mein Kampus (copyright Giuliano Ferrara). E’ una legge inderogabile, che non conosce eccezioni. Se c’è da protestare per qualche dissidente cinese sparito nelle segrete di Pechino, lì certamente non troverai nessuno dei chiassosi collettivi. Se si è sgomenti per la sorte della popolazione musulmana degli Uiguri in Cina, questo sentimento non sarà condiviso da nessuno dei musulmani jhadisti che tanto attraggono il Movimento. Così attenti a quel che accade a Gaza, eppure non muoveranno mai un dito, men che meno alzeranno le loro possenti voci, per deplorare i bombardamenti dell’amico Putin su un ospedale pediatrico di Mariupol, per la strage di Bucha, per le pizzerie di Kramatorsk distrutte dai missili con tutti i civili bruciati dai potenti denazificatori di Mosca, per i condomini colpiti a Kyiv durante la notte per fare quanti più morti possibili, per il terrore sparso sulla cittadinanza di Odessa. Per la sorte di Navalny, poi, il silenzio è assoluto, senza increspature, ghiacciato come la Siberia in cui Putin aveva spedito il più famoso dei dissidenti. Non fanno rumore i dissidenti avvelenati, il ricordo di Grozny rasa al suolo, le migliaia di bambini ammazzati ad Aleppo e nel resto della Siria dal duo di tagliagole formato da Assad e Putin. Niente, sempre amici. E neanche un brivido solidale con i ragazzi di Tbilisi che portano le bandiere della Georgia e dell’Europa mentre i filo-russi vorrebbero bastonarli bestialmente come “agenti” di “influenze straniere”, cioè con la testa e con il cuore rivolto all’odiato occidente scomunicato dal Patriarca Kirill, la vera guida spirituale dei movimenti oscurantisti che si agitano nelle piazze e nelle università del mondo democratico. Lì il principio di autodeterminazione dei popoli non viene nemmeno menzionato. Quei coetanei della Georgia vogliono la libertà? Ma i seguaci dell’illibertà non hanno nulla da spartire con loro.

  

     

9) Cattivi maestrini

E poi ci sono gli insegnanti, i docenti, i professori, frutto dello sfascio della scuola, in tutta evidenza. Anche Jonathan Lethem, oltre a essere uno scrittore, è un professore. Non è figlio dello sfascio della scuola italiana, ma la superficialità del corpo insegnante oramai senza argini non conosce confine, barriera, frontiera, lingua. E Lethem questo insegna ai suoi allievi a proposito di Israele e antisemitismo: “Si tratta di combattere un governo sanguinario e corrotto. E’ una coerente e persistente critica rivolta allo Stato di Israele e alla sua politica di apartheid”. Ecco la parola chiave che unisce tutti i cattivi maestrini: apartheid. Anche gli insegnanti italiani, firmando il manifesto per il boicottaggio di Israele, fanno ricorso a quella parola: apartheid. Hanno scritto che i palestinesi combattono non contro il governo di Israele, ma contro 75 anni di oppressione, cioè contro lo Stato di Israele in quanto tale, secondo una risoluzione dell’Onu in cui si stabiliva il principio del “due popoli, due stati” (“due stati democratici”, specificava con la sua consueta pignoleria sanamente iper-liberale Marco Pannella). Poi in un altro manifesto è venuta fuori la cifra di 70 anni, che è una cifra un po’ casuale, tanto per dire un numero, tanto per sparacchiare una data così per dire, visto che non si ricorda negli annali della storia qualcosa di totalmente decisivo avvenuto nel 1954. Ma i professori italiani anti Israele e filo Intifada non arretrano di un millimetro: apartheid deve essere e apartheid sarà. E i parlamentari arabi alla Knesset? Non contano: apartheid. E la nuova Rettrice araba dell’Università di Haifa Mona Maroun? Non conta: apartheid. E il partito Raàm, arabo-israeliano, che nel 2021 aveva un suo esponente nel governo, addirittura viceministro degli Interni? Non conta: apartheid. E le donne arabe israeliano stuprate il 7 ottobre? Non conta: apartheid. Non contano i dati di fatto, le circostanze, l’inverosimiglianza di un popolo segregato che pure esprime un ministro del governo. Conta solo il mantra, la formuletta narcotizzante da ripetere all’infinito senza interlocuzione, senza confronto, senza amore per la cultura e per la storia. Come nel caso dell’insegnante di Torino, che dopo aver declamato una lezioncina contro l’orrore di Israele che opprime da sempre i palestinesi, ha preteso dai suoi sfortunati studenti un temino sull’argomento: con quale libertà per i poveretti costretti a ripetere le fesserie dell’insegnante per non essere bocciati è facile immaginare.

  

10) Intifada (anti)gay

Ecco il risultato di una ricerca indipendente pubblicata in Italia da Fanpage: “A Gaza essere omosessuale è un reato punibile con la morte. E’ infatti in vigore l’ordinanza del codice penale inglese del 1936, che criminalizza i rapporti omosessuali tra uomini adulti anche se consenzienti”. E ancora, e soprattutto: “Nel 2016, il braccio armato del gruppo militante palestinese Hamas ha giustiziato Mahmoud Ishtiwi, uno dei principali comandanti del gruppo, con l’accusa di sesso gay e furto. Molti palestinesi Lgbtq+ hanno cercato rifugio in Israele. Secondo l’avvocato Shaul Gannon, dell’organizzazione Lgbtq+ israeliana The Aguda – Israel’s LGBT Task Force- circa 2.000 omosessuali palestinesi vivono a Tel Aviv. Secondo Pew Research, il 93 per cento della popolazione palestinese è completamente contraria all’omosessualità, una percentuale tra le più alte al mondo. La Palestina è stata anche nominata da Forbes come uno dei paesi peggiori al mondo per i viaggiatori Lgbtq+”. Ma niente, la sorte degli omosessuali scaraventati dalle finestre nel regime dispotico di Hamas a Gaza non è in cima alle preoccupazioni delle truppe che nelle metropoli occidentali sventolano le bandiere dell’orgoglio gay insieme a quella dei predoni asserragliati nei tunnel di Gaza. Se avessero voglia di leggere (ma ne dubito) e avessero il coraggio di affrontare una storia che scardina tutte lo loro certezze, i gay occidentali che senza pudore e senza dignità buttano nella spazzatura i gay palestinesi trucidati potrebbero chinarsi sulle pagine del romanzo di Cinzia Leone, “Vieni tu giorno nella notte”, per comprendere il dramma, la tragedia degli omosessuali della Palestina perseguitati dal regime, ripudiati dalle loro famiglie, costretti a fuggire in Israele dove, tra le mille contraddizioni di qualunque società in bilico tra tradizione e modernità, si è tuttavia liberi di amare. O ricordare la storia di Ishtiwi, già dirigente di Hamas, scoperto come omosessuale nel 2016, malmenato e poi torturato, che scrisse in ceppi: “Mi hanno quasi ucciso”. Ma forse, diranno gli acuti protagonisti delle piazze d’Occidente, era una spia sionista che si è inventato tutto.

Però…

Poi ci sarebbe la categoria dei coraggiosi, e che non avrebbero nessun interesse, per mestiere e vocazione, a mettersi contro l’ondata mainstream post 7 ottobre. Uno per tutti: Vasco Rossi, che in un’intervista al Corriere della Sera ha detto: “’Free Palestine’ è un bello slogan, ma se implica la distruzione dello Stato di Israele, allora sarebbe più onesto dirlo. E alla distruzione di Israele io mi ribello. Leggo cose superficiali, in cui non mi riconosco. Mi hanno dato del sionista, ma io non so neppure cosa voglia dire. So che se mettessi il like a ‘Palestina libera’ mi amerebbero tutti; ma io non sono fatto così”. Menomale, grande Vasco.  

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